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#25/11/2020

In questa Pagina Speciale sono raccolti tutti i contributi creativi che hanno composto la Maratona Poetica organizzata dal Blog e la sua Pagina Facebook in collaborazione con il Gruppo Facebook “Come l’increspatura di un’onda” da un’idea di Marina Neri e Angela Scaglione. 

 

disegno di Alessia Bordin

 

Non basta più scriverlo bisogna attuarlo…lei non c’entra, lei ti Amava, è solo colpa nostra…basta con la frase ” ti amo da morire ” Ti Amo da Vivere”
di Franco Aparo
Violenza di Ernesto Aufiero
La violenza è mia madre che piange in silenzio, seduta su una sedia, mentre noi la guardiamo in silenzio, in piedi attorno a lei. Mio padre se n’è andato di punto in bianco, ci ha lasciato soli, è scappato. Non una parola, non una spiegazione. Ho venticinque anni, il maggiore di quattro fratelli, il più piccolo ha nove anni e mi guarda. Metto una mano sulla spalla di mia madre, non so se per confortare me o lei, che sussurra a testa bassa: “L’ho sempre amato, lo amerò sempre”.

 

Annullata di Michela Battistella

Povera…non sai dire di no, credi di non averne il diritto;

Rassegnata…cerchi di vedere il bello anche dove non c’è;

Disperata…non vedi alternative ad un’esistenza senza amore;

Annullata…quella continua violenza ti ha ucciso l’anima.

Vattene, scappa,

non sarai mai più povera se farai valere i tuoi diritti,

non conoscerai la rassegnazione se sarai tu a decidere,

non vivrai la disperazione se imparerai che l’amore è in ogni cosa,

non sei e mai sarai annullata, la tua anima è più forte di lui.

da Carla Bisogno
Era uno molto violento, Mio padre”.
La massacrava di botte mia madre.
Lo ricordo bene, ed è vero certi ricordi tornano limpidi, è come riviverli ogni volta.
Il primo episodio, lo ricordo benissimo.
Avevamo la famiglia di lui a cena, la famiglia Leonardi, cognome che ho odiato con tutto me stesso.
Una tribù patriarcale tanto quanto basta per considerare normale ogni forma di violenza, fisica compresa.
La serata era finita, non ricordo cosa abbia innescato la discussione se tale si possa definire, fatto sta che poche parole urlate da lui, risposte accennate e sottomesse da lei ed in un attimo, una pentola sporca della cena, la prima cosa che si è trovato tra le mani e via, in piena nuca mentre lei cercava di scappare.
Un rumore cupo l’acciaio in testa.
Un tonfo in terra il corpo di lei.
Il rumore della pentola riposta nel lavandino della cucina, la porta della sua camera da letto che si chiudeva su quella che è stata per me parte della fine dell infanzia.
L’ho alzata da terra priva di sensi con tanta fatica, avevo sette anni, e lo ricordo ancora, ricordo tutto.
Ricordo ancora il freddo dell ovatta passata sotto il rubinetto della cucina che usai per rinvenirla,
Ricordo i suoi lamenti di dolore misti ai miei.
Ricordo le sue rassicurazioni ad occhi chiusi quando si è resa conto della mia paura, della mia disperazione.
Una mano che teneva il mio viso, e l’altra che teneva la sua testa stesa sul divano.
Ricordo la sua disperazione.
Ricordo il terrore nei suoi occhi.
Ricordo il terrore nei suoi occhi di tutta la vita vicina ad un uomo violento.
Le ho detto tante volte crescendo, “perché non vai via?”
E la risposta era sempre la stessa, “io lo faccio per voi, chi ci dà da mangiare…infondo, è un bravo uomo”.
Ed io cominciai ad ingrassare, a diventare largo, ingombrante, tanto da impedire alle braccia di mio padre, di farle tante volte del male, ma non riuscivo tutte le volte, ed allora, per non sentire il male, lo facevo a me stesso…perdendomi ogni volta.
“Chissà se stasera toccherà a te o a me”, esordiva verso ora di cena, l’ora in cui tornava.
Tante volte, per evitare di scoprire la risposta, la causavo.
La violenza in casa la respiravi, e non di certo si fermava alle botte.
Oggi sono un uomo, libero anche di non appartenere più a quel dolore.
Oggi, il mio pensiero va a tutte le DONNE, quelle a cui ogni uomo, sentendosene in diritto, ha torto anche un sol pensiero.
Mi rivolgo a voi da figlio di donna maltrattata, da uomo oggi che sa quanto vale un dolore.
Non fatelo per noi figli,
Non fatelo per la carriera,
Non fatelo per apparire,
Fatelo soltanto per Voi,
VI PREGO, ABBIATE IL CORAGGIO DI NON PERMETTERE A NESSUN UOMO DI CALPESTARVI L’ANIMA, VOI SIETE DONNE.
(Luigi)
Il valore di una donna
di Carla Bisogno
Che valore ha la vita di una giovane donna passata dall’adolescenza ai viali di periferia di una metropoli? L’ha spinta la miseria, la speranza mascherata da opportunità, un buon lavoro ben pagato. Tutto falso. Degli uomini brutali e violenti la costringono a vendersi non prima di averla abusata e poi gettata in pasto, ad altri in quella strada dove le donne sono merce di scambio. Esce da quella stamberga dondolando su tacchi altissimi, coperta su pochi centimetri di pelle da abiti vistosi che lasciano immaginare tutto. Il suo corpo frugato, toccato, violato, abusato, svuotato di ogni dignità, ha gli occhi come laghi senza acqua, pozzi neri dove il sole non batte più. L’hanno trovata stamattina sulla panchina di un parco, la testa riversa, un buco nel cuore.
Nel nero della notte
di Carla Bisogno
l ronzio del televisore acceso
caldo e finestre spalancate , immagini forti e dialoghi duri , violenti
lacrime copiose, silenziose allagano il viso.
Nel nero della notte quelle lacrime lavano un dolore antico, purificano quel corpo innocente violato , sporcato fin dentro l’anima.
Non basteranno tutte le lacrime del mondo a nettare quelle membra acerbe, quei seni appena sbocciati, quella natura serbata nel profondo. Solo ieri correva in quel prato di margheritine , braccia nude incontro alle nuvole , sul viso un sorriso da bambina.
Con l’augurio, mio più grande, di aiutarvi a diventare degli uomini responsabili, rispettosi di voi stessi e di tutto ciò che vi circonda, di saper amare e appassionarvi e sorridere e saper accettare anche i momenti più bui senza mai perdere la luce.
Lavorerò con voi perché possiate essere liberi, e la vostra libertà sarà il dono che offrirete a chi incontrerete nella vita.
Lavorerò con voi, per darvi la possibilità di comprendere che l’amore non si pretende, non grida, non lascia segni sul corpo, non sminuisce, non offende, non condiziona la mente.
Veronica Boggian

Alle mie figlie

di Sara Bonfantoni

Alle donne che sarete, così uguali così diverse:

siate voi! In ogni respiro.

Io posso

Io voglio

Io scelgo

Se le parole sembrano leggere,

le azioni sono un impegno.

Io posso

Io voglio

Io scelgo

Rifuggite le ombre del dover essere,

calpestate i copioni già scritti.

Io posso

Io voglio

Io scelgo

Rinunciate ai compromessi sul vostro valore,

disegnate con mano ferma il vostro destino.

Io posso

Io voglio

Io scelgo

Voi, figlie di chi ha deciso di rompere gli argini,

abbiate la forza di farvi marea!

 

… lei e dio … di Francesco Briganti
giaci straccio sporco
lordata del tuo dolore
ovunque rotta e persa
l’anima corre nell’oblio
disperata incompresa vittima
merce avariata al mondo
soffri l’indifferenza patita
piangi lacrime di sangue
trasudi la vergogna carnefice
della bestia che ti ha violato
gli occhi lo sguardo l’anima
donna vilipesa nel corpo
anima offesa nella dignità
eterno marchio d’infamia
all’infame brutale iena
maschio ferale e violento
giacché Iddio è donna
non paga al sabato
ma la domenica mattina
già al sorgere del sole

Omaggio a Franca Viola di Pina Calabrò

 

 

Donne senza volto, vittime della violenza dei loro carnefici
di Tiziana Cordì
A tutte le donne che ogni giorno vengono picchiate perché non hanno stirato, hanno osato esprimere la loro opinione, hanno fatto di testa loro.
Alle donne che pensano che a loro non potrà succedere, che non permetteranno mai ad un uomo di colpirle, senza accorgersi che la loro anima è violentata ogni volta che un uomo le deride, le zittisce, le manipola, fa credere loro di non essere abbastanza (belle, intelligenti, capaci).
Alle donne che pensano sia meglio stare buone, per non creare scalpore.
Alle donne che si convincono di avere frainteso, e continuano a vivere, morendo dentro, rassegnate al fatto che “tanto funziona così”.
Alle donne che lottano per i propri sogni e li vedono infranti ogni volta che guardano gli occhi di un compagno che non le apprezza, di un figlio che non è grato.
Amatevi per prime.
Insieme lottiamo per le donne che non ce l’hanno fatta perché troppo sole e stanche, speranzose che l’uomo che avevano accanto cambiasse.
Amiamoci per coloro che hanno avuto quel coraggio, che poi la vigliaccheria dell’uomo ha ucciso.
NON UNA IN MENO, mai più.
Maheba Dacome
Il 25 novembre e’ la giornata mondiale contro la violenza sulle donne❤️
La data simboleggia anche il contrasto contro ogni violenza di genere!
Questa data ci ricorda che ogni momento della nostra giornata, della nostra esistenza e’ un buon momento per agire e contrastare ogni forma di violenza.
La violenza di genere è un crimine contro ogni persona, piccolo o adulto, vittima di qualsiasi forma di abuso , fino alla più estrema. La cultura che propugna l’equità di genere è il rispetto della persona, contrasta di fatto la violenza verso i più vulnerabili, gli indifesi , i fragili.
La donna, portatrice di vita dentro il suo grembo, combatterà sempre e a nome di tutto il genere umano, contro la violenza e la morte
Margherita de Angelis
La mia generazione di Pierluigi Del Pinto
La mia generazione ha allevato il “machismo” nel buio delle notti perdendo gli occhi sulle pagine patinate dei primi giornali dedicati agli uomini, a spiare dai buchi della serratura corpi femminili inaccessibili e lontani, a farsi servire da madri idolatranti e ancillari, a fare gruppo con altri simili tremebondi davanti a coetanee che apparivano pianeti misteriosissimi e seducenti.
Quando si incontravano più di tre maschi si parlava sempre e solo di donne e di automobili ed entrambe venivano analizzate in dettaglio, sezionate nei particolari, valutate e giudicate.
Discorsi che erano i prodotti di una fantasia alimentata dalla convinzione di esser parte del genere forte, quello che “non deve chiedere mai” (lo ripeteva anche una pubblicità).
La nostra fragilità e le nostre paure diventavano facilmente rabbia al primo rifiuto di un bacio, di una carezza, di un Si.
Cosa è cambiato da quella generazione maschile dell’immediato dopoguerra? E’ servito, in questo, il ’68 ? Abbattuto il padre, abbiamo saputo apprezzare una donna che non fosse solo madre o moglie o amante?
Me lo chiedo come padre di quattro figlie femmine ma soprattutto come persona che ha dedicato energie e tutto il tempo che aveva a disposizione tentando di cambiare lo stato presente delle cose.
A proposito di questo tentativo e di questo cambiamento sono certo di una cosa: ci saremo arrivati davvero solo quando ogni donna, di qualsiasi età, vestita come le aggrada, a qualsiasi ora del giorno o della notte potrà camminare per strada, frequentare ogni sorta di locale pubblico o di festa privata, scegliere cosa fare del proprio corpo tra le mura domestiche o dovunque sia, senza temere per la propria incolumità, senza subire l’oltraggio di una qualsiasi violenza da parte di un esponente del genere maschile.
Perchè è la condizione della donna che misura la civiltà del mondo.
A mia figlia che ha cambiato il mondo e alle figlie di tutte noi.
di Verena Del Pinto
Guardo il tuo corpo e lo immagino tra vent’anni, quando sarai così distante da me da non farmelo più accarezzare. Ascolto le tue parole, già così competenti e immagino di sentire i tuoi racconti quando non ci sarò più io a fare da scudo tra te e il mondo. Ti osservo e ho paura per te, più di quanta non ne abbia avuta per i tuoi fratelli. Eppure sei tu che mi hai insegnato a pretendere per me non meno di quello che avrei desiderato per te. Sei tu che hai cambiato il mio mondo nel momento preciso in cui sei nata, molto prima del termine stabilito, e con una forza dirompente hai lottato da sola per la tua vita.
Non smettere mai di farlo, amore mio, perchè il mondo che ti lasciamo ha ancora tanto da cambiare.
Non arrenderti mai alle parole ed agli ostacoli contro cui ti scontrerai.
Abbi sempre il coraggio di inseguire i tuoi sogni, per quanto incomprensibili possano apparire.
Non ti sminuire e non accontentarti, pretendi sempre più di quello che ti viene offerto.
Ama sempre con cura e passione, ma solo chi è in grado di meritarselo e se riceverai meno di quello che dai allora non perdere tempo, non ne vale la pena.
Il tuo tempo è prezioso, non regalarlo.
C’è solo una ragione per cui vale la pena affrontare tutto questo, l’amore. Cercalo in ogni passo ma non illuderti mai di averlo già trovato. Capirai di essere felice quando non riuscirai più a muoverti da dove sei e tutto quello di cui hai bisogno è il viso della persona che hai di fronte.
Buona caccia al tesoro piccola mia. Sei tu che scegli, tu che vinci!
Le chiamano le survivor di Viola Del Pinto
Survivor, sopravvissute.
Ogni tanto, tra ragazze, capita che qualcuna racconti di quello strambo che l’ha fissata sull’autobus, o di quell’uomo in macchina che le ha suonato il clacson appena prima di arrivare, o quel tipo che ha schioccato le labbra per mandarle un bacio da lontano proprio qui fuori dal locale. È capitato a tutte. Capita quotidianamente, ad almeno una di noi.
La cosa che fa paura? È solo l’inizio. E siamo talmente tanto abituate che non sembra grave.
E questa sensazione si allarga a macchia d’olio e disperde i confini. Quando, diventa grave? Cosa, può essere considerato anormale?
Ogni tanto, tra ragazze, capita che qualcuna racconti di quel ragazzo che in discoteca le ha strappato via un bacio indesiderato, il caposala che si è nascosto dietro ad una battuta per darle una pacca un po’ più giù, l’amico che l’ha vista ubriaca e si è spinto oltre, lei quasi non se lo ricorda. È capitato a più di quelle che lo raccontano. E capita più spesso di quanto vorrei.
La questione del consenso diventa un tecnicismo, un ragionamento astratto, lontano, si distorce e sembra quasi un complimento, che fai ti offendi? Era una battuta, un apprezzamento, un tuo amico. E non sembra grave. Ma quando diventa grave? Cosa, può essere considerato offensivo, illecito, sbagliato?
Ogni tanto, tra ragazze, capita che qualcuna non racconti di quella volta che si è svegliata in un letto che non riconosceva, con la sensazione di essere in un corpo che non le appartenesse, con difficoltà a muoversi e orientarsi. È capitato che diventi una confidenza, fugace, timida, sottovoce. Capita troppo spesso, perché una di noi è già una di troppo.
La cosa che mi sorprende? Nel raccontare ciò che è successo si sminuisce, ci si allontana dalla gravità celando il dolore, la paura, l’umiliazione provata quella volta. E nel sentire ciò che è successo si percepisce la gravità, l’allucinazione nell’ennesimo episodio nascosto nel buio.
Nessuna di noi si sente una sopravvissuta.
Ci sembra tutto normale.
Ed è capitato a tutte. E poteva capitarci di peggio. E prima di uscire chiamami, così ti faccio compagnia al telefono. E non tornare da sola, che è tardi. E non andare in vacanza con altre amiche, che è pericoloso. E fatti accompagnare da un ragazzo di cui ti fidi, ma dimmi sempre dove sei. E non metterti quella maglietta, che è un invito. E non far vedere le cosce, che è tentazione. E mettiti dei pantaloni della tuta nella borsa, che non si sa mai al ritorno. E non uscire col telefono scarico, che altrimenti non puoi chiamare. Però come mai sei andata a quella festa? Perché ti sei ubriacata? Ma come hai fatto a rimanere sola? Non te l’hanno detto i tuoi genitori che devi stare attenta? Perché sei andata a ballare? E che ci facevi da sola di notte in quella strada buia? E perché dovevi proprio nascer donna?
Mi hai vestita di luce
e la tua non-voce induce
– truce – a colpire
la di me dignità che tace.
Mi hai investita di luce
di connotati simili alla pace alla speranza, alla carità (o castità, non so bene)
e loquace invece ora
parla la colpa
di non esser tale
– mordace mi divora l’animo e tace
tace anche lei.
E di tutto? : giace
giace la luce incapace ammantata di bene:
il risvolto in pene
.voraci le catene che mi s’attorcigliano attorno
.
dentro
falene – che percuotono
atroci
le ali
e sbattono, sbattono addosso alla medesima luce che come una fauce
questa volta divora
e a fallace
e
gracile
inanità
mi riduce
Anna de Venz
Sguardo perso nell’azzurro intenso,
Eco lontano di un Amore perduto sussurrato nel vento,
Profumo di infanzia rubata dal tempo,
Sapore di antichi misteri obliati,
Tocco della mano di Dio sul viso.
Morgana è senso, è passione, è dolore e gioia, è niente e tutto, è semplicemente Donna.
Donna quando quell’azzurro intenso divenne il buio di una notte di cieca violenza,
Donna quando il vento impetuoso della passione rese carezze i pugni,
Donna quando il sogno di bambina di infranse sugli scogli della brutalità,
Donna quando il sapore del sangue divenne il pane quotidiano,
Donna quando quel Dio distrusse quel viso con un semplice tocco.
Morgana, Donna, ieri, oggi, sempre
Antonella Smiriglia Fava

 

Adriana è cresciuta di Franco Ferrari

Adriana ha 14 anni e sta in prima E.
Quando sono entrato in classe la prima volta
l’ho notata subito.
Non era come gli altri, era più grande e aveva 14 anni, come gli altri.
Adriana ha il corpo di un’adolescente, ma il suo modo di muoverlo è diverso
Non è ammiccante, è un corpo tradito.
Lo si capisce da quella sapienza dei modi che si forma solitamente col tempo, mentre a lei è caduta addosso come un macigno. La sapienza dei modi. Due anni fa.
Un giorno me lo scrisse su un foglio, era stato il cugino, che abitava con lei.
Adriana è cresciuta, è innocente, ma non ha più l’innocenza
Adriana è cresciuta, è innocente, ma non ha più l’innocenza
Adriana è cresciuta, è innocente, ma non ha più l’innocenza
Adriana ogni tanto vomita, dopo si sente meglio, dice.
D’altra parte è normale vomitare a quell’età, mi dice.
Non le succede spesso, quindi non l’ha mai detto al medico
ma ogni tanto vomita, butta fuori.
Il cugino ha 30 anni, è stato due anni fa.
Adriana aveva 12 anni. Ora ne ha 14.
In casa, perché la madre temeva che stesse in giro,
Perché per una bambina di 12 anni andare in giro è pericoloso.
In prima E ha trovato un’amica e l’amica lo sa.
Adriana è cresciuta, è innocente, ma non ha più l’innocenza
Adriana è cresciuta, è innocente, ma non ha più l’innocenza
Adriana è cresciuta, è innocente, ma non ha più l’innocenza

Odorose stelle
aprono corolle al vento,
sul fare dell’autunno,
quando tutto, intorno,
sembra avvolto dal sonno.
Novembre è primavera
Per il nespolo gentile
Che il suo profumo spande
Fra nebbie e prime brine.
E un fiore di nespolo fiorisce
Sempre…
ogni volta che Eva dice BASTA.
Tardiva Primavera
Che mai tardi arriva
Se d’AMORE e LIBERTA’
La fragranza si libra.
Per tutte le Sorelle che ricordiamo oggi, affinchè resti solo un ricordo.
Adele Filice
Hai lanciato la tua lenza. Mi avevi vista sul fondo e hai pensato bene di non lasciarmi scappare. Ti eri accorto che avevo bisogno di aria, di luce, di qualcosa da seguire per tornare a vivere … ed hai lanciato la lenza da esperto pescatore ed ho abboccato. Fuori dall’acqua respiravo … l’aria sulla pelle … ero viva … per un po’. Poi un dolore sordo e poi un altro e ho capito. La corsa avrebbe preteso la mia vita … e ho strattonato.
Clara Grieco
Caro figlio mio di Marilla Lovato
Un giorno sarai uomo e la mia più grande vittoria sarà vederti amare senza pretendere o possedere.
Saprai essere un uomo forte ma saprai ascoltare e condividere i tuoi sentimenti e le tue paure con chi sarà la persona che sceglierai di avere nella tua vita. Camminare insieme, non imporre il tuo cammino.
Un giorno sarai uomo e avrai delle delusioni e vorrò aiutarti a superare le difficoltà senza insultare chi ti ferirà, rispettando i suoi spazi o i suoi silenzi. Ti insegnerò a rispettare ogni essere vivente perché prova sentimenti come te, prova dolore come te e amore come te. Non ti insegnerò che le donne valgono quanto gli uomini a parole ma con l’esempio della nostra vita. Non dovrà esserci nel tuo futuro bisogno di ribadire questa uguaglianza perché per te sarà ovvietà. Non ti dirò rispetta chi ami, sarà la passione che vivi in famiglia a dirti quale sarà la via da seguire.
Sarai un uomo che farà degli sbagli, che soffrirà e che avrà bisogno di amare e di essere amato con sincerità e rispetto.
Tratta la tua donna con lo stesso rispetto che desideri per te stesso.
Caro figlio mio, non è educando te alla non violenza sulle donne che cambierò il mondo, ma lo faremo insieme un giorno dopo l’altro.

Quando un uomo strappa dal cuore
della sua donna ogni speranza
lei accetta il niente
come una fatalità
come un atto dovuto
come se dovesse pagare un debito
che non ha mai fatto
che non le appartiene
E il suo cuore non urla più
non geme e non fa più suppliche
a quell’Uomo, appeso a quella croce
Quando un uomo priva del corpo
l’anima della donna
il sole continua a nascere
e a morire sotto lo stesso cielo
il mare a correre con le sue tempeste
nel suo immenso letto
la primavera a rincorrere farfalle
in tutti i prati verdi e colorati
l’estate a dare a tutti caldi abbracci
prima che l’autunno metta la gioia nell’oblio
mentre l’inverno rabbrividisce
al pianto di un bambino
che chiama quella mamma
portata via dalla violenza
del vento senza tempo
e, mosso a compassione,
canta una nenia dolce
accanto alla sua culla
per farlo addormentare
tra le braccia dolci
della terra madre
E il cielo piange lacrime di donna
a consolare quell’immenso dolore
che il mondo ha sotterrato
assieme al suo corpo
straziato dalla mano omicida
di quell’uomo, che un tempo
la chiamava ” amore”
Laura Martorano
pronuncia la tua forza
con amorevole attenzione
fanne tuo nutrimento
esci dalla foresta di parole ostili
ritrova il tuo sentiero
gli occhi verso il cielo
azzurro lucente di promesse
non è la solitudine ciò che temi
sola sei già
il mondo intorno
finge di non sentire il tuo dolore
incredulo alle tue parole
a te chiede di sopportare
chi vuole la tua morte
a lui consente il suo violento imperio
parla con te parole di speranza
partorisci la tua parola
così gravida di dolore
altre ti verranno incontro
sorridendo fiducia
ammirando in te forza e coraggio
per aver resistito così a lungo al tuo martirio
e oggi finalmente
forza e coraggio per amore di te
nell’aver teso la mano
lasciando andare
la morsa di cespugli odorosi e laceranti
rifugio di illusioni incenerite
di Maria Ester Mastrogiovanni
Frantumi di Giorgia Miotto
Ero vicino al lavello della cucina. Uno scatto sbagliato, un gomito fuori posto, e la teiera di porcellana che stavo per lavare cade, il motivo giapponese del disegno si sbriciola come le foglie secche d’autunno. Maledetta teiera, penso, usata quattro volte da quando l’ho ricevuta come regalo di nozze, quindici anni fa.
Antonio mi vede raccogliere i cocci e i suoi occhi mi lanciano uno sguardo sprezzante, mi ricorda che era un pegno ricevuto da sua madre, un oggetto di famiglia a cui teneva molto. Sottolinea il mio continuo essere imbranata, mai attenta. Non che lo abbia mai visto bere il the con gli amici, o ricordarsi che in casa c’è un servizio pregiato.
Prende svogliatamente lo stick di colla forte dalla mensola, il corpo rilassato, le braccia deboli, nessuna energia nell’azione. Lo lascia vicino alla pila di frantumi che ho composto nel tavolo, alcuni raccontano ancora i lineamenti della teiera, qualche albero di ciliegio dipinto, intatto. Prova a ripararlo, mi dice, forse con un po’ di colla nascondi i danni.
Da bambina amavo i giochi a incastro, quasi sempre in legno, mi piaceva sistemare tutti i pezzi per ridare armonia alla confusione. Forse anche per questo sono diventata architetto, per plasmare il nulla e renderlo vivo, utile.
Nascondere i danni. Si pensa sempre sia un atto passivo, qualcosa che riesce senza sforzo. In realtà l’atto di celare comporta sacrifici, è come un castello di carte da rendere invisibile senza distruggerlo, senza che qualcuno si accorga che tutto è crollato. Tutti crollano, e nascondono. L’uomo nel corso del tempo si è dato delle giustificazioni, si è inventato delle favole. Si vorrebbero aggiustare le crepe con l’oro, renderle belle e mostrarle al mondo come fanno i giapponesi con la tecnica del kintsugi, ma è un’illusione.
Tento con la colla, pezzo dopo pezzo partendo dalla base. Ci vogliono ore di tentativi, ma sembra funzionare. Forse questa teiera non vedrà più una goccia di english breakfast, ma almeno farà la sua bella figura e potrà tornare a onorare mia suocera, al contrario di me. Ogni sua parola nei miei confronti è una condanna all’insoddisfazione, perché la casa non è sempre in ordine e la polvere ricopre i mobili, perché suo figlio torna la sera dopo il lavoro e la cena non è ancora in tavola, perché certi weekend sono costretta a passarli sulla scrivania per un progetto. Un’insieme di piccole azioni che mi allontanano dal suo ideale di moglie e madre.
Il lavoro di restauro è riuscito, una piccolo sorriso mi colora il volto. Non credo che Antonio tornerà a chiedermi del risultato. Potrei mostrarglielo con uno sguardo soddisfatto, ma confermerebbe il suo giudizio nel credermi molto egocentrica.
Ripenso a quanto sia difficile avere delle soddisfazioni da parte di un uomo. Ho avuto il primo progetto solo dopo mesi dall’assunzione, non perché non fossi in grado di svolgerlo, ma perché i clienti preferivano un professionista maschio. Lei deve essere la segretaria, mi dicevano, sono qui per parlare con il capo. Può parlare con me, rispondevo, ho già collaborato a lavori di questo tipo. La loro risposta era un sorriso sadico, un giro di sguardi attorno alla mia gonna o alla giacca attillata, un mappamondo di informazioni esteriori e tanto bastava. La segretaria.
Nessuno ti rispetterà se il rispetto non lo pretendi, questo mi ripeteva sempre mia madre. Era un mantra, ce lo faceva imparare a memoria per sentirlo dire anche a se stessa, quando mio padre decideva di aiutarla in casa e diceva ecco tesoro, ti ho lavato i piatti. Sottointeso, i tuoi piatti.
Una chioma di capelli biondi si avvicina al tavolo della cucina. È Alice, con l’orsetto Ted al sicuro nell’incavo del braccio destro e i piedi scalzi. Dopo cena perderemo dieci minuti a trovare le sue pantofole, ne sono sicura, le lascia sempre disseminate per tutta la casa.
Osserva scrupolosamente la teiera che ho riparato, i suoi occhi seguono il disegno sulla superficie, lo sguardo incantato. Mi alzo per prendere un bicchiere d’acqua, mi giro e vedo mia figlia giocare con la porcellana. Nemmeno il tempo di dirle attenta, mettila al suo posto, che le dita piccole e umide, sempre a metterle in bocca come fanno i bambini, non reggono bene la teiera e questa cade a terra. I frantumi, questa volta più piccoli, corrono lungo le mattonelle.
Alice si nasconde dietro una sedia, rossa in viso dalla vergogna. Sa che potrei alzare la voce, probabilmente ha le orecchie tese ad aspettare un mio fiato, gli occhi già bagnati dalle lacrime. La rabbia mi colpisce all’inizio, ma mantengo la calma perché so che lei è solo una bambina, e quella era solo una teiera.
Antonio baderà poco a ciò che è rotto o aggiustato, lo fa da anni con il nostro matrimonio. Soccorro Alice, la prendo in braccio per evitare che si tagli con i cocci. Nessuno ti rispetterà se il rispetto non lo pretendi, le dico, anche quando pensi di aver sbagliato, anche quando ti daranno la colpa per quello che era già rotto.
Nell’insolente convinzione
Di essere il migliore
Le disse
che l’avrebbe soppressa
Con parole acerbe
E mani d’acciaio
Ma a Lei
Tremante nel suo letto
Un Dio protettore
Di si innata purezza
Trasformò il mostro
in Parole succose
E in velluto
mani
a render lisci
Visi divini.
( da: Donne salvate, di CN)
Claudia Napolitano
Quando una donna muore…. di Marina Neri
Quando una donna muore ammazzata dall’ uomo che ama anche il sole prova vergogna e si cela non sopportando la sua stessa luce.
Quando una donna muore ammazzata dall’ uomo che ama anche il mare raschia il suo fondo , si ritrae e porta con sé conchiglie coi
suoni e coi colori.
Quando una donna muore ammazzata dall’uomo che ama anche la terra trema del suo stesso terrore, si apre per nascondersi , per mascherare il suo pianto.
Quando una donna muore ammazzata dall’ uomo che ama né luna e né stelle vogliono celebrare la notte, il grido levato squarcia il silenzio della loro eternità e spente immutoliscono di tenebra.
Quando una donna muore ammazzata dall’uomo che ama anche la statua dell’Italia scioglie il suo marmo e dinanzi alla sedia vuota drappeggiata di sangue capovolge se stessa …riflette…si riflette dentro la paura se non trova la mano tesa della Giustizia.
La Corona di Spine …di Marina Neri
Cinge i tuoi fianchi, donna, diadema perenne.
Impreziosito di spine quando decisero che nient’ altro eri che il ricettacolo dei loro umori.
Cinge i tuoi fianchi, unico orpello, gli altri li han giocati a testa o croce , centurioni con il gladio fra le gambe, pretoriani al servizio di un dio mutevole secondo le pulsioni.
E ti diedero uno schiaffo e ti dissero: – Taci! –
E ti diedero un pugno e ti dissero:- Ascoltami!-
E ti diedero un calcio e ti dissero: – Ubbidisci!-
E ti fecero regina del regno del loro piacere e ti dissero:- non importa se godi solo per non morire!-
Hai contato le spine di quella corona che sovrasta il tuo pube?
Quanto fa male il peso di un uomo che fa penetrare le spine dentro la tua carne?
Quanto costa dinanzi al Sinedrio la congiura ordita al tuo grembo?
Quanto tatua il dolore di essere monile senza mai divenire Galatea?
Quanto è triste essere crocifissa ogni giorno senza neppure una religione a renderti dea !
Forse quel giornalista non sa  di Marina Neri
Sapete quanto tempo impiega una donna a sporgere denuncia per un caso di violenza familiare, abuso, stolking, molestie?
A volte mesi, altre volte anni…spesso mai!
Tutte indistintamente vorrebbero farlo, liberarsi da un incubo, tornare a volare fuggendo da una ragnatela balorda.
Ma la donna è sempre madre anche quando è giovane , anche quando ad essere violate sono le carni di una ragazza. Pensa sempre di redimere il suo aguzzino, di poterlo aiutare a venirne fuori, a guarire da un malsano amore . Che se è malato non è amore.
Arrivano da un avvocato da sole o accompagnate da chi desidera aiutarle ed è impotente contro il sistema, il pregiudizio, la resistenza stessa della vittima.
Lo sguardo è basso, sulle mani sempre incrociate sul grembo. Un rituale antico di vittima prescelta dalla notte dei tempi, immolata e lasciata lì a monito nella sua nudità di corpo e di anima.
Sguardo basso e mani incrociate sul ventre. Vergogna e difesa. I torrioni del castello di una donna.
Chi aiuta le donne violate, abusate, ferite, deve entrare in empatia con loro. Non c’è ipocrisia nello sguardo che si abbassa con quello di una donna umiliata. Non c’è retorica nelle mani che spontaneamente si intrecciano sul grembo, imitando la difesa, la strenua difesa della dignità.
A volte solo la spietata fotografia di una donna brutalmente seviziata, uccisa scuote quella coltre spessa che imprigiona la loro anima. Altre volte l’ Amore per un figlio rende il miracolo di un dio che era stato troppo lontano per udire prima i pianti e le grida.
Sapete quanto deve combattere una donna prima di firmare la sua querela dinanzi alle forze di polizia?
E, una volta presentata la querela per fare sì che le indagini proseguano e non venga archiviata la richiesta di punizione del reo?
Sapete quanto un processo costi a una donna abusata , violata, mortificata nell’ amore donato e non solo in termini economici?
Deve combattere tanto. Costa tanto.
Perché prima è la meretrice, la puttana e deve fare un lavorio immane per scrollarsi di dosso questa convinzione che è il marchio di ogni donna quando un uomo su di lei pecca.
Un percorso lunghissimo quando decidono di salvarsi la vita. L’ alternativa è morire. Perché l’ escalation della violenza conduce sempre, se non arginata, al femminicidio.
E in questo percorso accanto a loro c’ è la legge con ordini di allontanamento, con arresto, c’è il servizio sociale con psicologi e terapeuti che conducono per mano la donna dentro i gironi del suo inferno, ci sono gli avvocati esperti nel settore che nuotano con lei in apnea per ritrovare la superficie, ci sono i familiari che sorreggono ciò che all’ inizio è solo una statua senza più un’ anima.
Poi, basta un’ intervista per vanificare l’ impegno di tanta gente.
“Se avesse voluto ucciderla l’avrebbe uccisa!” chioso’ il giornalista che non nomino, a Lucia Panigalli, scampata a un femminicidio.
Già , l’ Amore…
Tra una mimica facciale eloquente e frasette ad effetto, un lavoro immane di tanta gente vanificato.
Chi denuncia, chi ha il coraggio di cercare il riscatto deve essere celebrato , indicato come esempio non irriso, fosse anche con la semplice minimizzazione del suo vissuto.
Chi denuncia e ha il coraggio di affrontare il processo,un processo che la società e il pensiero maschilista anticipano nelle menti ancor prima che nelle aule di tribunale, ha già vinto, perché ha scritto la parola ” fine” anche se un giorno non scriverà la parola Giustizia.
E venne il giorno di Marina Neri
dipinto di Carmen Schembri Volpe
” E venne il giorno….
Mi ritrovai piccola, indifesa, incompresa nei gesti e nelle parole come quando venni fuori dal grembo di mia madre…
E venne il giorno…
Mi guardai riflessa in uno specchio,
fattezze sconosciute di chi troppe volte
lego’ i suoi Sì a mani straniere
per carezze fugaci…effimere…lontane…
E venne il giorno…
Mi abbracciai con tenerezza,
sapendo che solo quel calore avrei trovato,
mi lavai il viso con acqua delle lacrime
e poi sorrisi: _ Mi Amo!_ sussurrai e baciai la Vita
E venne il giorno…
Mi vestii di Colori, misi il nero dei miei umori e poi giocai con i pennelli….
Rosso e fui appassionata…
Giallo e fui gelosa…
Verde e corsi incontro alla speranza…
Blu e mi tuffai nell’ amore…
Viola e guardai in me stessa…
E poi l’ Arcobaleno tutto….
Perché Io sono il Tutto e il Niente…
Il Vuoto e il Pieno…
Il Sogno e l’ Incubo..
La Passione e il Gelo
Io sono Donna!
E venne il giorno in cui lo scopristi…
Era quel giorno in cui
Uccidesti i miei Sogni prima ancora di uccidere me!!!”
DONNE e BAMBINI non si TOCCANO….MAI !!!

           ~~~~ ©`~~~~
Come autore mi viene spontanea una citazione che voglio condividere con voi:

“Gli uomini che si abusano di donne e  bambini,  non sono uomini,
ma grandi LOTE.”  o se proprio li voglio  trattare,… sono uomini di MERDA (cit. ©`.N)

Per dovere di cronaca, letteralmente l’uomo di MERDA è un uomo di poco valore, lo stesso concetto viene espresso a NAPOLI, con il temine: “LOTA” , intesa non solo come fango ma come melma lezzosa tipica dei porcili.

I soggetti così definiti sono
pervertiti, malati che si camuffano da figure rassicuranti e che sia esso un padre, un marito, un prete o un chicchessia, sono tutti scarti fisiologici, non degni di essere classificati UOMINI.
E allora a queste bestie, voglio dedicare un pensiero RapNAPOLETANO e  voglio urlarlo per giustizia:

“NON Toccate donne e bambini… MAI!!!
                     di Ciro Notaro

– Brutto porco maledetto e sporco.
– Bestia Immonda pregherò affinché all’inferno tu sprofonda.

– Ringrazia I buonisti solamente…
che dicono : va curato è  malato di mente.

– Ringrazia questa legge beffarda…
che per una giustizia esemplare dall’ altra parte guarda.

Ed allora…voglio sfogare senza freni questa rabbia…
e liberarare la fantasia
che tengo chiusa in gabbia…
e te lo dico in dialetto, a denti stretti, “NON UNA,… ma CIENT VOTA…
Se tocchi ‘a na femmena o na  creatura…
…SI NA GRANDA LOTA!
etihotrattato…End©`iro

Ciro Notaro autore solidale
per LEGATIALFILO©`

SCARPETTE ROSSE”
di Rita Frasca Odorizzi
Io sono,
uno spirito nel vento,
volo nelle stagioni,
occhieggio agli aberi,
domino l’orizzonte,
mi poso sui rami più alti..
le mie mani,sono crisalidi
dalle quali nascono memorie
che mi scuotono e riportano,
ad un tempo antico,
dove l’unicorno e il fiume
erano compagni…e fate
e gnomi, popolovano sogni..
Ma l’uomo nero,
ha ucciso una parte di me
bambina,
e ha spento la luce che la fiducia
porta come fiammella , in cuore.
Ed ha varcato la soglia dell’orrore..
tremando in tutte le stagioni
che la terra mi ha restituito,
in nuovi semi e raccolti..
Oggi donna, madre..soffocando
l’odio, il gorgo, il buio..
mi son restituita.. vita..
per amore sacro..
strappandomi la vecchia pelle..
Come una farfalla…
Fermo immagine di Anna Pisapia
Di te mi resta fisso nella memoria un fermo immagine.
Una donna, minuta, giovane, accasciata a terra in un lago di sangue, sente che la vita la sta lasciando e cerca con lo sguardo, intorno a sé, gli occhi di un bambino, il suo.
Un’anima innocente, colpevole di aver avuto in dono un padre che prima gli ha donato la vita e ora, in un gesto di follia omicida, la sta togliendo a sua madre. E lei lo cerca dappertutto, mentre il suo respiro si fa sempre più affannoso, gli occhi si chiudono, le si riempiono di lacrime. Forse pensa ancora una volta che la colpa è stata sua, se avesse accettato il suo destino di infelicità invece di ribellarsi per rincorrere la libertà, forse tutto questo non sarebbe accaduto. Lei crede che sia colpa sua, lo ha sempre creduto, tutti glielo hanno fatto credere.
Non devi parlare, devi stare zitta, non c’è un’anima che ti ascolti, non c’è tempo per niente e nessuno, tutti presi dai loro guai. E tu, piccola donna, hai tenuto per te i tuoi. Hai nascosto a tutto il mondo i lividi sotto i maglioni e quelli ben più invisibili del tuo cuore. Hai smesso di vivere, ti sei annullata per volontà altrui.
La piccola donna ora è a terra e cerca gli occhi di quel bambino, non vuole andare via senza la certezza che non abbia visto nulla, che non abbia sentito, che non ricorderà nulla perché è ancora piccolo e, forse un giorno qualcuno gli racconterà la verità. Ma non ora. Ora deve poter diventare grande nel modo più sereno possibile.
Lo cerca con gli occhi ma non lo trova, non lo sente piangere, dove si sarà nascosto terrorizzato. Non può andare via con questo rimorso. Non può pensare a ciò che sarà dopo di lei dei suoi figli, quando torneranno a casa e lei non ci sarà più.
Di te ho fisso questo fermo immagine e il suono delle sirene delle ambulanze impazzite che quella mattina si rincorrevano davanti casa mia. Le ho sentite, ho sentito l’angoscia salire su per la schiena, ho intuito a qualcosa di terribile, mai avrei immaginato a ciò che accadde in quella fredda mattina di gennaio.
Tu, piccola donna dai grandi occhi di cerbiatta andavi via, trafitta da trentasette coltellate, ammazzata crudelmente dall’uomo che avevi amato, che diceva di amarti.
La tua unica colpa si chiamava libertà.

La luna muore tutte le volte
che uccidi una Donna.
Attraversava la vita
nonostante pesi
con insolita leggerezza.
Amava i suoi figli
in seno li stringeva
donava calore.
Amava poeti e scrittori
leggeva al chiaro di Luna
risparmiava energia.
Sorrideva a tutti.
Carica di oneri
attraversava la vita
con insolita leggerezza.
Una mano violenta
le ha spento la luce.
Gocce di Luna
Le rigano il viso…..
Mimmo Reale

E la sofferenza dell’anima
Ha soppiantato quella del corpo,
Né della carne il dolore è lancinante,
Fanno male i sogni frantumati
E insopportabile è il pensiero
Di quella mano
Che immaginavi prodiga di carezze
Ma stretta a pugno si abbatte
Sul tuo viso incredulo.
E guardano lontano
Gli occhi verdi, tu hai capito, ora
E si coagula il sangue
Sul naso spaccato
Mentre non hai altro che stringere
Se non il tuo ginocchio.
Mario Rigli

Questi zoccoletti mi ricordano un’amica che non c’è più
Se ne è andata troppo presto, troppo in fretta, ma ha vissuto pienamente e lottato fino alla fine con tutte le sue forze.
A lei e a tutte le donne: figlie, sorelle, amanti, mogli, madri che in misure e forme diverse vivono la vita con forza, orgoglio e dignità dall’alto dei loro tacchi o semplicemente in ciabatte
Monica Rizzardi
Si chiamava Nuccia
Storia ai tempi del delitto di onore di Graziella Rogolino
Avevo 10 anni, abitavo in un piccolo antico palazzotto con l’intonaco scrostato, di due piani e quattro appartamenti.
Tutto il quartiere era così; costruito dopo 20 anni dal terremoto del 1908 (a Reggio Calabria) con i poco sofisticati metodi antisismici di allora, case basse e muri grossi.
Sopra di noi abitavano due giovani sposi con due bambini, uno di 12 anni e uno di 4.
Una famiglia felice? No
Le voci delle liti arrivavano giù ed erano sempre per motivi di ossessiva gelosia. Lui, Mimmo, le urlava di continuo, anche solo se si metteva il rossetto e le dava botte, ne eravamo tutti certi.
Un uomo comune, bassotto e un pò calvo, più vecchio di lei.
Nuccia invece era bellissima, capelli neri e folti, occhi grandi, bocca carnosa, corpo dalle forme generose.
Era sempre trasandata, copriva i lividi con la cipria e gli occhi rossi dei pianti e delle notti insonni rivelavano la sua infelicità.
In famiglia se ne parlava ovviamente, in un condominio così piccolo tutti sapevano e noi avevamo la sfortuna di abitare proprio sotto, i rumori non si potevano ignorare.
Nuccia era gentile con me, la figlia femmina che non aveva avuto: mi pettinava i capelli e mi metteva lo smalto rosa sulle unghie con grave disappunto di mamma.
Giocavo spesso col figlio grande, Carmelo, ci scambiavamo i giornalini e ci sedevamo sul gradino del portone per raccontarci delle storie. Ma di sua mamma lui non parlava mai.
Papà mi proibì di andare sopra quando c’era il marito, per paura che con la mia irruenza da bambina mi mettessi nei guai.
Tutti erano dispiaciuti e preoccupati. Una sera chiamammo i carabinieri e malgrado lei fosse a terra piena di sangue se ne andarono con un rimbrotto al marito.
La tragedia era dietro l’angolo.
Una notte le voci diventarono urla, si sentiva il bambino piccolo piangere. Papà andò su, sbattè i pugni sulla porta per dire al marito di smettere ma non successe nulla, continuò come prima. Mamma capì che l’avrebbe uccisa, mandò papà dalla polizia (i carabinieri visto i trascorsi non erano consigliabili) e corse verso casa dei genitori di lei.
Noi rimanemmo a casa con nonna che piano piano si mise a piangere.
Di colpo tutto cessò.
Io mi affacciai, di nascosto di nonna, alla porta d’ingresso sorchiusa e vidi il marito scendere le scale a perdifiato. Arrivarono insieme i poliziotti e i genitori e tutti capirono che il silenzio era il segno di una grave situazione.
Mamma e papà mi permisero di guardare dall’uscio di casa, dietro di loro, come se mi facessero da scudo. Scese la barella con il corpo coperto da un lenzuolo, il sangue colava sulle scale. Sembrava ancora viva. Poi dalle scale scese Carmelo tutto sporco di sangue con un poliziotto che lo stringeva ad un braccio e portava con due dita un coltello imbrattato di sangue.
Ma come era possibile?
Nuccia, la bellissima giovane Nuccia morì prima di arrivare in Ospedale e Carmelo confessò l’omicidio.
Il marito arrivò dopo, disse che era al lavoro e che era stato appena avvertito. Tutti sapevamo che non era vero, anche la Polizia secondo me, ma faceva comodo così.
Carmelo raccontò una storia incredibile: disse di aver sorpreso sua mamma a letto con un altro uomo e di aver fatto quello che doveva: difendere l’onore della famiglia.
Tra le attenuanti del delitto d’onore e la giovanissima età, non fece neanche un giorno di riformatorio.
L’uomo che scendeva dalle scale fu identificato col misterioso amante, ovviamente mai ritrovato.
Il marito prese i figli e andò a vivere con la madre a due isolati di distanza dai suoceri, che continuarono a vederlo tutti i giorni.
Nuccia così non fu solo uccisa, fu anche infangata. La dimenticarono presto e anche gli addolorati genitori preferirono così.
A non dimenticarla mai fu Carmelo che 10 anni dopo, a 22 anni, si impiccò nella tromba delle scale del palazzo dei suoi nonni materni, un modo di chiedere perdono, forse

Tu meriti amore di Claudia Saba

Tu meriti amore
Ti hanno rubato la gioia
Ti hanno umiliato
Ti hanno tolto la dignità
Ti hanno rubato
lentamente
i sogni di una vita.
Ti hanno deriso
giudicato
Marchiato a fuoco
Per quel rossetto vermiglio
che avevi messo in più.
Ti hanno ignorato
calpestato
Nonostante tu cadessi
per mano di qualcuno.
Ti hanno schivato e scansato
Mentre tu
disperata
cercavi solo una mano
Che tenesse la tua.
Hai urlato
hai pregato
Hai chiesto aiuto
Nessuno ha ascoltato
Il tuo grido
E così sei annegata
Nel fiume invisibile
dell’Indifferenza.
Ti hanno vista correre
Urlante verso il mare
Sola
abbandonata.
Non ti hanno nemmeno guardata.
Ti hanno ammazzata in una notte buia
Sotto una stella spenta
Che ha spento anche te.
Sei andata via senza una gloria
Solo un giornale
Farà il tuo nome.
Poi …silenzio
Calerà il sipario dell’abbandono
In questo mondo
Che non ha pietà

Al di la della siepe di Angela Scaglione
Solo una siepe separava le due villette, entrambe avevano un piccolo giardino, uguale di perimetro ma molto diverso nella vegetazione. Uno era curato con una cura maniacale, non c’era una foglia fuori posto e anche i fiori seguivano un disegno geometrico. L’altro era un tripudio di colori, di piante e di anarchia come spazio e linee. Nel cortile perfetto la giovane signora prendeva il sole come fosse al mare, dall’altra parte impervarsavano bambini scatenati, giochi e tanta allegria. Ma quella perfezione nascondeva altro. La bella ragazza fu sorpresa, più di una volta, con gli occhi rossi e qualche segno sospetto, malcelato da un trucco pesante e dai modi ben misurati.
Lei non sapeva chi fosse la sua vicina, non conosceva che lavoro avesse fatto, non percepiva con la stessa acutezza la capacità intuitiva di chi le abitava accanto. Quella che lei, amabilmente salutava con un certo timore, sapeva cogliere ogni sfumatura, ogni segno di ansia. Sapeva bene, la non più giovane vicina, cosa si celasse in quelle pupille ansiose, in quel tremore che scattava a ogni vibrazione dello smartphon, anche quel giardino, così perfetto, comunicava tanto.
Chi è abituata a trattare la violenza sulle donne, riconosce certi sintomi, sa cogliere i segni del disagio, sa quando scatta il momento di aiutare.
La mattina che i singhiozzi incontrollati della giovane vicina superarono la siepe lei, la non più giovane, superò il suo riserbo e si accostò alla siepe: – ” Ciao bella ragazza, cos’è chi ti fa piangere in una giornata così bella? Il sole alto, l’estate o questo bellissimo giardino che curi con tanto impegno? La serietà del suo volto si addolcì, tirò fuori un fazzolettino di carta e si asciugò gli occhi. Era una pena guardarla, la sua espressione non aveva niente che esprimesse serenità, era palesemente spaventata, poi la sua paura dilagò. Saranno state quelle mani tese oltre la siepe, quella carezza lieve che le sfiorò la guancia, o forse la parole che l’altra disse?
Parlò piano scandendo le parole: – ” Sono qui, a un passo da te e se hai bisogno d’aiuto so come dartelo, so come indirizzarti e conosco ogni singola struttura che ti può ospitare. Sei giovane e non devi sopportare niente e nessuno che ti fa paura e che ti fa piangere. Chiamami se ti servo, sono qui, a un passo da te, oltre questa siepe.”
Una ennesima storia di violenza domestica dove, quasi sempre, ci si trova sole a vincere paure e indifferenza.
Chi può aiuti, si metta a disposizione di chi subisce, non ci chiudiamo nell’indifferenza.

Lentamente (Melania) di Angela Scaglione
Sei caduta piano, lentamente,
Come una foglia
che abbandona il ramo.
Hai fatto resistenza,
Non ti sei arresa,
Al bacio che ti ha tradita,
Hai lottato per la tua vita
Mentre i colpi arrivavano a segno
E ti spaccavano il cuore.
Di quell’amore ti sei fidata,
Le hai donato tutto, anche una figlia.
Ora sei senza vita, sorridi sempre
Lo stesso sorriso, statico,
fermo a quel giorno
Che il tuo sangue si fermò.
Chissà cosa hai provato
Mentre la lama tagliava e feriva,
Quali pensieri ti hanno attraversata?
Ma tu non eri foglia, tu eri madre,
Quella figlia ti perde mentre cadi,
Mentre il buio offusca i tuoi occhi
È il suo nome che urli, all’infinito.
Donna che muore, madre sprecata,
Uomo che diventa assassino
Bambina che subisce
Il più crudele inganno.
Privata dall’amore a cui aveva diritto,
Offesa da chi doveva amarla,
Tradita da un padre inconsistente,
Chi pagherà la sua perdita immensa?
Come la cambierà l’assenza di sua madre?
L’orrore ora è sospeso,
Ma arriverà col tempo,
devasterà quel cuore di bambina
farà altri danni, scaverà dolori sopiti.
Ma tu ci sarai, madre nel suo cuore,
nei suoi pensieri e nelle sue
inevitabili lacrime di rimpianto.
Ora dormi Melania, l’Autunno è su di te.
Scolora in mille sfumature,
Ti copre con le foglie,
ti protegge dal mondo.

Scarpe rosse di Angela Scaglione
Rosse, color del sangue.
Come il tuo viso tumefatto.
Colpo su colpo
ha cambiato colore,
pugno su pugno
ha perso i lineamenti.
Dietro quella maschera,
rimane la paura,
chi credevi d’amare
ti ha distrutta.
Tremi e ti rattrappisci,
lo supplichi, invano,
aspetti, senza forza,
l’ultima carezza
che non arriverà.
Scarpe rosse
Rosse color del sangue
Che secca, che scurisce,
che ti lascia più bianca della neve,
più sola, in quella casa
che tu chiamavi nido,
dove la serpe, ha i tratti
del tuo lontano amore.

Bella da morire di Angela Scaglione
Glielo diceva sempre il suo Marco, e lei si compiaceva di quell’amore assoluto, di quel sentimento così esclusivo che si beava del suo viso, del suo corpo, del suo tempo.
Carla era davvero bella ma aveva tante altre doti che la distinguevano, era una ragazza dolce, disponibile e tanto vitale. Trascorreva il suo tempo studiando e facendo volontariato in un ente pubblico della sua città. Mario studiava ingegneria e presto si sarebbe laureato al Politecnico di Torino. Quando s’innamorò di Carla la distanza notevole tra le due città lo tormentò al punto che pensò di abbandonare tutto e tornare vicino a lei. Fu proprio Carla a dissuaderlo. Lo spronò a perseverare, a laurearsi per avere un futuro migliore assieme. In questa storia tutto potrebbe sembrare perfetto; un amore giovane, fresco, vivace, spontaneo. Nella realtà non era così. La gelosia tormentava Mario, gli faceva elaborare pensieri molesti, ossessivi. Cominciò a odiare la bellezza della sua ragazza, quel suo spendersi per gli altri, l’avrebbe voluta rinchiudere e tenere solo per se. Un tormento continuo, un amore che faceva male. Intanto Carla viveva la sua solita vita, comunicava con Carlo e le raccontava le sue giornate. Non avvertiva niente, era convinta di quell’amore. Quando Marco tornò per le vacanze estive lo vide strano, triste, ma pensò fosse stanco e non capì, dai suoi discorsi, che era lei la causa di quel cambiamento. Le cose tra loro cambiarono quando Marco le chiese di smettere di fare volontariato, al suo deciso no, Marco reagì male, la coprì d’insulti e poco mancò che non la schiaffeggiasse. La ragazza tornò a casa spaventata ma quando suonarono alla porta e un fattorino le consegnò un magnifico mazzo di fiori, si addolcì e perdonò quello scatto d’ira. La parola “ perdono “ s’insinuò sempre più spesso nel loro rapporto. Altre volte Marco perse la calma e altre volte Carla lo perdonò. Quell’amore così bello si stava deteriorando ogni giorno di più. Carla non obbediva alle richieste di Marco e lui reagiva male, sempre peggio. Quando lei capì che quel suo amore era diventato soffocante, totalitario, disse a Marco quelle parole che lui non voleva sentirsi dire. – E’ meglio finirla qui, non sono disposta a fare come vuoi tu – Per Marco quelle parole erano una sentenza, una vita senza Carla. Non era accettabile, Carla era sua e sua sarebbe rimasta.
Non pianificò nulla, non cercò armi, chiese solo un abbraccio. La strinse a se, la baciò come faceva sempre, poi le sue mani diventarono una morsa attorno al suo collo. La uccise beandosi della sua bellezza, le tolse la vita guardandola morire.
Carla è mia disse ai carabinieri che lo arrestarono su sua chiamata, mia e di nessun’altro.

Muta di Angela Scaglione
Muta; non ciatari,
non c’è nenti i diri,
tuttu finiu, canciau;
senti chi silenziu.
Hai u cori strazzatu,
i pensiri femmi,
l’ occhi chi bruciunu;
ti stai tucciennu i mani.
Muta, non riesci a parrari,
si stutau a vuci,
si pedderu i paroli,
vurrivi sulu spariri.
Quantu mali ti fici?
Quantu ti ‘nni facisti fari?
Picchì no fimmasti?
Picchì no lassasti?
Ora vaddi luntanu,
pensi e cianci,
ricoddi iorna belli,
paroli, carizzi.
Ma resti muta,
tratteni ogni cosa,
‘ssutterri dintra i tia,
nuddu l’ havi a sapiri.
Traduzione
Zitta
Zitta, non fiatare, non c’è niente da dire,
tutto è finito, cambiato; senti che silenzio.
Hai il cuore a pezzi, i pensieri bloccati.
Gli occhi brucianti, ti stai tormentando le mani.
Zitta, non riesci a parlare, si è spenta la voce
hai perso le parole, vorresti solo sparire.
Quanto male ti ha fatto?
Quanto te ne sei fatto fare?
Perchè non l’hai fermato?
Perchè non l’hai lasciato?
Ora guardi lontano, rivedi giorni belli,
parole, carezze ma resti zitta,
trattieni ogni cosa,
seppellisci dentro te il dolore,
nessuno deve sapere.

Non si contano più le donne uccise, aumentano di giorno in giorno.
Se le mettessimo in fila
Se le mettessimo in fila
sarebbero una colonna.
Un’infinita colonna di sagome,
di corpi straziati, offesi.
Camminerebbero lente,
ferite da troppi dolori.
Si terrebbero vicine,
con braccia strette al corpo
per proteggere il loro cuore.
Povere donne mie;
senza più vita ne sangue,
senza più amore da dare
ne sogni di giorni futuri.
Luce spenta negli occhi,
labbra secche, salate,
ferite che non si risanano,
braccia che restano vuote.
Angela Scaglione
Dove sei Roberta? di Angela Scaglione
Dove sei, Roberta?
Corpo senza luogo,
Anima che vaga
In cerca di riposo.
Di te nulla è rimasto,
Sei ombra inquieta,
Rimorso nascosto.
Avevi il cielo negli occhi
Assaporavi la vita,
Ora sei “ Scomparsa “
Nessuna magia ti farà tornare,
Nessuno cercherà il tuo volto
Consumato dalla dimenticanza
E da chi non ti ha amata abbastanza.
Sei rilegata nel regno dei fantasmi,
Svanita in una sera maledetta,
Abbandonata, buttata via.
Come un ricordo fastidioso
Una presenza che disturba il sonno,
Esistevi, Roberta. Eri reale.
I tuoi figli lo sanno.
Non sei sparita per seguire sogni.
Tutto ti hanno tolto,
Neanche il corpo hanno reso,
Di te niente è rimasto
Tranne quegli occhi belli
Così colmi di cielo.
Io urlo di Armando Staffa

Soffrono gli occhi a tanto dolore,

piccole mani in cerca di aiuto.

Grida affogate dal fango,

senza speranza gli sguardi.

Risate smargiasse

sul cemento che sbriciola.

Un affanno feroce mi soffoca l’anima.

Immobile e fetida è l’aria.

Giustizia negata senza onestà.

Ci siamo abituati

a sopportare tutto

….perfino la morte

Pensieri,

sopraffatti dalla rassegnazione,

appassiscono tutti i sogni.

Io urlo.

Ho bisogno di respirare.

Cerco una mano, tante mani

Tutti insieme fuori dal buio

in cerca di luce

E appendo il cuore

a riscaldarsi al sole.

E siamo a metà di Veronica Trentin
E siamo a metà
Tra un silenzio soffocante e la voglia di gridare
Ma chi ci sente?
Il nostro corpo diventa un campo di battaglia
La nostra mente un’armatura
È ora di prendere posizione
Una al fianco dell’altra, perché il “coraggio chiama al coraggio ovunque”.
DONNE di Luciano Valera
26 luglio 2012 alle ore 21.05
Il loro passo
l’alba che nasce
tra il cielo e il mare…
i loro occhi l’orizzonte
mani che pregano…
troppe carezze
dimenticate
labbra schiuse
in respiri d’amore…
gambe
amimali irrequieti
che danzano ritmi
per suoni gitani…
Prendono a morsi la vita
per loro solo una cosa
da mettersi in gioco.
Lasciano segni – graffi –
chi li sa leggere
impara ad amarle………
…….Sono loro il presente
Che vive il futuro
Le donne di Piazza Fontana di Fortunato Zinni
Le cronache del tempo si sono limitate a segnalare i nomi di otto donne, tra i 105 feriti delle bombe del 12 dicembre 1969.
A Milano: Patrizia Pizzamiglio, la sedicenne seriamente ustionata nel salone della Banca e Gabriella Bodini, l’impiegata della banca che lavorava all’ammezzato.
A Roma: Luciana Conti, Maura Mazzerioli, Lucia Misiani, Luisa Talone, Elena Morichelli, Maria Antonietta Esposito, tutte dipendenti della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio.
Tante altre donne, solitarie e coraggiose, protagoniste di una lunga e dura battaglia, contro un cinismo maschilista senza fine, tra l’indifferenza e in molti casi il fastidio dei più, hanno avuto le loro vite profondamente segnate dalla “madre di tutte stragi”.
Non sono in molti a sapere chi sono: Costantina Ferrari, Annunciata Balossini, Anna De Gubernatis, Luigina Corbellini, Angela Maria Agosteo, , Maria Massa, Annamaria Maiocchi, Nives Giovesi, Anna Villa, Guida Locatelli, Maddalena Garzetti, Olga Cottini, Licia Rognini.
Per gli immemori sono nell’ordine, le vedove: Arnoldi, China, Corsini, Dendena, Gerli, Meloni, Mocchi, Pasi, Perego, Sangalli, Scaglia, Silva , Pinelli.
I loro nomi figurano sulla lapidi di Piazza Fontana, vittime innocenti, ancora in attesa di giustizia.
Quasi sconosciute e ignorate, le figlie delle vittime: Giuseppina Arnoldi, Gabriella China, Francesca Dendena, Rosa Galatioto, Virginia Gaiani, Eugenia Garavaglia, Carla Maria, Clementina e Vittoria Gerli, Orsola Emilia e Rita Scaglia, Artura e Lucia Valè, Silvia e Claudia Pinelli.
Ignorate soprattutto dalle istituzioni.
Con lo scippo delle indagini, da parte della Procura di Roma che sottrasse il processo al suo giudice naturale e con le successive decisioni della Cassazione di trasferire il processo, prima a Catanzaro e poi a Bari. iniziò il lungo calvario delle donne di Piazza Fontana.
Un “stupro giudiziario”, ai danni delle vedove di Piazza Fontana, voluto dalla Suprema Corte per compiacere i burattinai della strategia della tensione, che ancora oggi costituisce una ferita mai rimarginata ulteriormente aggravata dalla decisione, sempre della Suprema corte di condannare i familiari al pagamento delle spese giudiziarie.
Cinismo crudele, quello della Suprema Corte, che aggiunse al dolore per la morte dei propri congiunti, anche la palese volontà di impedire, di fatto, la partecipazione dei familiari al processo, con il loro carico di lutto e di dolore
Penso a quel telegramma che spedì la signora Rosa Galatioto, figlia di una delle vittime e che figura tra gli atti del processo di Catanzaro.” Sono amareggiata dall’ambigua situazione processuale del caso Valpreda, dall’inefficienza del sistema giudiziario italiano, dalla mancanza di qualsiasi certezza giuridica. Sono avvilita dalle conclusioni tratte dalle pubblicizzate pressioni e dalle equivoche conclusioni della Magistratura, mentre i morti attendono l’irraggiungibile verità”.
Il telegramma porta la data del 19 marzo1974 ma è più attuale che mai.
A scendere in lotta al fianco di vedove e figli delle vittime da subito furono i lavoratori della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Non a caso una giovane donna, Anna Chiara Andronico, Segretaria della Sezione Sindacale Fidac Cgil della Direzione Generale di Roma scrive nel gennaio 1972, su “Cassa…continua” il giornale sindacale aziendale della Filiale di Milano,: “Svegliamoci, questo è un periodo di pericolosa crisi della nostra democrazia. C’è chi non aspetta altro, voi a Milano lo sapete bene, per affondare la democrazia e con essa le conquiste dei lavoratori. Tocca a noi far intendere che abbiamo capito e che non lo permetteremo”.
Il Consiglio d’Azienda il 30 maggio 1974 sfila con il suo striscione “Da Piazza Fontana a Brescia, no alla violenza fascista” con in testa Cinzia Casaccia e Emanuela Balbiano.
A battersi per la costituzione parte civile solo contro i nazifascisti e i Servizi segreti sono , Stefania Paridi, Gabriella Gerotto, Anna Maria Lunardon, Mariella Magnelli, e tante altre giovani lavoratrici assunte dopo il 1969.
Ricordo due lunghi e faticosi viaggi, del luglio e del dicembre 1977, 16 ore di treno fino a Catanzaro. Con il Sindaco di Milano Carlo Tognoli, Tino Casali, Luigi Passera, Clementina Gerli, una professoressa che per prima parlò ai suoi studenti della strage, Francesca Dendena e altri familiari delle vittime, i rappresentanti delle forze politiche e sociali milanesi. Fummo ricevuti dal Sindaco Mulè, dal Presidente della Provincia Petronio e dal Presidente della Corte Scuteri.
“Sono qui –dichiarò Francesca ai giudici – perché voglio credere che questa Corte possa ancora rendere giustizia, nonostante tutto”.
Nell’ottobre del 2007 mentre lavoravo alla bozza finale di “Piazza Fontana nessuno è Stato” le chiesi “Sei delusa Francesca?”
Il suo sguardo si velò dalla commozione, ricacciando indietro una lacrima.
“No, sono solo amareggiata, ma non pentita della battaglia che insieme agli altri familiari abbiamo combattuto. Lo ricordo bene anch’io quel viaggio a Catanzaro. Mentre ero sul pretorio, dell’Aula, allestita presso la palestra del carcere minorile, attonita e timorosa perché mi trovavo per la prima volta a tu per tu con i giudici che dovevano garantire la giustizia per la morte di mio padre, Freda, incurante di quel che accadeva intorno, sfogliava annoiato un libro: “la biografia di Giuliano l’apostata” avrebbe precisato un giornalista l’indomani. Sono disposta a rifarlo quel viaggio, perché ho il diritto di chiedere che in un’aula di giustizia si debba parlare del 12 dicembre del 1969.
Non posso dimenticare che, mentre io ero timorosa e rispettosa davanti alla Corte, Freda fingeva il più assoluto disinteresse, anzi subito dopo scoprimmo tutti insieme che agli imputati era stata concessa per il loro relax una saletta da dove potevano rilassarsi.”
La signora De Gubernatis, vedova di Eugenio Corsini, durante quel viaggio a Catanzaro, mi aveva raccontato piangendo come aveva appreso della morte del marito: un rappresentante di oli per motori agricoli. Le aveva detto che si sarebbe recato in banca per un versamento. Poi a tarda sera non vedendolo tornare cominciò a tempestare di telefonate gli ospedali, la polizia i carabinieri,
“Nessuno seppe dirmi nulla, nemmeno in banca, dove mi fu risposto che era accaduta una tragedia. A notte alta fu la Prefettura a darmi la terribile notizia. Avevano trovato tra i brandelli di carne i suoi documenti. Il mattino dopo lo riconobbi dalla catenina che portava al collo e dalla fede. Questo era rimasto di lui.”
Anche lei conservava un nitido ricordo di quel viaggio. Le lunghe ore di treno, fino a Lamezia Terme, la corsa a prendere la coincidenza della “corriera” per Catanzaro, già piena dei passeggeri locali, il trasferimento in piedi nel corridoio centrale dell’autobus, l’arrivo all’autostazione di Catanzaro, il tentativo di salire su uno dei quattro taxi in attesa, già tutti prenotati da avvocati e giornalisti, il tratto di ottocento metri a piedi, per salire in collina fino al carcere minorile. Gli ultimi faticosi duecento metri, sostenuta a braccia, dagli altri familiari, per i problemi di circolazione alle gambe di cui la vedova settantenne soffriva.
L’ingresso esausta in aula, il Presidente Scuteri che scende dal suo scranno, le porge un bicchiere d’acqua e si scusa per il disagio provocato..
Le vite, le emozioni, i sentimenti, le avversità, i sacrifici, di donne all’interno di nuclei familiari, privati del capo famiglia, sono state e lo sono ancora trascurate.
Dopo la sentenza di assoluzione tombale della Cassazione, Annamaria Maiocchi, la moglie di Vittorio Mocchi, morto nel 1983, per le terribili ferite inferte dalla bomba, a chi le chiedeva se non era il caso di pensare al perdono rispondeva:
“Se la giustizia ci avesse indicato dei colpevoli, dei responsabili della strage, innanzitutto gli avrei chiesto: perché. Perché tanta ferocia e tanta cattiveria contro delle persone innocenti e poi, forse, sarei stata anche capace di perdonare”.
Del resto basta rileggere frammenti di ricordi di Francesca Dendena , iscritta quest’anno al Famedio del Cimitero Monumentale, per rendersi conto del duro percorso delle donne di Piazza Fontana.
“Un lutto porta profondi cambiamenti nella vita di una persona, pensiamo cosa possa avvenire nella vita delle persone il cui lutto è un vile assassinio. Comunque non c’è più stata la ragazza che ero.
Nel dicembre 1969,avevo diciassette anni. Quando andammo a recuperare la macchina di mio padre, morto nella strage, incontrammo alcuni giornalisti e a me – forse per esuberanza giovanile – venne spontaneo dire: «Mai più… Una cosa del genere non dovrà più succedere». E io, dicevo a me stessa, avrei dovuto impegnarmi affinché un’esperienza così terribile non dovesse capitare ad altri. Forse si trattava anche di un modo di ammortizzare il dolore, ma questo lo dico adesso, col peso di quarant’anni trascorsi, e nemmeno posso esserne sicura. Una cosa è certa: ci siamo buttati a capofitto in questa battaglia da subito. Direi che in alcuni momenti questa istintiva voglia di combattere ci ha salvati, ci ha fatto sopravvivere anche quando siamo stati costretti a girare l’Italia, subendo lo spostamento del processo da Milano a Catanzaro: noi non ci siamo mai fermati, anche se le difficoltà, non lo nascondo, erano enormi. E abbiamo continuato a chiedere risposte, anche e soprattutto a quelle istituzioni da cui ci sentivamo delusi. Devo dire che alcuni familiari di piazza Fontana rifuggono invece ancora oggi dagli appuntamenti istituzionali. Sono persone che ritengono di evitare appuntamenti con quelle strutture che reputano corresponsabili nella nostra tragedia.
Credo si tratti di un meccanismo di difesa, che personalmente non condivido, pur essendo per molti versi comprensibile e rispettabile, giustificato da molte circostanze. Insomma, non mi permetto certo di criticarlo, ma credo che se certi risultati li abbiamo ottenuti lo dobbiamo proprio alla caparbietà di chi non si è mai arreso, anche continuando a chiedere risposte alle istituzioni. Risultati incompleti, certo, ma da non sottovalutare.
«Perché? Perché una strage del genere, a chi giova?». Ancora oggi è difficile dare una risposta… In sintesi mi sento di dire questo: era una stagione in cui gli operai, o, più in generale, la fascia “media” della popolazione, stavano lottando per acquisire diritti e si cominciava a intravedere qualche risultato concreto penso ad esempio allo Statuto dei lavoratori, che arrivò a piena approvazione dopo qualche mese), ma qualcuno voleva fermare quel percorso di crescita dei diritti. Tieni conto, però, che su queste cose possiamo ragionare oggi, a tanti anni di distanza, mentre allora una riflessione del genere non era così immediata. Inoltre non è nemmeno sicuro che quel ciclo storico sia terminato. I tempi della Storia non sono quelli della vita umana, e proprio la mancanza di chiarezza sulla stagione delle stragi fa pensare che le protezioni e le connivenze verso i terroristi, insieme alla cappa di mistero che ancora grava su molti episodi, siano dovute al fatto che certe forze sono ancora attive e influenti in Italia. Tra l’altro, quando si parla di stragi si parla di fatti per molti versi analoghi e con “attori” in comune, che si iscrivono sicuramente in un quadro generale, ma che si differenziano per momenti politici comunque diversi, da piazza Fontana alla strage di Bologna del 1980.
La memoria di una donna che non riuscì mai a piangere suo padre, ma andò in piazza a cercare giustizia.
Francesca è scomparsa nell’ottobre del 2010.
I suoi familiari la ricordano andando nelle scuole a raccontare il suo impegno civile che Francesca ci ha lasciato prima di morire con le sue testimonianze raccolte dal nipote Matteo Dendena nel bellissimo libro: Ora che ricordo ancora e nella tesi di laurea, presso la Facoltà di Giurisprudenza, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presentata nell’anno accademico 2008/2009, dalla nipote Federica Dendena, Piazza Fontana 40 anni dopo. I profili processuali. Relatore il Professore Angelo Luigi Giarda.
La storia “dal basso” è un buco nero, una ferita sanguinante non rimarginata, bersaglio, ancora oggi, di schegge vaganti della bomba di Piazza Fontana.
Schegge che hanno colpito e continuano a colpire, l’universo femminile e non solo, che rendono drammaticamente ancora attuale il pericolo stragista e i rigurgiti di una rivincita antistorica.
Anna Procacci, una studiosa del ruolo della donna nella società moderna e del tortuoso percorso delle sue lotte per l’emancipazione osserva in un sua ricerca che ha evidenti assonanze con le donne di Piazza Fontana:
“Quando in un paese che ha vissuto una esperienza così lacerante, si agisce archiviando e occultando il ruolo svolto da una precisa identità di genere per lasciare frammentata ogni testimonianza, al fine di giustificare la sua irrilevanza nella storia che conta, allora diventa giustificato il sospetto di trovarci di fronte una storiografia assoggettata a un sistema di potere e, come tutti ì sistemi, si rivela discriminante e pregiudiziale ai danni di chi è escluso da quel potere.
È un fatto che dalle cronache, dai giornali, dagli stucchevoli salotti televisivi, in servizio permanente effettivo, dal cinema, dalla musica, dall’arte visiva, dalla storiografia scolastica, insomma dalla memoria collettiva, sia bandito ogni riferimento forte, sul ruolo di eroine civili in carne ed ossa, sulla tremenda stagione del terrore e delle stragi, nasce spontanea una domanda: perché la donna è assente o ridotta a figura di contorno dall’informazione e dai libri di storia scolastici quando è da essi che i nostri figli e nipoti apprendono la storia?.”
A occuparsi di Piazza Fontana erano tutti maschi.
A parte Camilla Cederna che su “L’espresso” tuonava contro il Questore Guida, Catenacci, Federico Umberto D’Amato, Provenza, Calabresi e Allegra ricordo una giovanissima e aggressiva Tiziana Maiolo, che sul Manifesto scriveva velenosi articoli, contro l’establishment,
A controllare il rigoroso rispetto delle veline del Ministero dell’interno erano i servili Direttori dei grandi quotidiani. A Piera Rolandi della sede Rai di Milano, che chiedeva di occuparsi della strage, la Direzione di Rete rispondeva che non era un argomento opportuno per una donna.
Faceva eccezione Italo Pietra che garantiva la stessa autonomia dei vari Bocca, Nozzoli e Nozza, giornalisti pistaroli di cui si è perso lo stampo, ad Adele Cambria e Natalia Aspesi; puntuale e incisiva era anche Marcella Andreoli sull’Avanti, moglie di Giulio Obici di Paese sera, un altro coraggioso pistarolo.
Persino il lavoro di controinformazione era di esclusiva competenza maschile.
La Magistratura aveva arcigni supervisori, ossequienti censori di posizioni non ortodosse, come dimostra la proposta di provvedimento disciplinare, dei vertici del Tribunale di Milano, nei confronti di Guido Galli, Domenico Pulitanò e Edgardo Greco che avevano osato criticare la decisione di impedire al giudice naturale di celebrare a Milano il Processo di Piazza Fontana.
In questa galleria di figure femminili che hanno avuto, la vita stravolta dalle schegge della bomba di Piazza Fontana non potevano mancare le donne della famiglia Valpreda: Rachele Torri, Olimpia Torri, Ele Lovati e Maddalena Valpreda, imputate per falsa testimonianza nelle sei udienze tenute presso il Tribunale di Roma tra fine febbraio e inizio marzo1972. Siamo al livello di una tragicomica farsa, inscenata da una magistratura senza pudore. Un’umiliazione ripetuta a Catanzaro fino all’inevitabile assoluzione.
A Catanzaro tra la folta schiera di corrispondenti dei più grandi giornali italiani, tutti rigorosamente maschi, ricordo i servizi e di Carla Mosca per “Il manifesto”.
Dopo la sentenza di Bari, nel 1986, grazie alle “Edizioni dall’interno”, Leonardo Rinella, sostituto procuratore generale della Repubblica, Nicola Magrone sostituto procuratore, a Bari, e una donna, Laura Pavese, pretore a Cerignola, sono gli autori di una coraggiosa iniziativa editoriale: un cofanetto di tre volumi “Ti ricordi di Piazza Fontana?” vent’anni di storia contemporanea dalle pagine di un processo. Al progetto collaborano anche, Clara Zagaria, giornalista dell’ANSA e Clelia Galantino, giudice istruttore a Bari.
Quando il processo, grazie alle indagini di Guido Salvini approda a Milano, se ne occuperanno altre donne magistrato, Clementina Forleo, Grazia Pradella e Laura Bertolè Viale, compagna di scuola al Liceo D’Annunzio di Pescara di Emilio Alessandrini.
Nella copiosa pubblicistica, fino ai giorni nostri su Piazza Fontana, quasi tutti di autori maschi, fanno eccezione, Antonella Beccaria, Maria Elena Scandaliato, il bel libro di Benedetta Tobagi, “Piazza Fontana il Processo impossibile” e i suoi programmi radiofonici, Raffaella Foletti, Valentina Bertuccio D’Angelo e recentemente i servizi televisivi di Rai Storia di Vanessa Roghi, il lavoro di ricerca di Ilaria Moroni. I servizi di Anna Migotto, Mary Mirka Milo e Sabrina Pisu.
Nel 2016 AR, la casa editrice di Franco Freda ha pubblicato “Non ci sono innocenti” di Anna K. E Silvia Valerio, rispettivamente moglie e cognata dello stesso Freda. La storia sotto forma di romanzo è ispirata e dedicata, per ammissione delle stesse autrici a Giovanni Ventura, in realtà si tratta di un monologo e di un peana sotto forma di romanzo a “Giulio l’autocrate”, vale a dire Franco Freda. Una ricostruzione che mira a dare una improbabile motivazione e morale e culturale alle vicende, che a fine anni ’60 portarono alla nascita della libreria Ezzelino a Padova, del gruppo di Freda e Ventura. Una sorta di giustificazione sociale, politica e rivoluzionaria, agli scontri in piazza, alle bombe, all’ azione e all’occupazione delle università, dei nazifascisti veneti stanchi di essere condizionati dal MSI, e alla nascita dello stragismo. Il romanzo si interrompe prima dell’attentato di Piazza Fontana. Le presentazioni del libro sono organizzate nei circoli di Casa Pound, Forza Nuova e Fratelli d’Italia tra un tripudio di recensioni entusiaste. Ne parlano anche Paolo Morando e Enrico Deaglio nei loro libri pubblicati di recente.