Peppe è assorto quando Concita arriva alle sue spalle e lo abbraccia.
Un raggio di sole, improvviso, inaspettato.
Pochi passi, tanti sorrisi, le mani che già si tengono strette e sono davanti al Centro Sociale occupato. Sulle mura alte che circondano questo monastero del 1600, poi diventato caserma, carcere e infine manicomio, campeggia un enorme murales colorato che sembra irridere di questo luogo di reclusione, che di follia, vera o presunta, nei decenni ne ha vista tanta.
Il Collettivo di Studenti che da pochi mesi lo ha occupato ne ha fatto il suo esatto contrario.
Da luogo di espiazione e dolore a punto di incontro aperto al quartiere e all’intera città.
Laboratori teatrali, doposcuola per i bambini, un centro medico per immigrati e semplici cittadini, corsi di lingua italiana, calcetto e palestra, punto di informazione per vertenze legali e richieste di regolarizzazione…
Una struttura decadente, abbandonata e saccheggiata di tutto il possibile è rinata grazie a un gruppo di giovani che gratuitamente, autofinanziandosi, come sottolineano sempre, l’hanno restituita a un uso sociale, positivo.
Il concerto di stasera ha proprio questa funzione. Lentamente affluiscono tanti giovani, molti dall’aria e dal vestire ‘alternativo’, tatuaggi, qualche spinello, mentre la musica di sottofondo copre il chiacchiericcio e aiuta l’attesa dello spettacolo. Peppe e Concita sono seduti su una panca, poco distanti da un pozzo che fa bella figura di sé in uno dei due chiostri dell’antico convento. Sorseggiano una birra, fumando.
All’improvviso, come attratti da una calamita, gli occhi di lui si concentrano sulle sbarre alle finestre che si aprono sul chiostro.
Sono così fitte da impedire qualsiasi visuale all’esterno. E’ un pugno nello stomaco, di quelli inaspettati e che lasciano senza fiato. Per un po’ il clima festoso del concerto, i giovani, i colori e la presenza di Concita hanno completamente azzerato ogni ricordo di Peppe. Fino a quando non ha notato quella finestra con le sbarre. La terza da sinistra, al secondo piano. Quella che dalla sala delle visite il nonno gli indicava prima di salutarlo. Per anni sua madre si era recata tre volte a settimana al “Manicomio Criminale”, la denominazione assegnata per decenni a questa struttura. Andava a far visita al padre, il nonno di Peppe. Qualche volta gli chiedeva di accompagnarla.
“Il nonno, lo sai, è sempre contento nel vederti” era la frase cui Peppe non sapeva dire di no.
La metropolitana li lasciava alla fermata di Piazza Cavour e poi a piedi fino a Mater Dei. Una bella salita con al seguito due grosse sporte, una con la biancheria pulita e l’altra con le cose da mangiare. Ora nella sua mente si riaffacciano le mura alte dell’ex convento, le sbarre e le porte chiuse a chiave dappertutto, il percorso obbligato e sorvegliato da e per la sala usata per le visite dei parenti. Incontri dolorosi, scene di donne con borse al seguito, raccomandazioni urlate o sussurrate di non lasciarsi andare, di resistere, di sperare…il tutto davanti a simulacri di uomini e di donne, ridotte a larve, estranei alla vita, assenti.
Si sedevano di fronte al nonno muti, una lacrima silenziosa ogni volta scendeva lenta sul volto di un uomo distrutto da anni di sedativi, di elettroshock e di piccoli e grandi soprusi, in una parola di esproprio della vita. Perfino da morto non gli avevano risparmiato un altro sgarbo, negandogli l’ultimo saluto dei suoi cari. Con la scusa del caldo avevano chiuso la bara molto prima dell’arrivo dei parenti.
Era la conclusione scontata di una vicenda che nasceva tanti anni prima.
Di cui quasi nessuno aveva più memoria, ma il potere no. Il potere, in tutte le sue articolazioni, non dimentica, non perdona. Persegue, anche quando i fatti sono lontani, quando la paura della sconfitta è meno di un ricordo, anche quando gli avversari sono vinti e incapaci finanche di sopravvivere.
Negli ultimi giorni del settembre del 1943, in una Napoli distrutta materialmente e moralmente, di fronte all’ennesimo sopruso bastò poco per fare scattare la scintilla di una sollevazione popolare che andava organizzandosi da tempo. La cacciata dei nazisti, i saccheggi, la fuga dei gerarchi fascisti e l’assalto alle carceri per liberare i detenuti. Gennaro Palermo era in prima fila quel 30 settembre nell’assalto al Manicomio Criminale, dove erano reclusi più antifascisti, che criminali e ancor meno malati di mente. Il direttore della struttura era stato un fascista della prima ora e come tale si era adoperato nella gestione del “manicomio” in quei due decenni. Là dentro negli ultimi anni del regime, tra i tanti antifascisti, era finito anche Ernesto, il migliore amico di Gennaro. Così nelle prime ore di quelle che sarebbero passate alla storia come le “Quattro giornate di Napoli”, i portoni del manicomio criminale furono sfondati da una folla di uomini, di ragazzini e di donne. In tanti si riversarono in quei corridoi angusti, in quelle celle dai doppi oblò, come grandi occhi sempre aperti per controllare i detenuti-pazienti. Liberarono dai letti di contenzione e dalle catene uomini e donne per niente criminali e ancor meno folli. Non ci fu resistenza da parte delle guardie armate che consegnarono subito le armi, indicando con le mani, più che con la voce, gli armadietti in cui erano riposte le chiavi delle celle. Un gruppo di rivoltosi intanto saliva al primo piano, alla ricerca del direttore. Lo trovarono seduto alla sua scrivania, come il comandante di una nave che affonda ma che lui non intende abbandonare. Pallido, tremante e con una pistola in pugno, intenzionato a difendere il suo ruolo. Pochi secondi di silenzio, interminabili, in cui nessuno muoveva un passo, poi Gennaro gli saltò addosso e con un ceffone in pieno viso gli fece perdere ogni pretesa insieme alla pistola. Seguirono le risa di scherno, le invettive e gli sfottò di un corteo di gente festante che portava in giro per l’ex convento il simbolo di quella ingiustizia, il direttore Marzio De Angelis. Gennaro fu portato in trionfo da quella folla di scugnizzi e di detenuti che tornavano alla vita prima ancora che alla libertà. Molti piangevano di gioia, altri battevano le mani, incapaci di esprimersi a parole. Anche Ernesto restava muto, con un’espressione livida, di rabbia, di odio. Fissava il direttore, in silenzio, senza muovere un muscolo. Poi lanciò un grido che zittì tutti. Con le mani si fece largo e a grandi passi raggiunse il De Angelis. Gli si piazzò di fronte, fissandolo negli occhi, pochi secondi e poi gli sputò in faccia tra l’applauso liberatorio dei presenti e la puzza di urina del direttore.
Fu una vittoria, e una speranza, che durò pochi mesi, poi la resistenza fu tradita platealmente con il riciclaggio di tanti funzionari del passato regime che già qualche mese dopo, ripuliti ed allineati alle nuove esigenze, riprendevano servizio, spesso nelle stesse stanze in cui avevano precedentemente esercitato funzioni e poteri.
In quei giorni Gennaro non avrebbe mai immaginato che trent’anni dopo, accusato di un reato non commesso e, avendo proclamato con forza e insistenza la sua innocenza, sarebbe finito di nuovo dietro quelle mura, quelle sbarre.
Per non uscirne mai più, se non da morto. E, i casi della vita, come direttore della struttura aveva trovato il figlio di Marzio De Angelis, ben lieto di poter prendere in consegna l’uomo che nel settembre del ’43 aveva offeso e schiaffeggiato impunemente il padre.
“Che hai, mi sembri turbato, non ti piace questo posto?” la voce di Concita lo riporta velocemente al presente.
“No, niente, è una storia molto lunga, poi un giorno, se vuoi, te la racconto…”
Il concerto sta per iniziare, la band si presenta al pubblico tra ovazioni e applausi.
I due si guardano negli occhi e si sorridono.
tratto da “E se la vita fosse un bancomat?” giallo di Gianni Santarpino in attesa di pubblicazione. per saperne di più su Peppe Palermo vedi dello stesso autore “Omicidio a Mergellina” ed. Libromania acquistabile su Amazon )
nell’immagine, tratta dal film “Je so’ Pazzo” del regista Andrea Canova, l’ex ospedale psichiatrico giudiziario di Sant’Eframo Nuovo, nel Rione Materdei di Napoli. Chiuso nel 2008 perché inagibile, l’edificio seicentesco è stato riaperto nel marzo 2015, dopo sette anni di abbandono istituzionale e da luogo di reclusione a “bene comune”, è stato restituito al rione Materdei grazie a una occupazione “sostenibile”.
Molto bello
Sempre calzante nelle descrizioni di pensieri, persone e luoghi. Grazie
Aspettiamo con ansia quest’altra storia che sono sicura ci affascinera’