cronache e pensieri da Milano, zona gialla sulla carta ma rossa di fatto e nei fatti
«Si invitano tutti i cittadini, a scopo precauzionale, a rimanere in ambito domiciliare e ad evitare contatti sociali».
Con questo laconico messaggio, domenica 23 febbraio 2020, mi sembra sia iniziata una nuova era.
E si sono aperte diverse contraddizioni.
Un figlio, 14 anni tesserato col Renate, squadra di calcio lombarda, bloccato a casa, con partita rinviata; un altro figlio, 13 anni, tesserato col Novara, squadra di calcio piemenotese, che può giocare contro il Torino.
Due regolamenti. Due applicazioni differenti. La confusione aumenta.
Due figli, così vicini di età, che ovviamente diventano due casi differenti. Perché uno gioca in Lombardia, zona a rischio, l’altro che scende in campo in Piemonte, meno pericoloso.
Ma entrambi potenzialmente oggetto o untori di contagio.
Come tante altre contraddizioni. Bar fino alle 18 e poi chiusi perché pericolosi.
Qual è la differenza fra Milano e Lodi, fra Piacenza e Bergamo, fra Assago e Codogno?
Cosa vuol dire evitare contatti sociali? Come ci si deve comportare? Stare a casa? Non uscire?
Mantenere una distanza di almeno un metro da altre persone. Lavorare da casa, con il cosiddetto smart working, cosa che facevo già da tempo.
Capisco e comprendo la preoccupazione del governo di contenere l’epidemia, ma diviene difficile applicare nel quotidiano cosa fare.
La mattina si inizia leggendo dai siti della stampa l’elenco dei contagiati, dei decessi e dei guariti. Poi si pensa al da farsi, fra riunioni che saltano, incontri spostati, ipotesi di conference call, fatturati in forte regresso e soprattutto tanta preoccupazione.
Che da padre, genitore e professionista diventano ansie, paure e timori di affrontare qualcosa di impensabile. Poi, come al solito, uno scambio di telefonate con Ernesto e qualche battuta via sms con Pierluigi per sfogare e/o esprimere qualche pensiero sul blog di Contame e provare a condividere con gli altri, le sensazioni di chi è al centro del contagio.
Milano, zona gialla sulla carta, ma rossa per la paura e nei fatti.
Vai dal medico di base per farsi prescrivere qualche medicinale e trovi un avviso: “prego telefonare”, per evitare contatti. Così come capita per un giocatore che, sembra, si rompa un legamento del ginocchio e diventa un punto di domanda: accompagnarlo al pronto soccorso, con eventuali pericoli di contagio e altro.
Per non parlare del solito bar che frequento per la colazione mattutina, o l’edicola per i giornali. Sono occasioni da evitare? Sembrerebbe di sì, li ritengo contatti sociali. Per non parlare di qualche ristorante per pranzi e cene di lavoro. O come muoversi? Mezzi pubblici, car sharing, ma anche la mia autovettura potrebbe essere un potenziale mezzo di contagio. Dormire in albergo o rientrare a casa? Insomma è tutto un rebus.
Con una certezza, come sorridendo ci siamo detti con Pierluigi. Si, nonostante quello che si potesse pensare, questo è un virus “padano”. Di questa terra, una pianura padana, aggettivo sinonimo del territorio lombardo-veneto-emiliano, regione geografica suddivisibile in superiore (piemontese) e inferiore (lombardo-veneta), come recita wikipedia. Termine entrato in uso nel nord Italia soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, sotto la spinta del ricorrente uso politico in chiave indipendentista dalla Lega Nord, che identificava in questo nome un’ipotetica e futura unità territoriale, come repubblica federale per la quale il partito reclamava uno statuto di indipendenza o, comunque, di autonomia politico-amministrativa, dalla Repubblica Italiana. Pianura padana che oggi diviene, ironicamente, una zona rossa dove nasce il contagio.
Con grossa rivalsa dei terroni e meridionali, specie per chi ha dato una forte connotazione politica all’aggettivo. Che appunto deriva (padana), da Padus, nome latino del Po.
Per quello che vedo, le reazioni delle persone all’epidemia in questi giorni sono le più diverse.
Si passa dalla preoccupazione al panico, dall’adottare le precauzioni suggerite dalle autorità competenti al vero e proprio saccheggio dei supermercati per timore di restare senza scorte. Oppure, come consigliato dalla componente “terrona-meridionale” della famiglia, di fare, finalmente, il passaggio al contrario in chiave emigrazione: scendere al sud, per evitare il contagio, o almeno essere meno a rischio. Col problema – dilemma! – di esportare il contagio al sud, specie in famiglia, con due genitori anziani e, quindi, potenzialmente a maggior rischio.
In questo clima di iper-informazione, per evitare allarmismi, cerco di rimanere ai fatti in maniera più concreta e realistica. Fare subito ciò che la comunità, spero, proponga in maniera autorevole. Senza diventare come molti, come è tipico degli italiani, esperto di virus, epidemie e contagi, oppure millantare di essere in possesso di chissà quali informazioni.
Poi, però, mi arriva addosso una sorta di reazione: spengo la televisione, non consulto i cellulari o i siti, perché l’informazione è sì molto importante, ma forse meglio riceverla a tratti e avere poi il tempo per pensare, elaborare e vivere le informazioni. Dedicare del tempo a rinforzare le risposte positive, le relazioni, la voglia di vivere e la gioia. Altrimenti questo virus che crea preoccupazione e ansia invade tutta la nostra vita e ci impedisce di reagire in maniera intelligente. Almeno questo è il mio pensiero.
Trovare il tempo, o ritrovare momenti, per stare in famiglia, con i figli, anche con me stesso.
Curare e curarsi di più.
Passeggiare, camminare, leggere, pensare, ricordarsi che la vita non è sempre bella, o a colori, trovare la forza di lottare e combattere contro questo virus padano, cinese o chissà da quale posto arriva.
I figli mi chiedono cosa succede, cosa bisogna fare, considerato che le scuole sono chiuse, gli allenamenti sospesi e per noi cattolici, messe sospese ed oratori serrati.
Le loro domanda sono perentorie: cosa sta accadendo? Devo avere paura?
Provo a non rispondere di “pancia”, così come non rispondo a me stesso, al mio bambino interiore, che mi fa svegliare in subbuglio di notte, sperando che sia tutto un incubo. Invece è realtà.
Quasi negando i fatti e rispondendo con frasi quali “..non devi avere paura, non sta accadendo nulla”. Forse perderei credibilità già con i figli, insinuando il dubbio che ho paura della paura.
Rimanendo ai fatti.
Il primo: effettivamente abbiamo un problema, c’è una nuova creatura, piccola piccola, che sta andando dove non dovrebbe e noi vogliamo fermarla.
Poi la seconda. Sappiamo qual è il problema ed è sempre meglio sapere, che non sapere. Sapendo qual è il problema possiamo, infatti, aiutarci tutti insieme a risolverlo.
Terzo, pur rimanendo umani, abbiamo ottime risorse per risolvere il problema: idee, mezzi, persone, strumenti, saperi, esperienze e competenze. Dunque rimbocchiamoci le maniche e iniziamo con pazienza a lavorare. Sarà lunga. Con pazienza, fiducia e speranza di farcela.
Proprio stasera mi è arrivata una telefonata, che utilizzo come metafora. “Abbiamo tracciato il campo – mi dice l’ad di una banca a proposito di un progetto che stiamo portando avanti -, almeno abbiamo le misure, la lista delle cose censite, quelle da fare e le priorità. Ora possiamo procedere”.
Si, proprio così, il campo c’è, non si capisce come e con chi si gioca, quale sarà lo sport, ma sento forte – da ex sportivo – l’immagine che questa sarà una partita lunga e faticosa. Contro il virus padano.
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