GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA SULLE DONNE
MARATONA POETICA
poesie, racconti, fotografie, dipinti e disegni
per dire tutti insieme BASTA
#comel’increspaturadiunonda
#raccontamiunastoria
#rossorelativo
#donnexstrada
#apriamoleportedibelzebù
Stella
di Anna Pisapia
Ciao, mi vedi brillare in cielo?
Eh si, sono una stellina luminosa. Una volta ero una ragazzina che stava per diventare una giovane donna.
E ora invece non lo diventerò mai più, resterò per sempre una ragazzina.
Vivevo in Italia ma non ero italiana. Ero arrivata qui piccolissima, da un altro paese che nemmeno ricordo. Non mi appartiene.
Ora invece vivo altrove e questa è casa mia. Ho imparato una lingua nuova che i miei genitori non parlano ancora bene e sono costretta a comunicare nella loro. Così fin da piccola sono già brava a parlare due lingue ma ne voglio imparare ancora altre, appena divento più grande voglio studiare e andare in giro per il mondo e parlare con tutte le persone che incontro.
A Novellara fa freddo a novembre. L’autunno arriva presto. Dopo l’estate infuocata appena passata, quando il caldo era così asfissiante da farti trascorrere tutto il tempo a cercare un po’ di ombra, è arrivato il freddo. Gli alberi non hanno più foglie e il lavoro nelle campagne adesso trova tregua dopo settimane frenetiche.
Io vado a scuola e mi piace. Quando esco di casa, nascondo nella borsa i vestiti che piacciono a me e anche i trucchi. A casa sono costretta a indossare un lungo abito scuro e non posso truccarmi ma quando sono lontana da tutti, vado in bagno e ne esco trasformata. Quella sono io!
E mi piace fare le facce buffe e farmi tante foto. Vado sui social e condivido tante cose, lì ho un sacco di amici. C’è anche Saquib, l’ho conosciuto lì. Mamma quanto è bello! Ho anche dato il primo bacio e scoperto l’amore. Voglio stare con lui per sempre, magari lo sposo anche, chissà.
Un giorno sono tornata a casa dopo la scuola e mio padre aveva una faccia seria, ho avuto paura.
Mi ha detto che ormai sono grande e che dal mese prossimo lascerò la scuola perché mi ha promesso in sposa. È così nella nostra comunità ma io non voglio accettare questa cosa che sa di tradizioni che non mi appartengono. Comincio a parlare con lui, poi alzo la voce perché chiedo spiegazioni e nessuno me ne dà. Intanto sono arrivati i miei fratelli e i miei zii. Mia mamma in un angolo nemmeno parla, non alza gli occhi, non ha il coraggio di guardarmi. Vorrei che prendesse le mie parti per una volta, che mi difendesse, che dicesse che è tutto sbagliato che noi donne ora in Italia siamo libere di poter andare a scuola e, soprattutto, di poterci sposare decidendo noi chi e quando. Ma lui non sente ragioni e appena mi sente dire che non sposerò mai uno sconosciuto e che un fidanzato ce l’ho già, alza la mano e mi colpisce in pieno volto con violenza. Resto tramortita da quel colpo assestato con quelle mani che conoscono solo la durezza del lavoro. Se ci ripenso, non mi ha mai accarezzato e non ha mai fatto carezze nemmeno a mia madre. Che cosa triste deve essere non conoscere la dolcezza di una carezza. Saquib e io invece ce ne facciamo tante di coccole, avvolti nelle nostre grosse camicie di flanella a quadri, mi toglie il rossetto con i baci e io ne sono felice.
Ora invece sta cambiando tutto, in poche ore tutta la mia vita sta diventando un incubo da cui voglio svegliarmi e in fretta. Mi vedo stretta in una morsa che non lascia intravedere uscite. Vado a dormire, la faccia mi fa ancora male, è rossa e gonfia. Nel silenzio della notte penso che tra poche settimane sarà il mio compleanno, ho imparato che in Italia, quando compi diciotto anni sei maggiorenne, hai la libertà di decidere e di scegliere per te. Nessuno, padre o fratello o zio, può farlo per te.
E mentre tutti dormono mi alzo e, in silenzio, prendo alcuni vestiti e li ficco velocemente in una borsa. Sgattaiolo fuori, attenta a non farmi sentire e scappo via da quella casa. Sola in strada, nel buio della notte, non so dove andare ma a scuola ci hanno detto che ci sono luoghi per chi ha bisogno di aiuto e così decido di andare lì a chiedere se possono aiutare anche me.
Mi aprono e mi fanno entrare, anche se è notte e fa freddo. Racconto tutto a una giovane donna dai capelli colore del miele, è dolce la sua voce, mi rassicura con una tazza di cioccolata calda e mi dice di stare tranquilla che a me adesso ci penseranno loro. Mi dice che potrò andare in un posto sicuro e nessuno potrà più trovarmi. Sono felice, per la prima volta nella mia vita, solo un attimo di tristezza pensando a chi non ha colpe ma paga e pagherà anche per me. Solo un attimo e poi tutto scompare, spazzato via dalla conquistata libertà. E così me ne sto nascosta per settimane, aspetto di poter incontrare Saquib con il quale voglio andare in un’altra città e ricominciare una nuova vita. Le persone del centro hanno parlato anche con i carabinieri, hanno spiegato tutto e so di poter contare su di loro. Ormai manca poco, mi sembra di sognare a occhi aperti. Chissà a casa mia cosa avranno fatto quando hanno scoperto la mia fuga, sicuramente mi stanno cercando ancora. Saranno arrabbiati, lo so ma non mi importa. Io voglio essere libera e con loro non lo sarò mai. Sono combattuta perché mi sembra di tradire la mia gente, il mio sangue, le mie radici ma il richiamo della libertà è più forte. Se cambiassero idea io potrei tornare a casa e ricominciare ma so che non succederà mai. Se torno a casa mi sposerò con uno sconosciuto e diventerò una sua proprietà. Non sarò più una persona, una donna, sarò soltanto la moglie di un uomo che dovrò servire e rispettare e dovrò fare tutto quello che mi dirà.
Le settimane sono trascorse in fretta, ormai è tutto pronto per andare via. Servono i documenti che nella fretta di quella notte ho lasciato a casa. Saquib ha provato ad andare a casa e farseli consegnare da mia madre ma lei non lo ha fatto, ha troppa paura di mio padre, di quello che potrebbe farle. E così lo ha mandato via, forse per proteggerlo. Sa bene che mio padre e i miei zii lo ritengono responsabile della mia fuga. E allora faccio la sola cosa che non avrei dovuto fare, decido di andare a casa mia per prendere il mio passaporto.
Finisce la mia vita il giorno in cui torno a casa, divento prigioniera di chi mi ha messo al mondo, non mi fanno uscire e nemmeno andare a scuola. I servizi sociali si presentano alla mia porta ma hanno le mani legate. Solo mio fratello mi porta i biscotti la sera e, nella mia stanza, ci raccontiamo tante cose. Lui mi sorride e mi abbraccia forte, quando siamo soli mi dice di non aver paura. Ma io non ci credo. Un giorno ho sentito i miei zii dire cose paurose che non ho capito del tutto e da allora vivo sospesa, come in attesa.
Mi chiamo Saman Abbass e ora sono una bellissima stella nel cielo.
Non sono diventata grande e non sono morta libera, il mio corpo non è stato mai ritrovato.
Nessuno sa dove sono sepolta e nessuno porterà mai un fiore sulla mia tomba.
Non ci saranno preghiere o lacrime per me, forse la mia voglia di libertà non ha il diritto di reclamarne.
Il mio nome è Saman, ora sono una stella nel cielo e vorrei che la mia storia non venisse dimenticata.
Casa di Bambola
di Angela Scaglione
Giacoma si chiamava, era lei la bambola.
Viveva in un mondo incantato, al riparo di ogni bruttura e di ogni miseria umana. I suoi genitori le avevano costruito attorno una barriera invisibile di protezione affettiva. In quella casa, dove lei, figlia unica e amatissima, abitava come una piccola principessa.
La prima volta che vi entrai mi colpì il contrasto con casa mia.
Da noi regnava la fantasia, un allegro disordine, generato da sette ragazzi abbastanza turbolenti e due genitori indaffaratissimi e vivaci. Da Giacoma, tutto era calmo, rallentato, pacato. Inevitabilmente, bisognava controllarsi, adeguarsi a quel ritmo lento. Ogni sedia aveva il suo bel cuscino ricamato, pizzi e tende abbondavano e si respirava un persistente profumo di violette.
La cosa che mi sconvolse fu quando mi servirono il te dopo avermi invitata a un tavolino basso ricoperto da una finissima tovaglia ricamata.
Che paura provai di rovesciare tutto. Immaginate il rito del tè alle 17.00 in Sicilia? In quella casa mi sentii a disagio come mai più mi capitò da bambina, si,perché ero una bambina ed ero abituata in modo diverso.
Nel loro linguaggio tutto diventava vezzeggiativo e mi sentii chiamare “ Angioletta “ la bambola era “ Giacometta “ e la sua mamma era “ Ciccina “.
Giacoma era una ragazza bellissima e elegante, i suoi genitori la curavano esageratamente e per chi come me, doveva condividere spazi, vestiti, scarpe e ogni risorsa utile che una grande famiglia imponeva, mi provocò una certa invidia. Quella ragazza, ai miei occhi di bambina, era una privilegiata. Solo col tempo capii cosa volesse dire la ricchezza di una grande famiglia, l’immenso piacere di avere accanto gente vera e attenta ai miei bisogni.
Nella favola di “ Giacometta “ un bel giorno arrivò il principe, lei lo guardò con occhi sognanti, lo vide, sicuramente azzurro ma, lui non lo era. Lui era bello e cattivo, aveva fiutato l’affare e non se lo sarebbe lasciato sfuggire.
Si sposarono in pompa magna, lei sembrava una piccola nuvoletta di pizzo, lui rideva soddisfatto.
Ci mise poco a farle sparire il sorriso, cominciò a sperperare subito e quei poveri ingenui genitori non capirono in che mani si erano messi.
Quando arrivò la loro bambina, Giacoma tentò di reagire ma fu la volta che prese le botte poi non finì più.
A ogni richiesta di denaro non esaudita fioccavano maltrattamenti per tutti. Quando nacque il secondo bambino, Giacoma era l’ombra di quello splendore di ragazza che era stata.
Era sparito il suo sorriso luminoso, la sua grazia nel vestire, tutto sparito. La disperazione la portò a scappare da lui ma la minaccia di toglierle i figli la fece tornare.
Fu la sua fine.
Non sopportò quella vita, non era stata abituata a lottare per se stessa. Si spense giovanissima di dolore e di botte.
Quella bambola delicata era finita nelle mani di un orco che la distrusse ma, almeno si risparmiò di vedere i suoi figli finire in istituto per essere adottati quando lui si schiantò in un incidente stradale.
Finì così la favola di quella famiglia particolare, di quella principessa che avrebbe meritato un altro principe, un altro futuro.
Io li conoscevo
di Carla Bisogno
Io li conoscevo
Le loro biciclette appoggiate al muro
Le loro facce pulite
Poi il ghigno sui loro volti
Insulti indecenti dalle loro bocche
Mi strapparono i vestiti
La rabbia furiosa delle loro mani
Diventarono artigli , mi lacerarono l’anima
Gridavo pietà, gridavo i loro nomi
Diventati ormai falsi e bugiardi
Io li conoscevo
Tra i miei capelli rovi e spine
Avevano adesso mani insanguinate
Sul mio corpo freddo
Solo dolore.
Annientata
di Angela Scaglione
dedicata a Sara Pedri
Ginecologa, Ospedale di Trento
Di te, giovane e brava,
ragazza realizzata,
Non è rimasto niente,
Solo il dolore
Di chi ti ha amata tanto,
Di chi cerca ancora
E non si arrende.
Annientata!
Ti hanno uccisa piano
Goccia a goccia,
Distillando ignominia
E rancore corale.
Nessuno ti ha difesa
In quel tempo crudele
Fatto di ignobile sapienza.
Tu, fragile tra i lupi,
Hai scelto una pace
Dove salvarti e tutelare
Chi piange per te.
Come ti sei sentita
In quella Gabbia
di cattiveria
Mentre moriva il sogno,
il tuo futuro appena iniziato ?
Chi pagherà lo scempio perpetrato?
Chi sconterà questo peccato grave?
Scompari, Sara, ma resta la tua luce,
Il buio avvolge chi non ti tutelò.
Sarai nell’acqua?
Scorri assieme al fiume?
O sei nel vento
In ogni particella viva?
Resterai Giovane, Bella,
Sorriderai da foto
Che ingialliranno nel tempo,
Ma brillerai per sempre
Per noi che amiamo
il tuo sorriso
Bello!
la foto di Sara Pedri è tratta dal Corriere di Bologna
https://corrieredibologna.corriere.it/bologna/cronaca/21_agosto_19/sara-pedri-accuse-primario-tateo-richiesta-una-porta-insonorizzata-d5bf8094-00cb-11ec-94f2-e0432c13a3ec.shtml
Era così bello
di Carla Bisogno
Eri così bello mentre mi guardavi
Eri innamorato, con gli occhi mi accarezzavi
Dolci le tue parole, e carezze d’amore
A piene mani me ne davi.
Eri così bello, eppure sospettavi,
Non mi credevi, non ero abbastanza.
Eri così bello…ma negli occhi no,
Eri furioso, eri brutale
Le tue erano adesso parole aspre, amaro fiele mi facevi ingoiare.
Poi, alzasti le mani a colpire, a massacrare.
Pugni chiusi contro la mia pelle.
Eri così bello ma mi sferrasti un calcio
Mi lasciasti a piangere nel mio sangue
Eri così bello…eri così innamorato
Ma io non ti ho più visto così.
Seduta
O forse camminava.
Perché no?
Correva
Indipendentemente
Dal tempo, dal luogo.
Perché no?
Correva
(Oxygène
Qui gêne
C’est bien un
Oxymore)
La memoria
O forse il presente.
Perché no?
Correva
Sola
Ma non lo sapeva.
Perché no?
Correva
(Oxygène
Qui gêne
C’est bien un
Oxymore)
Seduta
O forse piangeva.
Perché no?
Correva.
Gianfranco Brevetto Oxygène Oxymore, 2021
la foto è dell’Autore

Hai lividi sul cuore e non solo
Lui non ti chiama più amore mio
Non ti abbraccia e non ti guarda
Usa le sue mani per picchiarti
Diventi piccola davanti a lui.
Cosa posso fare per salvarti?
Tu scappa, non permettergli
Più di farti del male.
Quei lividi oggi diventeranno profumati mazzetti di viòle

non chiamatelo mai amore.
nella furia dell’ uomo,
l’amore è assente, perso,
resta schiacciato nel possesso,
nell’atto sporco, rubato,
nella violenza ottusa.
Non lo scambiate per amore.
L’amore è altro, è cauto, leggero.
Sfiora la pelle, ne sente il profumo,
condivide il dolore, lo stempera,
lo sostiene. mai lo provoca,
abbraccia senza ferire
Non perdonate chi vi oltraggia,
chi vi annulla e ne gode
siate consapevoli che valete un mondo
che senza di voi l’uomo è dimezzato,
ridotto a poco,
siete voi il valore
Cercate donne che sanno lottare,
cercate aiuto in chi sa dare aiuto,
non vi affidate agli aguzzini
con l’ansia di cambiarli
è tempo perso, speranza sprecata.
Cambiano in peggio,
spengono la vita,
distruggono i sogni,
lasciano macerie,
vite annientate, spezzate,
desideri incompiuti,
case vuote.
Vivono d’odio e impongono la morte,
sono uomini persi
individui sbagliati
Si vendicano di donne
che hanno creduto in loro
tradendo i loro sogni,
rubandole la vita.


La tragica fine di Oretta Scalisi, la maestrina di Piolanas (Carbonia).
… Era l’alba del cinque Novembre quando Oretta salutò il marito, il geometra cagliaritano Ugo Satta, e i due figli Barbara di cinque anni e Enrico di due.
Diede loro un bacio, l’ultimo, e uscì di corsa da casa recandosi alla stazione ferroviaria di Cagliari per poi salire su un treno che la permise di raggiungere la piccola stazione di Barbusi, alle porte di Carbonia. Oltrepassate le portine pieghevoli di un vagone freddo e semivuoto, scelse dove accomodarsi meglio per affrontare quelle due ore di viaggio che la separavano dalla destinazione finale.
Seduta a fianco del finestrino, trasse dalla borsa un quadernetto, un lapis e un libro colorato, unica compagnia lungo il tragitto e da cui trascrisse alcuni appunti.
Contando le diverse fermate sulla tratta, un’ulteriore rallentamento del convoglio e un forte stridio di freni, la avvertì dell’arrivo.
Qui in un ripostiglio dietro l’ufficio del capostazione avrebbe trovato una bicicletta, che con la forza delle sue giovani gambe intorpidite dal freddo della brina autunnale, la condusse alla borgata di Piolanas, a dieci chilometri da Carbonia, dove gli scolaretti avrebbero avuto per la prima volta una maestra per l’intero anno scolastico.
Oretta non è tranquilla, il tragitto con una bicicletta sgangherata, da sola e tra le campagne deserte la preoccupa, un ansia che qualche giorno prima la spinse a chiedere che qualcuno l’accompagnasse.
La scuola però aveva ripreso le lezioni trascorsi alcuni giorni di vacanza per festeggiare tutti i santi e non vi fu stato tempo per organizzare la scorta.
Quel cinque di Novembre, come succedeva da qualche giorno, a mezzogiorno, terminate le lezioni Oretta saluta tutti, monta in bicicletta e parte, ma non arriverà mai alla stazione di Barbusi.
A dare l’allarme è il marito, preoccupato del ritardo non vedendola rientrare a casa.
Iniziarono le ricerche che si protrarranno fino a tarda notte, quando finalmente su un lato di un canneto le torce illuminarono un corpo riverso in una pozza di sangue e con la gola squarciata. Era Oretta.
Il cadavere venne scoperto dal marito.
Le indagini vennero dirette personalmente dal questore di Cagliari, Weurel, in collaborazione con i Carabinieri e si comprese sin dal principio che non fu un omicidio a scopo di rapina, accanto al cadavere furono ritrovate la bicicletta, la borsa e l’orologio che lei portava ancora al polso.
Venne accertato che l’omicidio avvenne tra le 12 e le 12.30 di quel Martedì.
L’assassino conosceva bene le abitudini della donna, attese la sua vittima nascosto dietro un canneto e quando lei arrivò a tiro, lui le bloccò la strada e la bicicletta, la strattonò finche la giovane cadesse a terra.
La trascinò poi a forza dietro il canneto dove, dopo averla brutalmente violentata, l’assasinò.
Gli inquirenti rinvennero sul suo corpo tutti i segni di una disperata lotta, lei tentò di tutto prima di soccombere al bruto. Compiuta la violenza, l’uomo che da lei riconosciuto, la uccise recidendole la gola con un coltello affilato.
Nei giorni successivi in caserma vi fu un gran numero di interrogatori ma solo un uomo restò in carcere.
Angelo Manca è un contadino padre di quattro figli, a lui la maestrina si era rivolta per ripararle la bicicletta che il Provveditorato le aveva messo a disposizione. Lei a Cagliari aveva già acquistato i bulloni per ripararla e questi furono ritrovati vicino al corpo.
Angelo giurò di aver già riparato la bicicletta nei giorni precedenti e quindi non poteva esser lui a perdere quei bulloni che dovevano essere nelle tasche di Oretta, tenuti a scorta nell’ eventualità che in futuro ci fosse ancora bisogno.
I suoi compagni di lavoro però, testimoniarono che quella mattina, lui si allontanò tra il mezzogiorno e le quattordici, altri raccontarono di averlo visto aggirarsi furtivo nei pressi del delitto proprio tra quelle ore.
Ci furono anche tentativi di dissuadere il marito dalle ricerche, questo fu abbastanza per convalidare il fermo e per affermare la colpevolezza nella sentenza istruttoria del 23 aprile del 1958.
Angelo venne tradotto in carcere dove si impiccò due settimane dopo l’omicidio, mezz’ ora prima aveva mangiato e scambiato due chiacchiere con la guardia carceraria.
A Cagliari intanto le insegnanti manifestarono in piazza, Oretta divenne il simbolo di una situazione di grave pericolo denunciata a più riprese e ignorata sino alla tragedia e la questione venne discussa in Parlamento.
Trascorso un anno dal luttuoso fatto, a Piolanas vi fù celebrata una solenne commemorazione.
La piccola scuola organizzata in una chiesetta sconsacrata, non vide più il dolce sorriso di una giovane maestrina, Oretta Scalisi, romana appena venticinquenne, e i suoi occhi azzurro cielo non lessero più i pensierini di quegli scolaretti.
La sostituì un maestro, un uomo.
Ad attenderlo ora alla piccola stazione di Barbusi non vi è più una bicicletta malandata,
ma un’automobile che lo accompagna ogni giorno al sul posto di lavoro.
Dovette succedere una tragedia, e una giovane donna dovette morire prima che la sicurezza fosse garantita a chi ogni giorno attraversava strade deserte per poter insegnare i bambini a leggere e scrivere.
Non fù il povero Angelo Manca ad uccidere la poveretta, ma suo marito, il geometra cagliaritano che per primo scoprì il cadavere, venne denunciato dopo anni dalla sua seconda moglie e lui confessò.
(pubblicato su fb da Roberto Camedda il 5 novembre 2021)
Dati:
1) – l’Unità.
2) – La donna sarda – Morena Deriu – 2016
Quel NO che cambiò la storia
di Angela Scaglione
Quel NO che cambiò la storia
Franca aveva un viso da bambina e una volontà ferrea.
Nella Sicilia degli anni’60 bastava poco per perdere la reputazione. Era sufficiente il pettegolezzo di una comare oppure un sorriso di troppo alla persona sbagliata. La “ moralità “era un concetto fragilissimo e le donne, spesso, pagavano a caro prezzo quello che veniva considerato sbaglio, errore, leggerezza, mai amore. Baciarsi era considerato un tabù, figuriamoci un rapporto sessuale, se poi da questo nasceva un figlio, quella donna era marchiata a vita con una parola infamante “ PUTTANA “. L’orrore era che la sua condizione la esponeva al libero disprezzo e tanti si sentivano autorizzati ad approfittarne.
Nel 1965 Franca Viola disse NO, dopo essere stata sequestrata e stuprata da un piccolo delinquente del paese che non voleva accettare il suo rifiuto ad essere corteggiata. La regola delle nozze riparatrici fu sovvertita da una sedicenne coraggiosa, fu lei, una ragazza siciliana a dire, pubblicamente :- Piuttosto che sposare lui, mi uccido. Non ebbe paura Franca dei pettegolezzi, né si piegò all’usanza barbara delle nozze obbligate. Aveva subito una grave violenza e lo Stato dovette difenderla. Per la prima volta, finì in galera il violentatore e la vittima cambiò, col suo coraggio, quella regola mai scritta ma imperante, che condannava le vittime a sposare chi le aveva violentate. Quando ci fu la sentenza di condanna, tutte le donne siciliane esultarono; era l’inizio della loro emancipazione, si riprendevano la libertà di scegliere chi volevano loro e una legge fu cambiata grazie alla determinazione di quella ragazza che disse NO, convintamente.
Essere Donna
di Angela Scaglione
Essere Donna è fantastico!
Sta a noi fare della nostra vita un capolavoro,
Lavorando su noi stesse, facendo gruppo e sostenendoci reciprocamente.
Diventeremmo invincibili, forti della nostra unità,
Consapevoli delle tante specificità individuali, riconoscendo il potenziale di ciascuna di noi.
Non subiremmo tante ingiustizie, non sopporteremmo soprusi né angherie da parte di alcuni uomini, specie nel campo lavorativo ma anche in quello familiare. La sorellanza ci dovrebbe motivare a fare alleanze invece che guerre tra noi. Diventare alleate e mai nemiche, sostenere piuttosto che criticare, appoggiare e difendere nei momenti critici.
La nostra debolezza, spesso la creiamo noi stesse, con piccole ipocrisie e invidie latenti. Dovremmo superare l’attitudine dell’apparire e concentrarci sull’essere quel che siamo, con pregi e difetti ma forti del nostro orgoglio femminile.
Siamo noi che reggiamo pesi familiari, che ci impegniamo a seguire figli e lavoro, provvediamo a far quadrare bilanci e se abbiamo accanto l’uomo giusto, facciamo anche i miracoli di una famiglia unita.
Siamo donne non bambole e neanche oggetti da esibire. Il nostro cielo è immenso se siamo nel posto giusto con le persone giuste. Non chiediamo l’impossibile, esigiamo rispetto, amore e comprensione e siamo disposte a dare la stessa cosa a chi fa parte del nostro cielo.
Siamo consapevoli che l’amore può finire ma deve rimanere la libertà di ciascuno a vivere la propria vita. Niente violenze! Niente sopraffazione, solo libertà d’amare reciprocamente e dopo, vivere, senza che nessuno ci consideri ” CASA SUA ”
Pensavo fosse amore
di Mario Rigli
Eppure pensavo che si trattasse di amore
avremmo scalato montagne, attraversato foreste
che mai mi avresti procurato dolore
che avresti gioito sulle mie carni peste
e invece in un angolo buio ho stretto i ginocchi
in attesa di botte, di calci e di sputi
con le mai tremanti ho coperto gli occhi
ho pensato al tempo, agli anni perduti
mi hai privato dell’ultimo filo di voce
ho sentito il caldo del sangue colare dal naso
i miei e tuoi figli hai messo in croce
ti sei scoperto tu, non bestia a caso
tu non potevi essere Adamo
la mia non è la tua costola
era falso ogni tuo “ti amo”
tu solo una fetida pustola.
Ed io madre, moglie, sorella e donna
davo di me più del dovuto
dell’umanità mi pensavo colonna
e per te ero solo starnuto
la tua lama che penetra non fa male
io vivrò ancora anche se perdo la vita
solo un passaggio duro da affrontare
ma per te è sicuramente finita,
non calpesterò più le strade del mondo
ne solcherò le onde del mare
ma tu, essere nauseabondo
non sai cosa vuol dire amare.
Nei miei palmi hai piantato chiodi
come nelle mani dei nostri figli
suppliche e lamenti più non odi
devi sprofondare, non hai più appigli.
8 Marzo tutti i giorni
di Giovani De Lucia
Non dovrebbero esserci date per ricordare la brutalità umana, se tale si perpetua ogni giorno. Vorrei che fosse sempre l’8 marzo, 365 giorni di 8 marzo. Noi nasciamo da una donna ed è l’ultimo ricordo, di una donna è l’ultima carezza che sentiamo, il nome di una donna è l’ultima invocazione che pronunciano prima di diventare infinito. Cerchiamo di vivere 365 giorni all’anno come un unico grande 8 marzo
“Non voglio immaginavi tutte come una sola ed unica essenza, voglio immaginarvi come fiori di campo, ognuna con il suo colore, con il suo profumo. Ognuna con il suo modo unico di affrontare il vento della vita, capaci di mischiare semi come i canti dei passeri. Ognuna con la sua rugiada e con i suoi raggi di sole. Ognuna pronta a farsi baciare dalla luna e ad accogliere i sogni più intimi. Oggi dovrebbe essere un giorno speciale da ricordare sempre, invece credo che vada celebrato questo giorno ogni giorno, perché uniche siete come fiori di campo. Auguri Vite.
(Il Nautiere)
In piedi, Signori, davanti ad una Donna
di Silvia Ravelli
Quando lessi per la prima volta queste parole di W. Shakespeare, pensai che di meglio
non si poteva certamente dire della Donna : mai prima di allora avevo trovato scritti di tale livello, tanto che sinceramente lo posso definire insuperabile.
Cogliere cosi profonde sfumature in poche righe dando senso vibrante, onorare l’essenza senza piaggerie, esaltare senza eccedere ma arrivando direttamente al cuore, impattare in modo altisonante eppure lineare usando un linguaggio perfetto, adeguato e senza fronzoli è appannaggio di poche rare penne.
Spero possiate condividere le mie emozioni ed un grazie sincero
Buona lettura
In piedi, Signori, davanti ad una Donna
Per tutte le violenze consumate su di Lei,
per tutte le umiliazioni che ha subito,
per il suo corpo che avete sfruttato,
per la sua intelligenza che avete calpestato,
per l’ignoranza in cui l’avete lasciata,
per la liberta’ che le avete negato,
per la bocca che le avete tappato,
per le ali che le avete tagliato,
per tutto questo:
in piedi, Signori, davanti ad una Donna
E non bastasse questo, inchinatevi,ogni volta che vi guarda l’anima,
perché Lei la sa vedere,
perché Lei sa farla cantare.
In piedi, Signori, ogni volta che vi accarezza una mano,
ogni volta che vi asciuga le lacrime come foste i suoi figli,
e quando vi aspetta,anche se Lei vorrebbe correre.
In piedi, sempre in piedi, miei Signori,
quando entra nella stanza e suona l’amore
e quando vi nasconde il dolore e la solitudine
e il bisogno terribile di essere amata.
Non provate ad allungare la vostra mano per aiutarla
Quando Lei crolla sotto il peso del mondo.
Non ha bisogno della vostra compassione.
Ha bisogno che voi vi sediate in terra vicino a Lei
E che aspettiate che il cuore calmi il battito, che la paura scompaia,
che tutto il mondo riprenda a girare tranquillo.
E sarà sempre Lei ad alzarsi per prima
E a darvi la mano per tirarvi su
In modo da avvicinarvi al cielo,
in quel cielo alto dove la sua anima vive e da dove,
Signori,
non la strapperete mai.
William Shakespeare
la foto è tratta dal film Shakespeare in Love
Era una bambina
di Carla Bisogno
Il ronzio del televisore acceso
caldo e finestre spalancate , immagini forti e dialoghi duri , violenti
lacrime copiose, silenziose allagano il viso.
Nel nero della notte quelle lacrime lavano un dolore antico, purificano quel corpo innocente violato , sporcato fin dentro l’anima.
Non basteranno tutte le lacrime del mondo a nettare quelle membra acerbe, quei seni appena sbocciati, quella natura serbata nel profondo. Solo ieri correva in quel prato di margheritine , braccia nude incontro alle nuvole , sul viso un sorriso da bambina.
Dipinto di #RobertoFerri ” l’ Angelo , La Morte e il Diavolo” olio su tela 150x 150.
La corona di spine
di Marina Neri
Cinge i tuoi fianchi, donna, diadema perenne.
Impreziosito di spine quando decisero che nient’ altro eri che il ricettacolo dei loro umori.
Cinge i tuoi fianchi, unico orpello, gli altri li han giocati a testa o croce , centurioni con il gladio fra le gambe, pretoriani al servizio di un dio mutevole secondo le pulsioni.
E ti diedero uno schiaffo e ti dissero: – Taci! –
E ti diedero un pugno e ti dissero:- Ascoltami!-
E ti diedero un calcio e ti dissero: – Ubbidisci!-
E ti fecero regina del regno del loro piacere e ti dissero:- non importa se godi solo per non morire!-
Hai contato le spine di quella corona che sovrasta il tuo pube?
Quanto fa male il peso di un uomo che fa penetrare le spine dentro la tua carne?
Quanto costa dinanzi al Sinedrio la congiura ordita al tuo grembo?
Quanto tatua il dolore di essere monile senza mai divenire Galatea?
Quanto è triste essere crocifissa ogni giorno senza neppure una religione a renderti dea !
Una vita a colori
di Nadia Corradetti
Bianca e nera la vita
Capelli neri, tanti, lisci Troppo lisci, tanto da non spettinarsi mai
Troppo, mai.
Calzettoni bianchi, cotone rigido, duro, ricamati, lunghi ma sempre troppo corti e stretti
Come la vita che sarebbe stata
Scarpe delicate, “da signorina”.
Signorina perbene, gonna, lunga, mai sopra al ginocchio perché ” Non sta bene”.
Occhi neri, di quelli che si aprono al sorriso,
pronti ad affacciarsi sul tuo mondo interiore
Neri e profondi.
Il suo mondo interiore non lo trovi in quella profondità.
È nell’abisso.
Sangue, sperma, vomito. Schifo.
Una vita a colori si affaccia. Calze
gioia
minigonna
ombretti e rossetto
abbracci
amore.
Amore…
Un bagliore.
Una lama lucente.
Affonda.
Sangue. Rosso.
Buio.
Lei e Dio
di Francesco Briganti
Lei e dio
giaci straccio sporco
lordata del tuo dolore
ovunque rotta e persa
l’anima corre nell’oblio
disperata incompresa vittima
merce avariata al mondo
soffri l’indifferenza patita
piangi lacrime di sangue
trasudi la vergogna carnefice
della bestia che ti ha violato
gli occhi lo sguardo l’anima
donna vilipesa nel corpo
anima offesa nella dignità
eterno marchio d’infamia
all’infame brutale iena
maschio ferale e violento
giacché Iddio è donna
non paga al sabato
ma la domenica mattina
già al sorgere del sole
non deve più nulla a nessuno
e chi aveva debiti ha gia pagato!
(Ho) Pianto
di Ernesto Aufiero
“Potrò mai perdonare a te che giri casa
con la vestaglia unta di macchie di dolore …”
Claudio Lolli – Compagni a venire
“Per me la previsione ha sempre sciupato il godimento.
Ho visto il futuro solo perdendoci”.
Jean-Jacques Rousseau – Confessioni
L’ottobre dei miei vent’anni.
Passo notte e giorno a scrivere uno dei miei primi testi teatrali, un testo cattivo e scorretto, sghembo, sull’aborto.
Sono divorato dal fuoco della militanza e dall’urgenza di andare in scena con un tema scottante, che affronto utilizzando cori greci, canzoni di Claudio Lolli (“Compagni a venire” scorretto e fastidioso come un’unghiata sulla lavagna), e brani di Don Lorenzo Milani.
Mio padre mi affronta una mattina presto, prima di andare in ufficio.
Inizia a parlarmi con i toni accattivanti dell’adulto comprensivo: “… perché ti comporti così? Com’è che non studi più? Che cosa vuoi fare della tua vita?”
Rispondo solo perché mi sento incalzato: “… voglio fare teatro, scrivere e mettere in scena cose, racconti”.
Mi guarda in un modo che mi è rimasto impresso per sempre, come se gli avessi mancato di rispetto.
“Teatro? Racconti? Con quale faccia, con quale coraggio tu a vent’anni mi vieni a dire non studio perché voglio fare teatro? Dimmi, spiegami con quale coraggio!”
Mentre mio padre parla, seduto su una sedia della cucina, impermeabile addosso, mia madre è china a terra, gli infila e gli allaccia le scarpe, le lustra.
La guardo, guardo il suo modo franoso di amare.
E a mio padre non spiego nulla, faccio invece una cosa molto stupida: mi metto a piangere.
Lui reagisce immediatamente: “Ci avrei scommesso: dopo il teatro il pianto, cose da femminucce…”
Si alza, esce.
Da allora è passato molto tempo, i contorni di questo fatto sono sbiaditi, non ricordo nemmeno le parole esatte che mio padre mi disse, a parte la certezza che usò proprio quelle espressioni: “con quale coraggio” e “pianto? roba da femminucce”.
Restai con la mia ferita, avevo vent’anni e per un gran numero di motivi non particolarmente interessanti smisi di studiare e iniziai a lavorare.
Mi aspettavo da mio padre lodi e consigli incoraggianti, invece lui mi aveva trattato come se quella mia ambizione fosse una gravissima colpa.
Giurai che non avrei fatto teatro mai più. Ero umiliato e furibondo, disperato e feroce. Riuscii a nascondere in qualche angolo del cervello la vergogna di aver pianto “come una femminuccia”, e il rancore e lo spavento per la reazione scomposta di un adulto che amavo tanto.
“Pianto? roba da femminucce” mi aveva detto: un’espressione assurda, solo le donne possono piangere? A me piaceva piangere, mi commuovevo spesso, da solo, per esili cose.
Volevo togliergli autorità e ci riuscii. Mi aveva guastato il piacere di pensare al palcoscenico e il godimento di buttare in lacrime i sentimenti belli e brutti che vivevo.
Solo da poco tempo ho rivisto in quegli attimi l’infelicità di chi si è scoperto non all’altezza del suo stesso ruolo, e quando vede che il ragazzo che ha davanti sta per mettere precocemente a rischio, senza alcuna consapevolezza, l’intera sua vita, prova fastidio, rabbia e pena e attenzione e affetto e gelosia.
Un impasto disomogeneo di sentimenti che lo fa agire d’istinto in modo eccessivo: “Attenzione, piccolo stupido, la vita è una cosa seria, e un maschio nella vita deve fare cose da maschi, io lo so come stanno le cose, lascia perdere …”
Come se per tirarmi via da un pericolo mettesse troppa forza e mi spezzasse un braccio e una gamba.
Insomma mio padre finì in un groviglio di quelli che oggi so riconoscere abbastanza bene.
Mi riferisco a quei piccoli e grandi momenti nella nostra vita in cui l’ordine che ci siamo assegnati ribolle, e i pezzi eterogenei di cui siamo fatti, mai veramente connessi, si urtano e vanno in mille minuscole scaglie, come le onde quando si tuffano e schiumano, riducendoci per un minuto, per giorni, anche per anni, alla cosa arruffata, sempre debordante, che veramente siamo.
Mio padre, con tutta probabilità, mi investì con il suo improvviso disordine e nei pochi secondi in cui, davanti ai miei occhi, si sformò “… piangi? come una femminuccia?” mi fece male fino a sformare anche me.
A vent’anni mi spaventai, al punto che la perdita brusca, per qualche istante, della vecchia apparente coesione, l’insorgere in me come negli altri dell’incoerenza, seguita tuttora a spaventarmi, e allo stesso modo mi spaventa la debolezza, e il pianto.
Poi sono cresciuto e di quei momenti ne ho visti altri, e altri ancora mi sono tornati in mente fino a diventare il mio nutrimento di uomo: devo a loro se mi è sembrato di avere qualche ragione per scrivere, e cercare e raccogliere le storie di altri.
Crescendo non ho più creduto, per esempio, alla convenzione che abbiamo un unico volto, e che quel volto è la nostra identità. Siamo organismi mutevoli e il viso non è la nostra componente più stabile.
Perciò mi sono tenuto le mie trenta e più facce quotidiane, utili per vivere pienamente la mia vita. So che una di queste facce è donna, è bellissima, e ne sono orgogliosa.
Oggi abbiamo bisogno più che mai di strapparci a noi stessi, ad artificiose e abusatissime, stereotipate identità, e sentire tutto il peso, tutta la responsabilità di parlare e conoscere dell’altro, di esseri umani e non umani, di pietre, di piante, del brutto e del bello, del pianto e del riso, sconfinando, disaggregando, aggregando, inventando.
Oggi a mio figlio quattordicenne spiego che le uniche cose certe restano le sue lacrime per i primi fallimenti sentimentali, e quelle materialissime dei testi che nel tempo la mano è andata componendo, parola dietro parola.
Oggi Dio che scrive c’è, domani no.
Oggi è uomo o donna, non importa.
Oggi ha talento, domani lo perde.
Oggi si monta la testa, sogna, e piange.
Domani se la smonta. O è un padre qualunque, il mondo, a smontarla.
Nel deserto
di Maria Ester Mastrogiovanni



Nera di fuliggine, sporcata dalle mani dei passanti.
Nudo, il suo corpo bianco di statua marmorea anelava con bramosa lascivia.
Lei nel suo abito color rubino, setoso scivolava lungo la scala facendo attenzione ai sassi, alle feritoie dei gradini. Entrò nella stanza e il biancore di quel corpo ferì i suoi occhi, era di una bellezza magnifica .Lui la vide smarrita, accecata da quel raggio di luce. Le fu alle spalle ghermendola , si impadronì di quella veste e lei restò nuda in mezzo ai ruderi. Poi la statua si appiattì e tornò nel suo quadro, al suo posto. Zelda scese di corsa le scale rabbrividendo nel suo abito rosso rubino.

Violenza è
Violenza è un complimento volgare.
Violenza è sottovalutare una denuncia per maltrattamento.
Violenza è essere valutata per l’aspetto e non per la competenza.
Violenza è ignorare chi ci chiede aiuto.
Violenza è fare leggi che penalizzano le donne.
Violenza è la disparità salariale che discrimina le donne.
Violenza è obbligare le donne a rapporti non voluti.
Violenza è far sposare una donna non consenziente.
Violenza è picchiare una donna.
Violenza è rifiutargli la libertà di sentirsi libera di esistere in quanto donna.
La violenza è strisciante, subdola, invasiva.
Arriva in tanti modi, si manifesta verbalmente, quando giunge al limite diventa pericolosa, distruttiva, letale.
Ci vorrebbero dei corsi per imparare a distinguerla, a percepirla prima che degeneri.
Troppe donne uccise, si sono fidate di chi diceva d’amarle.
Chi ama non picchia, non mortifica, non umilia.
Al primo schiaffo telefonate al 1522, cercate aiuto, salvatevi la vita.
L’ultima sera della rosa rossa
di Marina Neri
Ogni sera, la mia sera
temo l’ultima nel suo sguardo…
Rosa rossa,regina io ero
nel giardino di un solo re.
Mi recise,con mano bruta
mi umilio’ dinanzi a sé.
Un petalo ogni giorno cadde dalla mia corolla…
in ginocchio raccoglievo
fra le lacrime infiniti perché.
Testa china,rosa rossa
mentre io volevo il sole
schiaffi,pugni, calci
urla e mai di carezza una sola mossa…
mentre violente erano persino le sue parole.
Mi teneva fra le mani
fiore reciso…credevo per amore…
Lo guardavo e ancor temevo di pungerlo con le mie spine….
Soffrivo per lui…
per quel suo strano cuore…
Sentii il sangue colare fra le mani…
Ero stata io a procurargli il dolore?
Io a far
diventare di tempesta il suo umore?
Capi’, a sera, nella mia sera, mentre la linfa volava via da me,
che quel mio sole
mi aveva immolata
sull’altare del suo malato amore.
Corpo di bambola
di Carla Bisogno
Non sapevi amare le donne.
Tu volevi solo stringere dei corpi vuoti, senza pensieri, privi di anima, svuotati di ogni senso.
Hai preso una bambola. L’hai usata, rivoltata come un vecchio calzino, l’hai sbattuta su un lercio letto, lurido come il tuo cuore. L’hai percossa fino a farle gridare: uccidimi!
Lei era una donna.
Tu un mostro.
Foto di Lino Rusciano
Maledetti Dei
di Marilla Lovato
Credo nel potere evocativo delle parole, le immagini che ne scaturiscono occupano la nostra mente e i pensieri. Ed ero immersa nei miei pensieri questa settimana, stavo costruendo la foto che volevo proporre a Pier per il blog, per la giornata contro la violenza sulle donne quando ha suonato il cellulare e un messaggio sulla chat ha catturato tutta la mia attenzione. Una proposta. Dovevo tenere una brevissima lezione di antropologia per tutta una scuola elementare sulla simbologia di un albero e i miti ad esso correlati. Una sfida per il breve tempo che avevo. Senza pensarci due volte ho iniziato subito a preparare la lezione, informandomi su tutta la storia, sulla simbologia e i miti greci… Finché preparavo il discorso che avrei tenuto, cercavo di rendere semplici termini e simboli, intuibili a tutti. Fino ad arrivare a Orione. La leggenda narra di un gigante cacciatore che punisce la moglie vanitosa lanciandola nell’Ade… rileggo e ripeto… Orione punisce la moglie vanitosa… veramente voglio dire a questi ragazzi che un marito punisce la moglie perché si crede bella? E ancora Proserpina: bella e innocente punita per la sua ingenuità a rimanere sottoterra ingannata da quello che a forza sarà suo marito? Maledetti Dei!
Il mito non mi appartiene ma le parole sì. Decido di cambiare punto di vista. Avevo tutti gli occhi fissi su di me finché narravo di questi miti e leggende e ho voluto specificare che non veniva punita Side per la sua bellezza, o peggio ancora, perché donna. Era la sua vanità a essere punita, il comportamento. Credo nel potere evocativo delle parole, credo che spiegando semplicemente le cose si possa avere un idea diversa dalla semplice spiegazione che ci viene data. Questa è stata la conclusione dell’incontro, l’augurio di restare unici, curare il loro cosmo, la scuola e curare loro stessi nella ricerca della bellezza della conoscenza dentro la scuola.
Ogni parola detta lascia una traccia, un solco. Proserpina non ha avuto scelta, noi si.
nella foro: Bernini, Ratto di Proserpina, particolare


“Chiantu di matri ”
Chi llocu ti sciglisti figghia mia?…
E ti sciupparu u cori,
non era llocu fattu pi ll’amuri
non c’erunu carizzi e fantasia.
Ru me giardinu eri la billizza,
nu sciuri delicatu e profumatu,
nte mani soi, nu sciuri sciuppatu…
ti mmazzau e di tia fici mundizza.
Sula fusti cu stu to’ fardellu,
vulisti beni all’assassinu toi,
non mi ricisti mai, vaiu o macellu
e pecura fusti figghia,
intra li mani soi.
Mentri murivi picciriddha mia,
non c’era la me manu mi ti stringi,
mi ti ccarizza ancora li capiddhi…
mi ti rici, rormi…mamma e’ cca cu ttia!
Traduzione:
Pianto di madre
Che luogo hai scelto,figlia mia?
E ti hanno strappato il cuore,
non era un luogo fatto per l’amore,
non c’erano carezze e fantasia.
Del mio giardino eri la bellezza
un fiore delicato e profumato,
nelle mani sue un fiore strappato,
lui ti ha uccisa e di te fatto spazzatura.
Sola sei stata col tuo fardello,
amavi il tuo assassino,
non mi hai mai detto vado al macello
e pecora sei stata tra le mani sue.
Mentre morivi, piccola mia,
non c’era la mia mano a stringerti,
a carezzare ancora I tuoi capelli,
a dirti, dormi, mamma e’ qui con te!
Lentamente (Melania)
di Angela Scaglione
Sei caduta piano, lentamente,
Come una foglia
che abbandona il ramo.
Hai fatto resistenza,
Non ti sei arresa,
Al bacio che ti ha tradita,
Hai lottato per la tua vita
Mentre i colpi arrivavano a segno
E ti spaccavano il cuore.
Di quell’amore ti sei fidata,
Le hai donato tutto, anche una figlia.
Ora sei senza vita, sorridi sempre
Lo stesso sorriso, statico,
fermo a quel giorno
Che il tuo sangue si fermò.
Chissà cosa hai provato
Mentre la lama tagliava e feriva,
Quali pensieri ti hanno attraversata?
Ma tu non eri foglia, tu eri madre,
Quella figlia ti perde mentre cadi,
Mentre il buio offusca i tuoi occhi
È il suo nome che urli, all’infinito.
Donna che muore, madre sprecata,
Uomo che diventa assassino
Bambina che subisce
Il più crudele inganno.
Privata dall’amore a cui aveva diritto,
Offesa da chi doveva amarla,
Tradita da un padre inconsistente,
Chi pagherà la sua perdita immensa?
Come la cambierà l’assenza di sua madre?
L’orrore ora è sospeso,
Ma arriverà col tempo,
devasterà quel cuore di bambina
farà altri danni, scaverà dolori sopiti.
Ma tu ci sarai, madre nel suo cuore,
nei suoi pensieri e nelle sue
inevitabili lacrime di rimpianto.
Ora dormi Melania, l’Autunno è su di te.
Scolora in mille sfumature,
Ti copre con le foglie,
ti protegge dal mondo.
La violenza non è mai sola
di Barbara Morello
La violenza non è mai sola, è la parte di una storia che ha un incipit, un epilogo e più autori. Mentre i due protagonisti sono smarriti nella trama, gli altri autori si nascondono dietro la scena.
Sì, il dramma o la tragedia si srotola nel teatro della vita dei protagonisti, ma se si è convinti che le paure e le sofferenze si imprimano solo nelle cellule di chi le vive, siamo persi nella menzogna.
La sofferenza non è mai solo di chi la crea, o la subisce, la sofferenza si iscrive nel cloud dell’umanità intera. La sofferenza di ogni essere umano, e non, fa vibrare il mondo nelle frequenze più basse, fa tremare l’universo, entra in ogni individuo qui, sulla terra e sopra la terra.
Siamo tutti colpevoli e tutti coautori. Non sentire direttamente il dolore fisico, o la violenza psicologica, non significa non respirarla perché quando l’aria è tossica, lo è per tutti.

Saman indossa il velo
Saman non si depila le sopracciglia
Saman ha vestiti lunghi che le coprono il corpo
Saman ha diciott’anni e vive
in una città italiana dove le ragazze sono libere , indossano jeans attillati e magliette che scoprono l’ombelico
Si innamorano di ragazzi che possono incontrare e frequentare.
Saman è stata promessa in sposa dal padre, lui ha ricevuto la proposta di matrimonio dal padre di un giovane pakistano. Nella loro cultura i giovani non decidono di sposare chi gli piace, si organizzano invece, matrimoni combinati.
Saman ama un ragazzo pakistano e vorrebbe fuggire con lui per poter vivere insieme. Ma Saman fa parte di un mondo che vive delle sue rigide tradizioni fatte di leggi immutabili, nonostante l’emigrazione in paesi come il nostro.
Saman sa che la sua ribellione sarà la sua condanna. Neanche una madre può salvare sua figlia dalla barbarie
Saman sparisce nel nulla , inghiottita dalla paura e dalla solitudine. Saman ha denunciato la sua famiglia, sapeva che l’avrebbero uccisa per lavare l’onta del suo onore violato.
Saman ha provato a volare, ma gliel’hanno impedito. I genitori che avrebbero dovuto proteggerla e difenderla per tutta la vita, l’hanno consegnata ai parenti carnefici.
Mai più come Saman.


per marchiare
con la paura crudele,
la fame nera del lupo,
con il suo fiato d’ombra
di predatore di attimi,
di silenzi incompiuti e incancreniti,
oltre ogni limite
per saziarsi
del dolore e dell’ansia,
di un cielo divenuto pietra
da un succhiatore, affamatore
di mondi.
Non si può spezzare un’ambra
preziosa contenitrice
di delicate orme, di un passato,
intriso di un futuro
già estinto:
impronta sulla terra
come memoria.
No! non si cancella, perché
intensa, delicata e viva
farfalla,
che vuole solo volare
senza cuore di fiamma
che le brucerebbe le ali
fino a morirne.
O macellarla, per saziare
il cuore di un Demone.

Il 24 novembre 2009 fu uccisa, in modo disumano, una giovane mamma, Lea Garofalo. Fu uccisa a Milano, lei calabrese della provincia di Crotone, dal suo ex compagno da cui era fuggita e con cui aveva messo al mondo Denise, la sua principale ragione di vita fin quando è rimasta su questa terra.
Lea aveva avuto il coraggio di diventare testimone di giustizia, fornendo agli inquirenti informazioni utili per comprendere le dinamiche della faida fra la famiglia del suo compagno e la sua famiglia d’origine, disvelando la bestialità della cultura di ‘ndrangheta.
I suoi funerali furono celebrati a Milano dopo quasi 4 anni, perché la furia ‘ndranghetista dell’ex compagno si accanì non solo contro lei viva, ma anche contro lei morta, cadavere, in maniera allucinante, come solo l’odio violento delle mafie sa fare.
Così il 19 ottobre 2013 fu ricordata con parole bellissime, vere e da meditare, dalla figlia Denise: “la mia cara mamma ha avuto il coraggio di ribellarsi alla cultura della mafia, la forza di non piegarsi alla rassegnazione e all’indifferenza. Il suo funerale pubblico è un segno di vicinanza non solo a lei, ma a tutte le donne e gli uomini che hanno rischiato e continuano a mettersi in gioco per i propri valori, per la propria dignità e per la giustizia di tutti”.
Ecco, in una fase della nostra storia sociale in cui si avverte, finalmente, l’emergenza della violenza sulle donne quando queste dicono no, quando queste affermano la loro libertà, mi sembra importante ricordare, con le parole di Denise, quali siano i fattori che favoriscono la violenza mafiosa: rassegnazione e indifferenza.
Ecco, se vogliamo sconfiggere quelle schifezze che sono le mafie, con la loro convinzione che gli altri siano cose da soggiogare e dominare, perché “‘O cummannà è meglio d’o fottere”, dobbiamo ricominciare a promuovere partecipazione e convinzione nella possibilità di cambiare per recuperare “la propria dignità e la giustizia di tutti”.
Altrimenti per cosa viviamo?
nella foto: Lea Garofalo e la figlia Denise
La bambola
di Claudia Saba
La bambola è ai piedi del letto.
Hai ripiegato con cura la tuta e riposto le scarpette bianche per la scuola.
Scuola…quel luogo dove sei solo tu e nessun’altra.
Dove ti chiamano per nome
senza voler sapere nulla di te.
Dove sorridi senza dover mai chiudere gli occhi.
È arrivato l’orco e si fa buio.
Toglie il sole e fa ombra davanti alla tv.
Non puoi gridare, puoi solo aspettare che tutto passi in fretta e che, dopo la notte, non resti alcun ricordo impigliato tra i capelli.
La bambola chiude gli occhi.
Li chiudi anche tu.
Forse lei, più di te, sa cosa sia il male.
E’ arrivato l’orco.
Un volto conosciuto, amato.
Che non sa nulla dell’amore.
Proprio lui, il tuo principe, la tua condanna.
Un giorno sarai abbastanza forte.
Aprirai i tuoi occhi
E fuggirai lontano.
La bambola aprirà i suoi occhi.
E tu finalmente, potrai guardarti ancora.
La sposa bambina
di Pina Calabrò
Regalami una lacrima
Nel frettoloso passo
Che plachi questa polvere
Ristori questo sasso
Fui sposa e fui bambina
Lui giunse una mattina
Scialba portando un dromedario
Mio padre lapidario
Mi disse va’ con lui
Mi presero bambina
Occhi immersi nel gioco
Vorrei ancora un poco
Inseguir la mia pallina.
Mia madre era un po’ strana
Ecco di datteri una collana
Mio padre gli occhi alzò
E Il cammello soppesò
Non chieder come e quando
Ormai non lo so più
Ricordo solo quel gioco a nascondino
Sempre mi trovava sempre a me vicino.
E un giorno ecco… aghi e cocci di bottiglia
nel mio ventre innocente
e il respiro si assottiglia
e la mente che si arrende
La vita mi uccise.
Regalami una lacrima
Frettoloso passante
Trasparente brillante
Dolce, infantile
Come la biglia
dei miei giorni da figlia
ormai perduta
tra lo sterco di un cortile.
Tina e Dino
di Armando Nocera
Lei lo guardava mentre la colpiva ancora ed aveva gli occhi ricolmi di lacrime e sangue.
La mente cercava un ricordo lontano di quando lui la accarezzava e trovò invece un flash del primo schiaffo. Senza alcun motivo vero. Solo perché aveva riso di gusto in un pub con gli amici.
Sarebbe dovuta fuggire allora.
Realizzo’ in quell’attimo che aveva una persona al mondo che le aveva sempre voluto bene davvero. Si erano andati e poi allontanati. Fu lui ad andare via e lo fece nel modo più meschino: con un biglietto. Lei allora gli disse: “va bene ma non farti mai più sentire.”
Per questo non lo cercò subito.
Quella sera invece capì che era l’unico che avrebbe potuto aiutarla. Che avrebbe potuto salvarla. Sentiva questa certezza nel cuore.
Così decise di chiamarlo senza pensarci ancora. Al massimo, come diceva lui, si sarebbe presa un No…!
Lui quella sera era ad una festa. Vide il suo nome sul telefono dove conservava ancora il numero e rispose.
Che succede… le disse subito.
Lei tra le lacrime le disse che lo voleva incontrare, che aveva un problema con il suo nuovo fidanzato ma che non potevano incontrarsi in città.
Lui la tranquillizzò subito. Va bene vengo io. Domani. Subito appena.
Ascolto’ il suo racconto interrotto a volte dai singhiozzi. Le chiese soltanto: “perché non mi hai chiamato prima. Perché lo vedi ancora. Perché gli credi ancora”. Lei rispose che non lo sapeva.
La tranquillizzò dicendole che ci avrebbe pensato lui. Ma lei avrebbe dovuto interrompere ogni contatto. La andava a prendere e lasciare ogni volta che poteva. Si sentivano ogni giorno. Poi ci fu un week end muto. Lui non la cercò per sembrare invadente. Il lunedì successivo la volle vedere. Lei tentenno ma poi acconsenti’, Aveva un occhio nero ed io viso arrossato. Capi subito che l’aveva rivisto. “Perché lo hai fatto. Le chiese con tono duro ma ricolmo di bene.
Non lo so… fu la sua risposta tra le lacrime. Ok!
Nelle settimane e nei mesi precedenti aveva contattato quel farabutto di Marco e lo aveva avvertito. “ Se la vedi ancora e le fai male ti conviene sparire “
Invano avevano tentato giustizia attraverso una denuncia alle forze dell’ordine. Disse al funzionario di polizia che aveva detto di non potere fare nulla tranne che convocarlo in caserma che gli avrebbe spezzato le ossa… Tanto in Italia se non si ammazza nessuno non si va in galera e lui grazie a Dio era ed è ancora incensurato.
Lo cerco’ per una notte intera ovunque.
Dai parenti e nei locali che frequentava. Avviso’ il padre e la sorella che lo avrebbe trovato prima o poi, quindi era meglio che lo cercassero anche loro.
Quando lo trovo gli bastò uno sguardo per fargli capire le sue intenzioni. Gli diede un l’appuntamento nel bar che era solito frequentare. Forse confidava sul fatto che in un luogo pubblico non ci sarebbero stati grossi problemi.
Non fu così. Gli urlò in faccia la sua rabbia, lo strattono’prendendolo dalla maglia e gli disse: e ti giuro su Dio che se la cerchi ancora o ti vedo girare nei suoi paraggi ti faccio pentire di essere nato…
Spari’ per sempre..:
Sono passati 20 anni.
Da una storia vera.
P.S. Morale: Non abbiate paura di denunciare. Parlatene in famiglia. Con un parente o un amico di cui avete certezza che vi vuol bene.
E soprattutto fuggite via al primo schiaffo!
Non siamo tutti così
di Sophia Pancani
«Non siamo tutti così» è la frase che ci viene ripetuta dagli uomini quando si entra nell’argomento della violenza sulle donne; ed è vero, non tutti gli uomini farebbero del male a una donna, però quasi tutte le donne sono state violate da un uomo, per essere più precisi quasi il 99% di loro.
Di fronte a questo numero probabilmente rimarrete scioccati e anche un po’ perplessi, ma attenzione, ‘violenza’ non significa necessariamente lividi, botte e schiaffi, la parola ‘violenza’ comprende anche quei commenti volgari fatti mentre si passeggia per strada; comprende la sensazione d’impotenza lasciata addosso dopo una conversazione sul lavoro, sulla carriera o sulla vita in generale, in cui la figura della donna è marginale; comprende anche la sensazione di sporcizia che proviamo quando vi prendete la libertà di trattare il nostro corpo come più vi piace, senza il nostro consenso.
Adesso mi rivolgo agli uomini che stanno leggendo con faccia contrariata queste parole, già sento riecheggiare le vostre frasi: «Non vi si può nemmeno fare un complimento che vi offendete», «Vengo pagato di più solo perché sono più bravo della mia collega», «No, non mi ha detto esplicitamente di sì, ma aveva bevuto e si vedeva che lo voleva anche lei» … Caro uomo maschilista, il fischio che fai a una donna per strada non è un complimento, è un richiamo che solitamente si fa ai cani, lei si sentirà offesa, ma non ti dirà niente perché avrà paura di te; caro uomo maschilista, non vieni pagato di più perché sei più bravo e più qualificato di tutte le donne nel tuo ufficio, ma perché sei il preferito della società; e infine, caro uomo maschilista, se quella sera lei era ubriaca e non ti ha detto di sì, tu l’hai stuprata.
Non voglio generalizzare la figura dell’uomo come una specie di mostro, lo dite anche voi che «non siete tutti così», però noi donne, fin da ragazze, siamo quasi tutte così: il 70% delle adolescenti in Italia dichiara di aver subito apprezzamenti sessuali nei luoghi pubblici, il 64% si è sentito a disagio per delle avances fatte da un adulto vicino a loro e prima che facciate la famosa domanda: « E perché non li avete denunciati allora?»
Vi rispondo subito: solo il 50% delle donne arriva a denunciare le molestie perché il 29% di loro ha paura delle possibili conseguenze e il 21% si vergogna. In Italia, i dati della violenza sulle donne sono peggiorati dopo il lockdown: sono 103 le donne uccise da inizio anno, di cui 60 per mano dei compagni o ex compagni… per dirla in un altro modo, da gennaio ad oggi è deceduta una donna ogni tre giorni.
In onore del 25 Novembre, giornata contro la violenza sulle donne, la ministra Elena Bonetti ha tenuto una conferenza alla Camera per portare alla luce questi dati preoccupanti, purtroppo la stanza è rimasta deserta: di 630 deputati, solo in 8 si sono presentati. La risposta dell’Italia alle grida delle donne è stato un silenzio assordante.
Perciò, caro uomo maschilista, la prossima volta che ci chiederai perché rimaniamo in silenzio dopo aver subito della violenza, ripensa a Elena Bonetti, portavoce di tutte le donne, che quando ha provato a parlare, è stata zittita e abbandonata.
Che senso ha parlare se non c’è nessuno ad ascoltare?
Basta
di Angela Scaglione
Ce ne mise tempo per dirlo ma alla fine si decise. BASTA! Non ti sopporto più, Anni e anni sciupati a sopportare una vita che non le si addiceva, un ambiente familiare che la usava come una cosa utile pari a un elettrodomestico sempre in funzione. La urlò quella parola e attorno a lei calò il silenzio, per un attimo fu disorientata da quel silenzio inusuale. La norma prevedeva un continuo cicaleccio, a vote senza senso, spesso erano richieste di qualcosa. ” passami il pane ” ” Dammene ancora ” e via così, nessuno che si arrangiasse da solo. Una volta che aveva protestato suo marito aveva risposto, candidamente:- ma tu non lavori, stai a casa a far niente. Ecco aveva deciso di non fare niente. Si alzò da tavola e usci in giardino. La sua sdraio era li e Mara si allungò con indolenza. Qualcosa era scattato dentro di lei, aveva quarant’anni e si sentiva uno straccio. Il giorno prima la sua amica Stella era passata a salutarla e lei si era quasi vergognata del suo aspetto trasandato. Stella era curatissima, aveva un profumo buono, lei sapeva di ammorbidente e di minestrone. BASTA! Era arrivato il momento di cambiare e pensare a se stessa. Una mano si posò sulla sua spalla, era Stefano che le portava il caffè. Con stupore prese la tazzina e bevve un intruglio disgustoso. Era lei che lo preparava di solito. Si alzò per posare la tazzina e, meraviglia delle meraviglie, sua figlia stava caricando la lavastoviglie. Caspita si disse; – devo urlare più spesso. l’indomani fece un salto dal parrucchiere e si dedicò con cura ai suoi capelli bellissimi poi scelse uno smalto rosso scuro e fece una manicure che mise in risalto le sue mani affusolate. quando, tornando a casa, si sentì osservata, non voleva crederci che quegli sguardi fossero rivolti a lei. Per troppo tempo aveva lasciato che le cose andassero in quel modo, lei a provvedere a tutto e il resto della famiglia a goderne, ora aveva deciso di volersi bene, di dedicarsi del tempo, di avere spazio anche per i suoi desideri. Comprò due libri e qualche rivista poi vide un cartello con su scritto “Cercasi impiegata per lavori d’ufficio ” Mara ricordò d’avere una laurea in economia e commercio, entrò quasi per gioco, uscì con un contratto di lavoro. Ora doveva dirlo a Stefano, ai suoi figli e ci si doveva organizzare. Si preparava una battaglia familiare ma Mara aveva deciso. La sua vita sarebbe cambiata e con lei, doveva farlo tutta la famiglia. Quando lo disse si aspettava una protesta corale ma non fu così. Tutti collaborarono e Mara capì che certe abitudini erano state date da lei, sempre lei aveva dimenticato che essere donna non vuol dire gestire tutto da sola. Una famiglia può dividersi tutto anche le incombenze quotidiane. Era ora di dire BASTA.
Pietra tra pietre
di
Maria Gilda Mottarella



Strette le mani attorno all’esile collo.
_ Come puoi farlo? Come osi farlo?_
Nessuna risposta, solo freddo, tanto freddo.
Dita adunche bloccano le tue braccia, penetrano nelle tue carni e non puoi liberarti.
Canna al vento sei, rigida, sbattuta da mani che avrebbero dovuto elargire carezze.
La tua voce un sussurro:
_ Ti guardo donna muta con gli occhi sbarrati che fissi immobile lo scempio di un corpo, di una figlia che per colpa ha soltanto il disubbidire alla legge del padre_
_ Madre, come hai potuto guardare l’empia morte data a chi avevi dato la vita? Come hai fatto a sopire il mio urlo, il mio pianto, il mio rantolo, il mio silenzio? _
_ Padre, si stringi forte le mani al mio collo, non esitare!
Giudice e carnefice sei di chi avresti dovuto solo amare.
Tu sii maledetto nelle tue ore…
lo dice il mio orgoglio, il mio flebile tempo, la mia voce senza più le parole!_
_ Muoio, io femmina ribelle, al mio cielo avete strappato le stelle.
In nome di quale fede, di quale dio…?
chi può volere lo strazio di questo giovane dolore mio? _
_ Muti voi siete, ormai lontani…
Cade il mio corpo, fuscello inerte,abbandonato dalle vostre mani. Nero è il velo di queste ore corte…
Non importa ora son figlia della morte…
E mentre il mio corpo conosce l’onta della dissoluzione,
per voi…c’è l’assoluzione!
Quanta ragione assurda, non è questa la mia religione!
L’avete interpretata male!
Che importa… volo libera ormai, sono un aquilone!_
Foto web ( caso ragazza uccisa in Pakistan familiari prima rei confessi e poi assolti)
di Antonino Falcomatà
Violata di Carmen Schembri Volpe 50×50 Tecnica Mista
Per il venticinque del mese di novembre
di Rossella Raiola
Racchiudi te stessa,
i tuoi sogni
i tuoi pensieri
in un guscio di fragili illusioni,
di mancate promesse
e di inutili scuse.
‘Tutto questo troppo finirà.’
Continui a rassicurarti.
Finirà questo pianto ininterrotto,
i lividi doloranti
e gli insulti immotivati.
La verità è che niente passerà
se non sarai tu a raccoglierti da terra,
se non sarai tu a prenderti per mano,
se non sarai tu a fermarti per poi ricominciare.
Guardati allo specchio,
e vedrai riflettersi
l’immagine di una donna
realizzare che non è mai troppo tardi
per smettere di spegnersi
e per scegliere di brillare di luce propria.
nella foto di copertina Viky Varga
Il profumo della vita
di Giovanni de Lucia
Oggi si celebra l’oscurità dell’uomo, la sua psicotica violenza sulla vita. Già, la vita è donna, come donna è la natura, l’arte, la musica, come donna è il sentimento di casa, di famiglia, di socialità. Ma perché l’uomo ha paura della donna? Perché stenta a riconoscere la propria componente universale femminile? Oserei dire componente non culturale, non una sensibilità acquisita o ricevuta in dono, ma una componente genetica, che ogni uomo riceve con il suo concepimento. È una questione cromosomica, possediamo entrambi i cromosomi e il cinquanta percento è femminile. Allora l’esercitare la violenza sulla vita scaturisce dal fatto che l’uomo è semplicemente masochista. Violentando la vita, violenta se stesso. L’uomo è una chimera e non mitologicamente ma geneticamente parlando. L’uomo è una mutazione genetica della donna e quindi della vita. L’uomo sta distruggendo il pianeta e l’unico baluardo a sua difesa è la forza dell’amore che solo le donne possono mettere in campo. Questo giorno, non dovrebbe avere come simbolo piazze di scarpe rosse, ma di fiori di campo e noi ad accarezzare e proteggere il profumo della vita.
Vita alla Vita
di Loris Loreta Nalin
” Nell’atmosfera intorno
mi sfumo volutamente
senza del tutto sparire..
il profumo di me ora
è ancora così intenso,
fa ancor più inebriare.
Il mio profumo
ubriaca, confonde, si fa sentire..
Sono più che mai nell’aria
presente..sempre..
Agli eventi, senza oppor resistenza,
so piegarmi..flessuosamente,
come un giunco al vento,
ed è così che divento
ogni giorno più forte..
Ho regalato, di me, tutto
ogni cosa che era mia :
sangue, ossa, essenza,
parola, verbo..silenzio..sacrificio..
Ho donato vita alla Vita,
rischiando di mio
senza paura di morire..
Ho generato anche te, uomo,
che barbaramente mi uccidi,
ora, come nei secoli
dei secoli passati,
è sempre stato..
Ciò che resta di me
è orma potente,
è traccia indelebile
che mi rende eterna !
Son nata..DONNA
e tu “uomo piccolo”
non mi puoi uccidere,
o pretendere di cancellarmi !
Dopo di me, altre Stirpi di Donne
sempre nasceranno..
Tutte non ci potrai ammazzare!
Faremo nascere altre donne..
IO CI SONO, C’ERO,
CI SARÒ SEMPRE
ETERNAMENTE..
Non lo dimenticare, uomo :
SEI NATO DA ME..
IO SONO UNA DONNA !
IO CREO LA VITA !
~ Per tutte le Donne*Sorelle morte ammazzate barbaramente per mano d’uomo che diceva di amarle ! ~
…e comunque la dedico a tutte le mie amiche che vivo ogni giorno dentro e fuori fb, a mia figlia..a me stessa, alla mia fatica di essere sempre me stessa controcorrente !
A tutte voi, che amo spudoratamente, in nome del “GRANDE VALORE DELLA SORELLANZA” ! Restiamo unite sorelle, solo così siamo “FORZA RIVOLUZIONARIA ” !
Solo così possiamo creare un mondo “a misura di donna” ! ~
… Loris Loreta Nalin ~ 2021 ~
Donne senza volto di Tiziana Cordì
E Tu?
di Annamaria Farricelli
Leggera ed elegante
volavo nella tua vita.
E TU?
Hai spezzato le mie ali.
Principessa del mio vivere
curavo il tuo mondo
come un castello incantato.
E TU?
Hai demolito i miei sogni.
Ti donavo la mia anima.
E TU?
Dicevi di trasformarmi
come volevi senza chiederlo.
Cercavo il dialogo.
E TU?
Rispondevi con parolacce.
Il mio lessico era conciso,
appropriato e garbato.
E TU?
Manifestavi il tuo obbligo
di collera.
Infine, spaventata,rannicchiata,
ho trasformato le parole
in grumi di lacrime
represse nel mio ventre.
Ho raccolto in silenzio
la mia dignità.
Ho raccattato i cocci
delle mie ali
e ho ripreso a volare….
A tutte le donne che subiscono in silenzio
La violenza che non è raccontabile né dimostrabile,quella più subdola e logorante: psicologica e morale.
Compleanno
di Laura Sposato
L’afferra alla gola
per l’ultima volta.
Non ci crede
neppure quella volta.
Non grida, non sgola
non si rivolta.
Fissa quella mano stolta.
Sconvolta.
Sul tavolo
le candeline accese
dell’ultima torta.
“LA VIOLENZA È L’ULTIMO RIFUGIO
DEGLI INCAPACI”
Questa la frase sulla Panchina rossa a Santa Venerina (Catania)
Un abominio
di Massimiliano Pancani
Nel nostro tempo sembra pazzesco dover ancora trattare di un argomento così tragico come la violenza verso le donne. Sempre più spesso i fatti di cronaca nera che ci capita di leggere sui giornali o sentire in televisione, sono legati ad un argomento assai spinoso, che direttamente o indirettamente prima o poi ci capita di dover affrontare: la violenza sulle donne.
Inutile ribadire che nonostante il trascorrere del tempo, l’evoluzione e il progresso della società le donne continuano ad essere vittime, il più delle volte inconsapevoli, delle persone che stanno loro accanto. Il dato più inquietante è che nella maggior parte dei casi i carnefici sono proprio quelle persone che queste donne amano!
Le donne nella storia, hanno dovuto lottare parecchio per raggiungere quella parità che meritano, eppure, parrebbe proprio che le loro lotte siano state rese vane grazie al comportamento di alcuni uomini. Sono infatti tuttora, considerate il sesso debole. Che sciocchezza!
Basterebbe solo riflettere che è grazie alla donna che si genera la vita. L’approfittarsi della debolezza fisica è una codardia di cui l’uomo si avvale e ne va fiero per sopraffare la donna.
Non conosco una soluzione per mascherare o correggere tale ignoranza che aleggia ancor’oggi nella nostra società, l’unica cosa che posso fare è quella di urlare tale abominio.
Per concludere, poichè io non sono uno scrittore, ho chiesto in prestito a William Shakespeare una sua frase: esprime a pieno un pensiero che mi appartiene.
«Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subìto, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tagliato, per tutto questo: In piedi signori, davanti a una donna»
Mia Madre
di Elisabetta Romano
La storia di mia madre è una di quelle che sono fluttuate nel nulla, tra silenzi di giornate intere, pasti cucinati, letti rifatti con cura, faticosi sorrisi. Una vita sospesa nel dolore, costruita attorno a un uomo indegno. Rivedo gli sguardi alla finestra, le mosse affrettate e ansiose nel momento temuto della chiave nella toppa, gli occhi spenti, ravvivati solo dalla mia presenza. Tanti anni, decenni, consumati tra una città e l’altra, a seguire un uomo, il pater familias, colui che decideva delle nostre vite. E lo decideva facilmente, negava ogni cosa. Tanti ‘No’ sono molto semplici da gestire. E la rabbia per tutto questo dolore non passa mai, anni e anni a domandarsi perchè. C’era la chiesa della domenica per lei, c’erano le sue silenziose opere di solidarietà verso gli altri, c’era la salda educazione che voleva darmi: pochi principi, ma inderogabili. Il suo mondo è finito così, senza aver mai alzato la testa o lo sguardo, il suo mondo erano i piccoli biglietti lasciati sul tavolo per me: ‘sono scesa in latteria, torno subito’. Ha giustificato un’intera esistenza e se ne è andata senza disturbare, di fretta. Lasciando a me l’anima a pezzi e la forza di gridare sempre e comunque contro l’oppressione maschile. E lo farò per sempre.
(Fabio Cimaglia / LaPresse)
La cicatrice che non va più via
di Barbara Chiarini
«Chi non ha mai vissuto litigi in una coppia?». Si dice Anna ad alta voce.
Anna ha una cicatrice sul labbro superiore, che non andrà più via.
Resterà lì, per sempre. Un segno indelebile, come un marchio stampato sulla sua pelle, impresso a fuoco.
Quella ferita ancora aperta ha un nome, il nome di un uomo, Giovanni, suo marito.
«Mio marito, era un uomo rispettato e stimato da tutti – si esprime sussurrando, quasi a parlare con se stessa – piaceva anche a mia madre». E infatti sua madre, come tutte le mamme del mondo, fu felice quando seppe che i due giovani innamorati si sarebbero sposati. Al tempo poi, Anna stava per compiere venticinque anni e il matrimonio le sembravano la cosa più bella del mondo.
Parla con se stessa, Anna, non sembra neppure si rivolga a me. Lo sguardo teso a guardare il panorama che si gode dalla sua finestra di casa, Anna riflette; poi sospira, stringendosi tra le spalle, mentre piccole lacrime dal sapore amaro come di troppo sale, cadono lentamente giù da quegli occhi spauriti e ancora stanchi. Scendono lungo le sue guance come a disegnare minuscoli rigagnoli.
Ancora un po’ di tutibanza, poi ricomincia a parlare: «Sai – mi dice – certe ferite continuano a dolere e non si rimarginano mai». Io posso solo cercare di capire … non ho mai vissuto un’esperienza come la sua. Sono stata fortunata io, ma posso provare a capire, eccome.
Anna è una donna come tante: dopo essersi sposata aveva condotto una vita agiata, non le era mancato nulla. Un figlio, una casa di proprietà e persino una villetta al mare. «Mio marito alzava spesso la voce – dice dando ancora voce ai suoi pensieri quasi per volere convincere se stessa di non avere sbagliato a non capire l’evidente realtà dei fatti che le si prospettavano davanti – ma poi tutto passava. Insomma, una cosa normale a cui io non facevo neppure troppo caso. Poi però è successo qualcosa, e la situazione è mutata»
Così Anna mi racconta di un pomeriggio lontano, uno giorno qualunque in cui si era recata in compagnia del marito in un negozio del centro per acquistare un regalo; una volta che sono all’interno, lui incontra una collega e si ferma a parlare con lei. Parla, parla … davvero Giovanni non la finisce più di parlare con lei. E si complimenta pure ripetutamente con la donna. Anna si infastidisce: un po’ va bene, ma adesso sta esagerando…
Giunta davanti alla cassa, Anna sbotta e richiama ad alta voce il marito. Lo fa davanti a tutti.
«E tutti ci guardano… Ma mio marito non sembra arrabbiato e neppure offeso. Anzi mantiene la calma e mi sorride. Addirittura, scherza e mi prende in giro, mentre torniamo a riprendere l’auto. Una volta che siamo saliti però, mette in moto e parte a tutta velocità, infischiandosene delle paura cronica che io ho per la guida veloce. Così mi terrorizza. E lo sa. Eppure preme sull’acceleratore a tutta manetta.
Arriviamo a casa e Giovanni inizia a sbattere le porte, gridandomi contro con tutta la forza che ha in corpo che io non devo assolutamente permettermi di rimproverarlo. Mai più….
Il meglio che posso fare è stare zitta. Lui rincara la dose e mi dice di farlo sempre, da adesso in poi . Io ubbidisco, taccio e resto ferma, immobile: penso che ho esagerato a comportarmi in quel modo stupido, è tutta colpa mia, non avrei dovuto farlo, ecco tutto!»
L’ inferno di Anna ha avuto inizio così.
Da quel momento il rapporto di coppia cambia in maniera repentina: Giovanni comincia a trattarla come un oggetto. Vuole dominarla.
«Tu lo sai che la violenza psicologica è l’anticamera di quella fisica?» mi dice Anna. Il tono della sua voce è freddo, quasi gelido perché Anna adesso, è una tra quello donne che lo ha capito. E pure bene.
Il racconto prosegue.
Mi parla dei mesi a seguire, dei giorni in cui il marito, rientrando dal lavoro, è sempre più nervoso e irascibile. Addirittura, monta su tutte le furie se, quando arriva a casa, la cena non è già pronta in tavola. Non tollera più di sentire la sua voce, e le suggerisce (oppure è un ordine?) di avere almeno la decenza di starsene sempre zitta.
Ma talvolta Anna reagisce, non vuole tacere: e quando lo fa, volano gli schiaffi. Ormai Giovanni fa spesso il pazzo: l’agguanta con le sue braccia forti e stringendola per le spalle, la scuote come se fosse una bambola di pezza, la sbatte contro il muro e la schiaffeggia con forza. Più lei lo supplica di smettere e più lui agisce con violenza e cattiveria.
Anna ormai viene picchiata con regolarità e si sente sempre più immobile, impotente. Eppure, dentro di se’ la donna sa che cosa è giusto fare: lo sa, ma non riesce a reagire, è talmente confusa che rimanda ogni decisone sempre alla prossima volta. Così, mentendo a se’ stessa, si dice che ogni volta sarà l’ultima.
Per aprire gli occhi, dovrà toccare il fondo. Un giorno quel momento – sfortunatamente o fortunatamente per lei – è poi arrivato.
«Noi donne smarriamo la capacità di vedere quello che sta accadendo. Non ci rendiamo conto, ad esempio, di subire una violenza fino a quando questa non diventa violenza fisica. Entriamo in un circolo vizioso dal quale è difficile svincolarci. Bisogna chiedere aiuto, uscire dalle mura di casa, e rendersi conto che non siamo sole».
Guarda fuori dalla finestra di casa sua e si tocca la cicatrice: «Non riesco a camuffarla neanche con il trucco. Ancora oggi mi domando cosa sia successo all’uomo che ho sposato e amato. Adesso lui si sta facendo curare. Dice che vuole tornare ad essere l’uomo che era prima. Il problema però sono io».
Per la prima volta parlo anche io e le domando perché sarebbe lei il problema.
Anna mi sorride, e mentre spalanca la finestra lasciando che il vento freddo la scuota dal torpore dei suoi tristi ricordi, risponde: «Perché io non voglio più tornare ad essere la donna che ero prima. Io oggi sono un’altra donna. Guarda che bel sole! Anche se siamo in pieno inverno, in me è finalmente sbocciata la primavera!».
Affinché molte altre donne come “Anna” possano nutrire la speranza di poter vivere un’altra “Primavera” in questa vita….
N.d. A: ogni riferimento a nomi e cose di questa storia, è puramente casuale.
Come uno stelo nel vento
di Serena Ottinelli
L’attesa dell’amore, tanto desiderato.
Poi finalmente arriva, eccolo è lì.
Non vedevi l’ora che succedesse anche a te.
Non ci metti molto a capire che quelle, che da prima sembravano richieste, diventavano sempre più imposizioni.
Che quelle carezze si trasformavano in schiaffi.
Che la casa è una gabbia da cui è difficile evadere.
Dubiti fortemente di quell’amore tanto adorato e ora malato.
Sei in difficoltà, perché sei tu che ti senti in difetto.
Dal trovarsi in ginocchio, ti alzi, poi cammini e poi corri ad urlare tutto il disagio,
tutte le percosse e quelle parole blasfeme subite senza alcun motivo.
Questa è la tua forza,
tutte noi donne dobbiamo essere coese su questo tema.
Siamo una forma di vita splendida.
Solo un fiore delicato e dallo stelo esile può, sfiorare il nostro volto, mosso da un alito di vento.
E’ successo anche a me
di Titta Lancerotto
Ebbene sì è successo anche a me di subire molestie.
La prima volta avrò avuto 8 anni, ero in bicicletta un uomo mi chiese qualcosa ringraziandomi mi sollevò la gonna e mi toccò le mutandine. Non capii subito ciò che aveva fatto solo che era qualcosa che non si doveva fare.
La seconda volta avevo 17 anni, ero ospite di amici in vacanza
Serate in allegria a ballare in discoteca, spensieratezza di gioventù.
Il padre la mattina mi svegliava accarezzandomi il collo, la schiena….
all’inizio lo trovavo piacevole ma ogni giorno era sempre più che una carezza.
Capii che c’era ben altro così mi alzavo di scatto anche se lui cercava di trattenermi.
Una sera tornai a casa dalla discoteca con lui.
Scendemmo dalla macchina e lui mi prese la mano, non riuscivo a capire perché non me la lasciò
davanti alla porta, cercava le chiavi con una mano e l’altra era incollata alla mia.
Ero in un imbarazzo indecifrabile.
Aprì la porta e mi trovai sbattuta sul muro con la sua lingua sulla mia mia bocca e il suo corpo stretto a me.
L’unica cosa che riuscii a dire e a fare “NO LA PREGO” correndo in camera mi misi a letto vestita, truccata, paralizzata, avevo paura di respirare.
La mattina aspettai che andasse fuori e corsi in bagno a farmi la doccia.
Mi sentivo sporca come fosse stata colpa mia.
Non potevo dirlo a nessuno era il papà delle mie amiche e amico di mio padre.
Come potevo fare del male a loro che colpa non avevano e avrei ferito.
Perché dare altra sofferenza per il padre tanto amato dalle mie amiche. Dovevo proteggerle.
Ma il bisogno di dirlo fu così forte che mi venne in mente un’amica che non poteva avere nessun aggancio con nessuno, la chiamai ma si mise a ridere e sottovalutare il fatto.
Furono giorni pesanti, mi sentivo sporca e avevo paura che si ripetesse.
Per anni non dissi niente a nessuno.
Come poteva avermi fatto sentirmi una puttana?!
Ci misi tanto a capire che non ero io la bestia ma lui.
Con il bruto mantenni il solito rapporto per anni che avevo prima che mi facesse tanto male.
Non so spiegare questo mio atteggiamento, forse perché volevo dimenticare, fare finta che niente era successo.
Crescendo venni molestata da altri uomini ma seppi difendermi,
Ne parlai subito con le mie amiche.
Il mio pensiero va a tutte quelle donne che non riescono a lasciare quelle bestie, perché altro non sono, bestie malate. Urlate , chiedete aiuto.
Basta non voglio più che una donna venga uccisa, maltrattata
BASTA FEMMINICIDIO!