Mi blocco all’improvviso nel mezzo della sala da pranzo. Una fitta che mi fa piegare in avanti , mentre mi appoggio al tavolo in marmo. Mi fermo paralizzata dal dolore e mia madre mi vede così dalla porta. Seguono ore concitate, chiamano il medico, poi un’ambulanza e alla fine mi fanno salire in auto e via di corsa in ospedale . Ma bisogna superare code al semaforo , un ingorgo sulla statale e vari impicci sulla strada. Arriviamo, si entra fin davanti al portone perché è un urgenza. Mi caricano su una lettiga, mi accecano le luci dell’ambulanza , quelle forti dell’ingresso e poi via fino al pronto soccorso . Aspetto stesa col lenzuolo verde fino al naso. Odore pungente di disinfettante e intorno vari pazienti in attesa sulle sedie fredde . La mia è un’urgenza ma mi ricoverano al primo piano. Dalla lettiga scendi in una stanza grande da sei letti. Io sono vicino alla finestra, si sentono i rumori della strada. Mi guardo intorno: vicino alla porta c’è una signora, di fronte due ragazze . Ci guardiamo ognuna dal suo letto. La signora sulla quarantina è la prima a parlare, è simpatica , racconta che deve fare delle cure , ha due bambini a casa. Le ragazze devono entrambe subire degli interventi chirurgici, mi sembrano preparate, aspettano di essere chiamate.
Passano le ore, passa un giorno e poi arriva la notizia : c’è un infezione da salmonella nel reparto pediatria, per cui l’ospedale è chiuso, isolato. Quindi non si può uscire ne’ entrare, nessun intervento , nessuna visita parenti. Per quindici giorni . Cosa si fa in questi casi?
A parte la possibilità di salutare i familiari dal ballatoio di ciascun piano, mentre loro attendono nell’atrio, puoi fumare una sigaretta o fare due passi nei corridoi.
Mi sono affacciata qualche volta che erano venuti i miei, grandi bracciate e il rimbombo delle voci in quello che era stato il cortile di un convento antico.
Di fianco nella piazza un santuario dedicato a San Francesco ed un altro alla Madonna. I rintocchi della chiesa tenevano il tempo in quelle ore dilatate, scandite dalle tazze di tè riscaldato, i piatti di minestra, il termometro e l’andirivieni delle infermiere . Poi arriva il giorno, domani l’intervento. Preparativi e preparazioni, anestesia totale. Un po’ di paura, mi sveglierò e cosa dirò e se poi non mi sveglio? Mi svegliai, intontita con la flebo al braccio e mia madre vicino alla barella. Trascorsi una notte da incubo, la ferita mi diede filo da torcere per ore, non potevo bere, non potevo girarmi…solo mia madre ebbe la pazienza è la pietà di sostenermi. E poi venne la luce del mattino e uno spicchio di sole sul mio lenzuolo, oggi ti fanno uscire… disse la signora del letto vicino con un sorriso, mi rincuorava, io che ero già guarita. Purtroppo a lei non avevano dato speranze, mi ricordo ancora dei suoi occhi.
Appendicite
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