Le cronache del tempo si sono limitate a segnalare i nomi di otto donne, tra i 105 feriti delle bombe del 12 dicembre 1969.
A Milano: Patrizia Pizzamiglio, la sedicenne seriamente ustionata nel salone della Banca e Gabriella Bodini, l’impiegata della banca che lavorava all’ammezzato.
A Roma: Luciana Conti, Maura Mazzerioli, Lucia Misiani, Luisa Talone, Elena Morichelli, Maria Antonietta Esposito, tutte dipendenti della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio.
Tante altre donne, solitarie e coraggiose, protagoniste di una lunga e dura battaglia, contro un cinismo maschilista senza fine, tra l’indifferenza e in molti casi il fastidio dei più, hanno avuto le loro vite profondamente segnate dalla “madre di tutte stragi”.
Non sono in molti a sapere chi sono: Costantina Ferrari, Annunciata Balossini, Anna De Gubernatis, Luigina Corbellini, Angela Maria Agosteo, , Maria Massa, Annamaria Maiocchi, Nives Giovesi, Anna Villa, Guida Locatelli, Maddalena Garzetti, Olga Cottini, Licia Rognini.
Per gli immemori sono nell’ordine, le vedove: Arnoldi, China, Corsini, Dendena, Gerli, Meloni, Mocchi, Pasi, Perego, Sangalli, Scaglia, Silva , Pinelli.
I loro nomi figurano sulla lapidi di Piazza Fontana, vittime innocenti, ancora in attesa di giustizia.
Quasi sconosciute e ignorate, le figlie delle vittime: Giuseppina Arnoldi, Gabriella China, Francesca Dendena, Rosa Galatioto, Virginia Gaiani, Eugenia Garavaglia, Carla Maria, Clementina e Vittoria Gerli, Orsola Emilia e Rita Scaglia, Artura e Lucia Valè, Silvia e Claudia Pinelli.
Ignorate soprattutto dalle istituzioni.
Con lo scippo delle indagini, da parte della Procura di Roma che sottrasse il processo al suo giudice naturale e con le successive decisioni della Cassazione di trasferire il processo, prima a Catanzaro e poi a Bari. iniziò il lungo calvario delle donne di Piazza Fontana.
Un “stupro giudiziario”, ai danni delle vedove di Piazza Fontana, voluto dalla Suprema Corte per compiacere i burattinai della strategia della tensione, che ancora oggi costituisce una ferita mai rimarginata ulteriormente aggravata dalla decisione, sempre della Suprema corte di condannare i familiari al pagamento delle spese giudiziarie.
Cinismo crudele, quello della Suprema Corte, che aggiunse al dolore per la morte dei propri congiunti, anche la palese volontà di impedire, di fatto, la partecipazione dei familiari al processo, con il loro carico di lutto e di dolore
Penso a quel telegramma che spedì la signora Rosa Galatioto, figlia di una delle vittime e che figura tra gli atti del processo di Catanzaro.” Sono amareggiata dall’ambigua situazione processuale del caso Valpreda, dall’inefficienza del sistema giudiziario italiano, dalla mancanza di qualsiasi certezza giuridica. Sono avvilita dalle conclusioni tratte dalle pubblicizzate pressioni e dalle equivoche conclusioni della Magistratura, mentre i morti attendono l’irraggiungibile verità”.
Il telegramma porta la data del 19 marzo1974 ma è più attuale che mai.
A scendere in lotta al fianco di vedove e figli delle vittime da subito furono i lavoratori della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Non a caso una giovane donna, Anna Chiara Andronico, Segretaria della Sezione Sindacale Fidac Cgil della Direzione Generale di Roma scrive nel gennaio 1972, su “Cassa…continua” il giornale sindacale aziendale della Filiale di Milano,: “Svegliamoci, questo è un periodo di pericolosa crisi della nostra democrazia. C’è chi non aspetta altro, voi a Milano lo sapete bene, per affondare la democrazia e con essa le conquiste dei lavoratori. Tocca a noi far intendere che abbiamo capito e che non lo permetteremo”.
Il Consiglio d’Azienda il 30 maggio 1974 sfila con il suo striscione “Da Piazza Fontana a Brescia, no alla violenza fascista” con in testa Cinzia Casaccia e Emanuela Balbiano.
A battersi per la costituzione parte civile solo contro i nazifascisti e i Servizi segreti sono , Stefania Paridi, Gabriella Gerotto, Anna Maria Lunardon, Mariella Magnelli, e tante altre giovani lavoratrici assunte dopo il 1969.
Ricordo due lunghi e faticosi viaggi, del luglio e del dicembre 1977, 16 ore di treno fino a Catanzaro. Con il Sindaco di Milano Carlo Tognoli, Tino Casali, Luigi Passera, Clementina Gerli, una professoressa che per prima parlò ai suoi studenti della strage, Francesca Dendena e altri familiari delle vittime, i rappresentanti delle forze politiche e sociali milanesi. Fummo ricevuti dal Sindaco Mulè, dal Presidente della Provincia Petronio e dal Presidente della Corte Scuteri.
“Sono qui –dichiarò Francesca ai giudici – perché voglio credere che questa Corte possa ancora rendere giustizia, nonostante tutto”.
Nell’ottobre del 2007 mentre lavoravo alla bozza finale di “Piazza Fontana nessuno è Stato” le chiesi “Sei delusa Francesca?”
Il suo sguardo si velò dalla commozione, ricacciando indietro una lacrima.
“No, sono solo amareggiata, ma non pentita della battaglia che insieme agli altri familiari abbiamo combattuto. Lo ricordo bene anch’io quel viaggio a Catanzaro. Mentre ero sul pretorio, dell’Aula, allestita presso la palestra del carcere minorile, attonita e timorosa perché mi trovavo per la prima volta a tu per tu con i giudici che dovevano garantire la giustizia per la morte di mio padre, Freda, incurante di quel che accadeva intorno, sfogliava annoiato un libro: “la biografia di Giuliano l’apostata” avrebbe precisato un giornalista l’indomani. Sono disposta a rifarlo quel viaggio, perché ho il diritto di chiedere che in un’aula di giustizia si debba parlare del 12 dicembre del 1969.
Non posso dimenticare che, mentre io ero timorosa e rispettosa davanti alla Corte, Freda fingeva il più assoluto disinteresse, anzi subito dopo scoprimmo tutti insieme che agli imputati era stata concessa per il loro relax una saletta da dove potevano rilassarsi.”
La signora De Gubernatis, vedova di Eugenio Corsini, durante quel viaggio a Catanzaro, mi aveva raccontato piangendo come aveva appreso della morte del marito: un rappresentante di oli per motori agricoli. Le aveva detto che si sarebbe recato in banca per un versamento. Poi a tarda sera non vedendolo tornare cominciò a tempestare di telefonate gli ospedali, la polizia i carabinieri,
“Nessuno seppe dirmi nulla, nemmeno in banca, dove mi fu risposto che era accaduta una tragedia. A notte alta fu la Prefettura a darmi la terribile notizia. Avevano trovato tra i brandelli di carne i suoi documenti. Il mattino dopo lo riconobbi dalla catenina che portava al collo e dalla fede. Questo era rimasto di lui.”
Anche lei conservava un nitido ricordo di quel viaggio. Le lunghe ore di treno, fino a Lamezia Terme, la corsa a prendere la coincidenza della “corriera” per Catanzaro, già piena dei passeggeri locali, il trasferimento in piedi nel corridoio centrale dell’autobus, l’arrivo all’autostazione di Catanzaro, il tentativo di salire su uno dei quattro taxi in attesa, già tutti prenotati da avvocati e giornalisti, il tratto di ottocento metri a piedi, per salire in collina fino al carcere minorile. Gli ultimi faticosi duecento metri, sostenuta a braccia, dagli altri familiari, per i problemi di circolazione alle gambe di cui la vedova settantenne soffriva.
L’ingresso esausta in aula, il Presidente Scuteri che scende dal suo scranno, le porge un bicchiere d’acqua e si scusa per il disagio provocato..
Le vite, le emozioni, i sentimenti, le avversità, i sacrifici, di donne all’interno di nuclei familiari, privati del capo famiglia, sono state e lo sono ancora trascurate.
Dopo la sentenza di assoluzione tombale della Cassazione, Annamaria Maiocchi, la moglie di Vittorio Mocchi, morto nel 1983, per le terribili ferite inferte dalla bomba, a chi le chiedeva se non era il caso di pensare al perdono rispondeva:
“Se la giustizia ci avesse indicato dei colpevoli, dei responsabili della strage, innanzitutto gli avrei chiesto: perché. Perché tanta ferocia e tanta cattiveria contro delle persone innocenti e poi, forse, sarei stata anche capace di perdonare”.
Del resto basta rileggere frammenti di ricordi di Francesca Dendena , iscritta quest’anno al Famedio del Cimitero Monumentale, per rendersi conto del duro percorso delle donne di Piazza Fontana.
“Un lutto porta profondi cambiamenti nella vita di una persona, pensiamo cosa possa avvenire nella vita delle persone il cui lutto è un vile assassinio. Comunque non c’è più stata la ragazza che ero.
Nel dicembre 1969,avevo diciassette anni. Quando andammo a recuperare la macchina di mio padre, morto nella strage, incontrammo alcuni giornalisti e a me – forse per esuberanza giovanile – venne spontaneo dire: «Mai più… Una cosa del genere non dovrà più succedere». E io, dicevo a me stessa, avrei dovuto impegnarmi affinché un’esperienza così terribile non dovesse capitare ad altri. Forse si trattava anche di un modo di ammortizzare il dolore, ma questo lo dico adesso, col peso di quarant’anni trascorsi, e nemmeno posso esserne sicura. Una cosa è certa: ci siamo buttati a capofitto in questa battaglia da subito. Direi che in alcuni momenti questa istintiva voglia di combattere ci ha salvati, ci ha fatto sopravvivere anche quando siamo stati costretti a girare l’Italia, subendo lo spostamento del processo da Milano a Catanzaro: noi non ci siamo mai fermati, anche se le difficoltà, non lo nascondo, erano enormi. E abbiamo continuato a chiedere risposte, anche e soprattutto a quelle istituzioni da cui ci sentivamo delusi. Devo dire che alcuni familiari di piazza Fontana rifuggono invece ancora oggi dagli appuntamenti istituzionali. Sono persone che ritengono di evitare appuntamenti con quelle strutture che reputano corresponsabili nella nostra tragedia.
Credo si tratti di un meccanismo di difesa, che personalmente non condivido, pur essendo per molti versi comprensibile e rispettabile, giustificato da molte circostanze. Insomma, non mi permetto certo di criticarlo, ma credo che se certi risultati li abbiamo ottenuti lo dobbiamo proprio alla caparbietà di chi non si è mai arreso, anche continuando a chiedere risposte alle istituzioni. Risultati incompleti, certo, ma da non sottovalutare.
«Perché? Perché una strage del genere, a chi giova?». Ancora oggi è difficile dare una risposta… In sintesi mi sento di dire questo: era una stagione in cui gli operai, o, più in generale, la fascia “media” della popolazione, stavano lottando per acquisire diritti e si cominciava a intravedere qualche risultato concreto penso ad esempio allo Statuto dei lavoratori, che arrivò a piena approvazione dopo qualche mese), ma qualcuno voleva fermare quel percorso di crescita dei diritti. Tieni conto, però, che su queste cose possiamo ragionare oggi, a tanti anni di distanza, mentre allora una riflessione del genere non era così immediata. Inoltre non è nemmeno sicuro che quel ciclo storico sia terminato. I tempi della Storia non sono quelli della vita umana, e proprio la mancanza di chiarezza sulla stagione delle stragi fa pensare che le protezioni e le connivenze verso i terroristi, insieme alla cappa di mistero che ancora grava su molti episodi, siano dovute al fatto che certe forze sono ancora attive e influenti in Italia. Tra l’altro, quando si parla di stragi si parla di fatti per molti versi analoghi e con “attori” in comune, che si iscrivono sicuramente in un quadro generale, ma che si differenziano per momenti politici comunque diversi, da piazza Fontana alla strage di Bologna del 1980.
La memoria di una donna che non riuscì mai a piangere suo padre, ma andò in piazza a cercare giustizia.
Francesca è scomparsa nell’ottobre del 2010.
I suoi familiari la ricordano andando nelle scuole a raccontare il suo impegno civile che Francesca ci ha lasciato prima di morire con le sue testimonianze raccolte dal nipote Matteo Dendena nel bellissimo libro: Ora che ricordo ancora e nella tesi di laurea, presso la Facoltà di Giurisprudenza, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presentata nell’anno accademico 2008/2009, dalla nipote Federica Dendena, Piazza Fontana 40 anni dopo. I profili processuali. Relatore il Professore Angelo Luigi Giarda.
La storia “dal basso” è un buco nero, una ferita sanguinante non rimarginata, bersaglio, ancora oggi, di schegge vaganti della bomba di Piazza Fontana.
Schegge che hanno colpito e continuano a colpire, l’universo femminile e non solo, che rendono drammaticamente ancora attuale il pericolo stragista e i rigurgiti di una rivincita antistorica.
Anna Procacci, una studiosa del ruolo della donna nella società moderna e del tortuoso percorso delle sue lotte per l’emancipazione osserva in un sua ricerca che ha evidenti assonanze con le donne di Piazza Fontana:
“Quando in un paese che ha vissuto una esperienza così lacerante, si agisce archiviando e occultando il ruolo svolto da una precisa identità di genere per lasciare frammentata ogni testimonianza, al fine di giustificare la sua irrilevanza nella storia che conta, allora diventa giustificato il sospetto di trovarci di fronte una storiografia assoggettata a un sistema di potere e, come tutti ì sistemi, si rivela discriminante e pregiudiziale ai danni di chi è escluso da quel potere.
È un fatto che dalle cronache, dai giornali, dagli stucchevoli salotti televisivi, in servizio permanente effettivo, dal cinema, dalla musica, dall’arte visiva, dalla storiografia scolastica, insomma dalla memoria collettiva, sia bandito ogni riferimento forte, sul ruolo di eroine civili in carne ed ossa, sulla tremenda stagione del terrore e delle stragi, nasce spontanea una domanda: perché la donna è assente o ridotta a figura di contorno dall’informazione e dai libri di storia scolastici quando è da essi che i nostri figli e nipoti apprendono la storia?.”
A occuparsi di Piazza Fontana erano tutti maschi.
A parte Camilla Cederna che su “L’espresso” tuonava contro il Questore Guida, Catenacci, Federico Umberto D’Amato, Provenza, Calabresi e Allegra ricordo una giovanissima e aggressiva Tiziana Maiolo, che sul Manifesto scriveva velenosi articoli, contro l’establishment,
A controllare il rigoroso rispetto delle veline del Ministero dell’interno erano i servili Direttori dei grandi quotidiani. A Piera Rolandi della sede Rai di Milano, che chiedeva di occuparsi della strage, la Direzione di Rete rispondeva che non era un argomento opportuno per una donna.
Faceva eccezione Italo Pietra che garantiva la stessa autonomia dei vari Bocca, Nozzoli e Nozza, giornalisti pistaroli di cui si è perso lo stampo, ad Adele Cambria e Natalia Aspesi; puntuale e incisiva era anche Marcella Andreoli sull’Avanti, moglie di Giulio Obici di Paese sera, un altro coraggioso pistarolo.
Persino il lavoro di controinformazione era di esclusiva competenza maschile.
La Magistratura aveva arcigni supervisori, ossequienti censori di posizioni non ortodosse, come dimostra la proposta di provvedimento disciplinare, dei vertici del Tribunale di Milano, nei confronti di Guido Galli, Domenico Pulitanò e Edgardo Greco che avevano osato criticare la decisione di impedire al giudice naturale di celebrare a Milano il Processo di Piazza Fontana.
In questa galleria di figure femminili che hanno avuto, la vita stravolta dalle schegge della bomba di Piazza Fontana non potevano mancare le donne della famiglia Valpreda: Rachele Torri, Olimpia Torri, Ele Lovati e Maddalena Valpreda, imputate per falsa testimonianza nelle sei udienze tenute presso il Tribunale di Roma tra fine febbraio e inizio marzo1972. Siamo al livello di una tragicomica farsa, inscenata da una magistratura senza pudore. Un’umiliazione ripetuta a Catanzaro fino all’inevitabile assoluzione.
A Catanzaro tra la folta schiera di corrispondenti dei più grandi giornali italiani, tutti rigorosamente maschi, ricordo i servizi e di Carla Mosca per “Il manifesto”.
Dopo la sentenza di Bari, nel 1986, grazie alle “Edizioni dall’interno”, Leonardo Rinella, sostituto procuratore generale della Repubblica, Nicola Magrone sostituto procuratore, a Bari, e una donna, Laura Pavese, pretore a Cerignola, sono gli autori di una coraggiosa iniziativa editoriale: un cofanetto di tre volumi “Ti ricordi di Piazza Fontana?” vent’anni di storia contemporanea dalle pagine di un processo. Al progetto collaborano anche, Clara Zagaria, giornalista dell’ANSA e Clelia Galantino, giudice istruttore a Bari.
Quando il processo, grazie alle indagini di Guido Salvini approda a Milano, se ne occuperanno altre donne magistrato, Clementina Forleo, Grazia Pradella e Laura Bertolè Viale, compagna di scuola al Liceo D’Annunzio di Pescara di Emilio Alessandrini.
Nella copiosa pubblicistica, fino ai giorni nostri su Piazza Fontana, quasi tutti di autori maschi, fanno eccezione, Antonella Beccaria, Maria Elena Scandaliato, il bel libro di Benedetta Tobagi, “Piazza Fontana il Processo impossibile” e i suoi programmi radiofonici, Raffaella Foletti, Valentina Bertuccio D’Angelo e recentemente i servizi televisivi di Rai Storia di Vanessa Roghi, il lavoro di ricerca di Ilaria Moroni. I servizi di Anna Migotto, Mary Mirka Milo e Sabrina Pisu.
Nel 2016 AR, la casa editrice di Franco Freda ha pubblicato “Non ci sono innocenti” di Anna K. E Silvia Valerio, rispettivamente moglie e cognata dello stesso Freda. La storia sotto forma di romanzo è ispirata e dedicata, per ammissione delle stesse autrici a Giovanni Ventura, in realtà si tratta di un monologo e di un peana sotto forma di romanzo a “Giulio l’autocrate”, vale a dire Franco Freda. Una ricostruzione che mira a dare una improbabile motivazione e morale e culturale alle vicende, che a fine anni ’60 portarono alla nascita della libreria Ezzelino a Padova, del gruppo di Freda e Ventura. Una sorta di giustificazione sociale, politica e rivoluzionaria, agli scontri in piazza, alle bombe, all’ azione e all’occupazione delle università, dei nazifascisti veneti stanchi di essere condizionati dal MSI, e alla nascita dello stragismo. Il romanzo si interrompe prima dell’attentato di Piazza Fontana. Le presentazioni del libro sono organizzate nei circoli di Casa Pound, Forza Nuova e Fratelli d’Italia tra un tripudio di recensioni entusiaste. Ne parlano anche Paolo Morando e Enrico Deaglio nei loro libri pubblicati di recente.