Si chiamava Carlo e aveva dieci anni.
Era un bambino molto timido, le maestre dicevano che era bravo a scuola ma troppo chiuso e che preferiva stare da solo. Sua mamma le ascoltava e tirava dei gran sospiri, non perché fosse dispiaciuta ma perchè anche a casa era sempre da solo.
Da quando il papà era andato via, la mamma aveva smesso di sorridere e aveva indossato vestiti scuri, tristi come la sua anima, neri come la vita che aveva davanti e Carlo sentiva di doverle stare accanto, di farle compagnia, di cercare di restituirle ciò che la vita le aveva sottratto.
Stava con lei al negozio mentre lavorava, in una stanzetta nel retro in cui gli piaceva stare. Lì leggeva, disegnava, faceva i compiti e poi c’era Stefania, la sua amica con la quale trascorreva lunghi pomeriggi senza conoscere noia.
Quindi non era affatto vero che era solo, ma a loro non lo diceva, non lo diceva a nessuno.
Preferiva così.
Carlo e Stefania erano amici e, come dei veri amici, litigavano spesso.
Lei avrebbe voluto essere il capo ma a lui non stava bene e così glielo diceva. Era prepotente Stefania, di una prepotenza di chi sa di avere ragione, sempre. Lui la ascoltava e chissà perché le sue motivazioni avevano una tale forza da superare le proprie convinzioni e finiva per dargliela sempre vinta.
In fondo le voleva così bene che alla fine non gli dispiaceva.
Stefania aveva la rara dote, per essere una bambina, di saper ascoltare: non rideva mai quando lui parlava o leggeva ad alta voce.
A scuola non era così: a scuola lo prendevano in giro per quella sua voce delicata che non ne voleva sapere di diventare maschia.
Lei invece lo incoraggiava a restare se stesso e gli ripeteva che erano una massa di stupidi i suoi compagni perché si perdevano un amico come lui.
Le era grato perché aveva la capacità di portargli via tristezza e timidezza, era sereno, anche solo per poche ore. La vita fuori sapeva essere davvero feroce mentre lì, in quella stanzetta, odorava di buono e il merito era solo suo.
Spesso sfogliavano le riviste di moda e guardavano le modelle e i loro vestiti. Carlo era sempre molto attento e molto critico. Lui era convinto dei suoi gusti e sosteneva che un colore diverso, un foulard, un accessorio più originale avrebbe dato quel tocco in più che in quelle foto mancava sempre. Stefania lo incoraggiava a sognare, a disegnare a immaginare splendide donne che lui avrebbe un giorno fatto sfilare e di indossare quei vestiti colorati che segretamente scarabocchiava sugli album che custodiva al riparo da occhi indiscreti. Era estroso Carlo, immaginava un mondo fatto di colori e non di tristi pullover blu notte che la sua mamma gli faceva indossare come fossero una divisa, che nascondevano un corpo acerbo che da lì a poco sarebbe fiorito.
Ancora una volta nel posto sbagliato.
E crescendo aveva rinunciato anche a lottare per affermarsi in quel mondo colorato che avrebbe voluto intorno. Lo scherno degli amici lo aveva reso ancora più taciturno e Stefania non c’era più. Avevano litigato e quell’amicizia era andata in frantumi come un cristallo prezioso di cui restavano solo cocci aguzzi. Non c’erano più chiacchierate e pomeriggi trascorsi a sognare ma quattro mura strette intorno alle sue spalle dove Carlo nascondeva tutto il suo dolore. Non si sentiva sbagliato Carlo, almeno non del tutto e sapeva di non essere accettato. Desiderava vedere Stefania ma respingeva l’idea al contempo, avrebbe dovuto guardarla dritto negli occhi e trovare il coraggio, quel coraggio che urlava verità. Ma non poteva, o forse non voleva o semplicemente non ci riusciva.
Un pomeriggio però Stefania senza preavviso gli si parò davanti e non ebbe scampo. I tempi erano quelli in cui le scelte possono far pendere l’ago della bilancia da una parte piuttosto che dall’altra e Carlo era stanco di essere solo.
Solo con il suo dolore, con la sua solitudine, con l’incomprensione dell’universo che gli ruotava intorno e che gli dava le vertigini. Aveva voglia di tranquillità ma sapeva che la sua scelta avrebbe inflitto ancora una volta dolore. Non poteva più vivere così, voleva chiudere gli occhi e trovare i colori che erano scomparsi a poco a poco dalla sua vita.
Non ci pensò più di tanto, prese Stefania per mano, gliela strinse fortissimo e insieme a lei uscì di casa.
Non tornò mai più.
In memoria di Carlo, morto troppo presto, vittima di un tempo sbagliato. Forse, in un altro momento sarebbe stato capace di dare la libertà a Stefania e, come farfalla, volare libero insieme a lei.
Vorrei che tutte le storie d’amore ed i film in generale finissero bene.
Dichiaro: a me piace l’happy end.
Quando temo che non ci sia un happy end, cambio canale o addirittura (al cinema) mi distraggo volontariamente.
Nella tua storia, cara Anna, c’è un punto in cui si intravede la china verso il finale doloroso.
Mi sono imposto di non pensarci e di andare fino in fondo: la storia è scritta bene, regge la tensione e ne vale la pena.
Però: che peccato!