Diciannove anni fa uno scampanellío all’ora di pranzo. Non era inusuale. I miei magici vicini di casa, Anna e Franco, preoccupandosi del fatto che tornavo dal lavoro, che avevo un bimbo piccolissimo da accudire, spesso mi tenevano in caldo delle pietanze gustosissime.
Appena capivano che ero rientrata (le pareti negli appartamenti in condominio paiono di cartapesta), suonavano e, a modo loro, coccolavano me e la mia creatura che li considerava nonni a pieno titolo.
Un giorno fra le braccia della signora non una fumante zuppa , nessuna saporita fetta di parmigiana,solo una enorme bacinella blu.
– Ti ho portato ” a bagnarola” pu figghiolu-
– A che mi serve signora? Per il bagnetto ha già la sua vaschettina- risposi incredula osservando quell’ ingombrante oggetto. – Fra poco tempo ti servirà eccome. Sarà un piccolo mare per il tuo bimbo- fu l’enigmatica risposta.
Mi fidavo di quella donna. Sapevo che mi amava. Così la ” bagnarola” era l’orpello più inutile dentro il mio piccolo bagno. Mi chiedevo quando mi sarebbe servita ma non osavo darla via o allocarla in una polverosa cantina.
In estate inoltrata il mio bimbo che aveva sei mesi, conobbe il suo piccolo mare. La riempivo a metà e lo immergevo con i suoi tanti pupazzetti galleggianti. Amava stare seduto e ci giocava gioioso.
Il giorno in cui invitai i miei vicini a guardare la meraviglia di un bimbo felice mi abbracciarono e i loro occhi brillavano della nostalgia di chi è genitore sempre , persino quando figli e nipoti, già adulti, sono lontani.
La “bagnarola” fu vascello per i miei due pirati, stipati entro le sue pareti ad allargarsi al crescere delle loro giovani membra. Arrembaggi e zuffe acquatiche udivo mentre sfaccendavo e loro sguazzavano nel loro piccolo mare.
Crebbe con loro, con me mentre ne trasformavo la sua funzione. Sapevo che ” la bagnarola” non voleva essere riposta, non voleva andare in pensione. Voleva stare con noi ” nel per sempre degli oggetti che hanno un’anima”.
Così divenne il contenitore dei panni da stendere. Ci seguì nel trasloco ed ebbe il suo posto in lavanderia, onorata vegliarda cui tutti gli altri utensili e strumenti dovevano rispetto.
Ogni anno perdeva un pezzo, le si incrinava una parete, il suo blu intenso era divenuto un celeste che aveva ceduto particelle di sé al cielo, al mare e a qualche indumento sul quale si erano incollate.
Abbracciate eravamo precipitate un giorno persino dalle scale. L’avevo riempita di panni e non avevo la visuale dei gradini. Riportai io la peggio in quell’occasione, lei atterrò sul mio corpo e non ebbe conseguenze visibili mentre il mio ginocchio ancora oggi maledice quel giorno.
Fingevo di non accorgermi del tempo che inesorabile cancellava la baldanza della sua struttura e, dinanzi ai rimbrotti dei miei figli che mi incitavano a sostituirla, dicevo che assolveva perfettamente alla sua funzione.
Mi affeziono alle mie cose, esse mi parlano e sapevo con quale coriacea tenacia ” bagnarola” stesse attaccata al nostro mondo. Ci amava.
Fino a tre giorni fa. L’ultimo carico di panni le è stato fatale. Uno dei suoi manici ha ceduto, una faglia enorme l’ha squarciata. Sono rimasta incredula a guardarla.
La mia amica mi lasciava. Mi sono seduta in terra accanto a quella plastica morente carezzandone i bordi. Nell’andare via mi ha fatto un ultimo pregiatissimo regalo: le urla di gioia dei miei figli dentro il loro piccolo mare.
Foto di Marina Neri
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