Un giorno mi sono ritrovato, ormai più che trentenne, in un’aula universitaria.
Mi ero nuovamente iscritto per puro interesse personale, trovandomi di fronte tutte le novità introdotte dalle varie riforme, come l’informatica obbligatoria, per esempio, e attorno una nuova generazione di giovani studenti.
In quella particolare occasione, mi cimentavo, per la prima volta, nell’ambito delle lezioni di Letteratura Italiana, con la scrittura creativa.
Il titolo del compito assegnato era: “Un evento che vi ha cambiato la vita” e quello che segue è quanto ho scritto quel giorno.
La data è precisa: 11 febbraio 1989.
L’ora, pure: le due di notte. Mio padre giaceva sul letto della camera dei miei, stroncato da un infarto.
Quelli dell’ambulanza, arrivati troppo tardi, non l’avevano voluto portare via, seguendo un’assurda regola per la quale, in un caso come il nostro, non potevano caricare a bordo persone decedute in casa.
Uno non se lo pone prima questo problema, di solito: ma cosa si fa con un morto?
Ricordo, tuttavia, l’estrema calma che provavo, con vergogna, con stupore, la mente sgombra e lucida, la mancanza di tutto quel panico, di quel dolore che avrei dovuto, forse voluto, vivere.
Mia madre, invece, era nella confusione più totale.
Cercava di non pensare a quello che ci era appena piombato addosso, rovistando nell’armadio, cercando un vestito per mio padre.
Si era poi addirittura inginocchiata ed aveva iniziato a mettere in un sacchetto le medicine, ormai inutili, che erano sul comodino a lato del letto.
Soli, vicini a quel corpo a cui era difficile credere, avevo abbracciato mia madre, chiedendole di farsi forza e di aiutarmi a sopportare quell’evento così complesso.
Era stato un errore.
Era rimasta rigida, le braccia lungo il corpo.
Mi ero ritrovato a compiere un’azione quasi sgradevole, imbarazzante per la sensazione di inutilità, di inadeguatezza che mi dava.
Non aveva ricambiato il mio abbraccio e, quel che è peggio, in quell’istante già di per sé complicatissimo, mi ero reso contro che non ci eravamo mai abbracciati prima; che l’affetto, nonostante non me l’avesse mai fatto mancare, non me l’aveva mai manifestato fisicamente.
Mi sentivo rifiutato e respinto.
Era lontana, in un mondo tutto suo, nel quale io ero solo un testimone passivo, come già mi era accaduto altre volte con chi amavo, anche in momenti felici.
Ripensandoci più tardi, avrei realizzato che la mancata esemplificazione, da parte dei miei genitori, di questo aspetto così necessario della mia educazione mi aveva causato difficoltà durante ogni altro tentativo di contatto con qualsiasi altra persona.
Mi attendeva un duro compito, una sorta di lunga e difficile terapia di riabilitazione fisica per rimettere in moto i miei arti atrofizzati ed abituarli a compiere quel gesto che avrebbe dovuto essere così naturale, come camminare, o addirittura respirare.
Era necessario, in ogni caso, cambiare.
Dovevo imparare ad abbracciare.
Qualcuno doveva abbracciarmi.
la storia fa un effetto raggelante: è scritta “a distanza”, come un referto clinico.
Intensa, lascia il segno
Anche a me è successa la stessa cosa: un solo abbraccio cercato e sempre negato.
Triste storia, mi rendo conto che nemmeno io ho mai abbracciato i miei genitori, nemmeno baciati, sono certa che mi volevano bene, e io ne volevo a loro,soprattutto a mia madre. devo dire che io ho sempre baciato mia figlia, e ora anche i miei nipoti. grazie per questo racconto, mi hai dato da riflettere !
Forse per effetto di un’educazione troppo attenta all’apparenza e non alle emozioni, in tanti siamo cresciuti pensando che un abbraccio o un bacio innocente dato in pubblico fossero segno di debolezza e, quindi, di dovercene vergognare. Nessuna lezione resta tale però, soprattutto se ti ha insegnato la morale più importante e credo che tu non abbia ripetuto gli stessi errori.