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I colori dell’amore di Sabrina Fiamma
Ti amo
di un amore immenso,
profumato di fiori,
celeste come il cielo
e blú come il mare,
giallo intenso come il caldo sole.
Ti amo d’amore appassionato,
ti amo come un giorno colorato,
come un campo di girasoli
assolato.
Ti amo perché sei bello come
un bimbo che ride,
su un prato di lavanda
profumata.
Ti amo ,in una giornata bagnata ,
quando sono inzuppata ,
sotto una pioggia incessante.
Ti amo ora e sempre,
mio unico e tenero amante,
ti amo perché sei
l’unica parte importante
del mio esistere.
Sono con te di Monica Rizzardi
Sono nei tuoi occhi scuri e sinceri
che mi guardano e mi fanno sentire bella.
Sono nella tua bocca
che sorride e mi parla e mi bacia con ardore.
Sono nel tuo collo possente che accarezzo e bacio perché profuma di te.
Sono nelle tue braccia
che mi cingono e avvolgono con dolcezza.
Sono nelle tue mani grandi che cercano le mie e le sfiorano, le prendono e le stringono per sentirmi.
Sono nel tuo petto e nel tuo corpo
che porta i segni di dure prove.
Sono nelle tue gambe forti e robuste .
Sono tra le tue gambe e ti sento:
sento il tuo vigore e il desiderio di me.
Sono nella tua voce che parla l’amore e d’amore.
Sono nel tuo cuore ed è lì che voglio stare, che voglio restare che voglio essere,
perché ti amo.
Il bagno di Bathsheba di Marina Neri
Goccia sul mio corpo.
Scivola fresca, si insinua gagliarda, nelle pieghe alla luce ora esposte.
Lascio vagare la mia mano,
impudica e solerte carezza la mia pelle arsa, alla solitudine avvezza.
Goccia, stilla sul seno e fra i fianchi, viaggia su percorsi sinuosi ,
cerca gallerie conosciute e irriverente staziona su punte rosate.
Re, mi guardi dalla tua prigione dorata,
incatenato a un dovere che non disdegna la lussuria,
segui la mia mano che
promette il paradiso al tuo regno pulsante.
-Davide, Davide…per paura non osi? Chi temi?
La donna, il peccato o quel dio che il piacere nel tuo ventre ha inculcato?-
Un tocco, uno sguardo
per un desiderio blasfemo…
Goccia…poi un’altra, io tremo
è amore che diventa
supplice preghiera…
il peccato è compiuto sul far della sera.
Adultera e femmina
morire, per legge io devo…
mentre il mio corpo corre via dalle regie carezze
e si adagia sul morbido velo…
Un bagno impudico
scatenò la fantasia
e di un re il valore smarrì
– non sarai lapidata, amante, donna mia…
il tuo sguardo ammaliante vale la vita di tuo marito Uria…-
Dannati, amanti
vinti da un bagno, da un giogo e dal destino,
da acqua che scorre su nudi corpi …
che annienta, brucia, indomabile come eternità di diamanti.
Goccia…sul mio corpo, mio Re, mio schiavo Davide…
Danzo stillante uscendo dal mio bagno…
mentre io Bathsheba
nuda, tua prigioniera farfalla,
lascio per sempre in balìa delle religioni, la rispettosa crisalide.
La tua voce di Monica Rizzardi
La tua voce è richiamo, spinta, forza.
Una voce calda, suadente, vibrante, magica.
L’emozione non ha voce dicono,
ma la tua voce è emozione pura, è regalo, è ponte,
è passaggio, da un te ad un me che si fa uno.
E non importa cosa dice, cosa legge,
emoziona, smuove, tocca.
E gli occhi rispondono commossi,
si riempiono di cielo e di mare,
lasciando cadere lacrime intrattenibili,
calde, liberatorie e cristalline.
Il primo amore non si compra di Gianni Santarpino
Il mio nome è Glauco e, nonostante l’età, nelle giornate di sole amo ancora passeggiare per le vie della città seguendo solo il lento alternarsi dei miei passi. Senza meta attraverso i decumani, mi attardo nel foro, mentre mi abbandono in ricordi sempre più antichi e sbiaditi. Mi perdo nel sorriso di una giovane schiava o negli inviti di un venditore di lucerne e mi ritrovo davanti al lupanare più famoso di Neapoli, quello che fu di Gallio Ulpico all’epoca di Tiberio. Il cuore inizia a battere forte, gli occhi si inumidiscono e all’improvviso mi ritrovo indietro nel tempo, quando avevo da poco indossato la toga virile e negli occhi mi brillava la voglia di mordere la vita, di conoscerne ogni segreto. Quella mattina, mi apprestai alla scoperta delle scoperte, era la mia prima volta e avevo sdegnosamente rifiutato che mio padre mi accompagnasse. Ero adulto ormai e avrei fatto da solo! Invece, davanti all’ingresso di quel luogo tanto sognato, indugiavo perdendomi nella folla.
A un tratto mi feci coraggio ed entrai nell’atrio del lupanare. Uno schiavo mi indicò la scala di legno che portava al primo piano. Guardavo il lungo ballatoio su cui affacciavano tante stanzette, non ebbi neanche il tempo di capire che fui subito attorniato da due o tre lupe. Mi sorridevano, mi carezzavano, mi toccavano le parti intime, ognuna mi spingeva verso il suo cubicolo. Restai lì imbambolato a misurare la distanza tra i miei sogni e quella realtà, finché altri clienti non ruppero l’incantesimo. “Se non hai voglia, vattene!” “Che ci vuole a decidere?” “Mica aspettiamo che diventi vecchio…”.
Urla che furono schiaffi in pieno viso per me che mi perdevo tra rotondità scoperte, labbra carnose, gambe affusolate e vulve appena in vista tra un velo e l’altro. Fui costretto a scegliere e mi lasciai condurre dalla più giovane. La pelle del color dell’ambra, gli occhi scuri e un corpo statuario trasformarono in una reggia quella stanzetta che aveva solo un letto, una sedia, un catino e una brocca d’acqua. Alla lupa bastò poco per capire che quella era la mia prima volta. Si liberò dei veli muovendosi quasi a passo di danza, la bocca lasciava intravedere denti bianchi, perfetti, mentre i capezzoli sembravano puntarmi. I miei occhi si perdevano in tutta quella bellezza, lei iniziò a spogliarmi con grande maestria, ero teso come la corda di un arco e il cuore più che in petto lo sentivo battere tra le gambe. Clio, rammento ancora il suo nome, mi prese per la mano e mi sussurrò: “Sta’ tranquillo, ti aiuto io, lasciati guidare…”. Le sue parole fecero crescere ancor di più il desiderio e non capivo cosa volesse indicarmi. Poi seguendo il suo sguardo, vidi sulla parete alle mie spalle sei quadretti dalle tinte vivaci, sei posizioni erotiche e di fianco a ognuna il prezzo. Dovevo scegliere, così feci un cenno e in un baleno me la trovai con la testa tra le gambe. Il ritmo della sua bocca sembrò succhiarmi anche l’anima e non ricordo più se fu solo un attimo o durò per un’eternità. Il suo calore e il mio furono una sola cosa. Si alzò lentamente e mentre si puliva mi continuava a guardare, si stese al mio fianco e mi accarezzò prima il petto e poi la sua mano piano piano scese più giù. Quando avvertì che il mio corpo era di nuovo pronto, si spostò su di me e cavalcandomi mi procurò un altro orgasmo. Ero in estasi, quella seconda volta inaspettatamente fu ancora più bella, la tenni stretta nelle mie braccia, la carezzai, le baciai le labbra, il collo, i seni, non sarei più andato via. Ma le urla dei clienti in fila mi riportarono alla realtà, era il momento di pagare. Con gli occhi bassi lasciai furtivamente le monete sulla sedia e l’abbracciai sussurrandole “A presto”. Solo sull’uscio del cubicolo trovai il coraggio di domandarle “Come ti chiami?”.
Il giorno dopo al lupanare chiesi subito di lei, di Clio. Mentre aspettavo il suo arrivo mi intrattenni a leggere i commenti dei clienti incisi sulle pareti: una lista di complimenti di fianco al suo nome insieme agli inviti a provare questa o quella posizione… In me crebbe un moto di gelosia e, se ci penso bene a distanza di tanto tempo, è una sensazione che avverto ancora. Lo so è ridicolo pensare di innamorarsi di una prostituta e ancor peggio pensare di poterne essere gelosi, ma questo fu ciò che provai. Entrò e nel vedermi si aprì in un gran sorriso “Sono contenta, vuol dire che ieri…”. Non le detti il tempo di finire la frase, convinto come ero di aver già imparato tutto sul sesso, scambiai foga e impeto per erotismo. Clio si staccò dalla mia presa con dolcezza. “Non hai ancora scelto” disse ammiccante con lo sguardo. Mi girai di scatto, lo avevo dimenticato, quell’offerta aveva un sapore amaro, mi metteva a disagio, così grugnii qualcosa, tipo “Scegli tu…”. E lei non si fece pregare, piegandosi in avanti e aiutandomi a farsi penetrare. Le natiche nel contrarsi sembravano un mantice capace di aspirarmi e di non lasciarmi più, crollai sulla sua schiena lucida del mio sudore. Lei si girò e mi carezzo dolcemente il viso. “Questa volta finisce qui, se il lenone venisse a saperlo…”. Mi rivestii contro voglia e insieme alle monete poggiai sulla sedia una rosa che avevo portato con me. I suoi occhi si illuminarono e ci abbracciammo incuranti delle pressioni dei clienti. Ci tornai il giorno dopo e poi ancora e ancora e ogni volta scoprivo qualcosa in più sul mio corpo e sui tanti modi di prendere e dare piacere. Tra noi era nato qualcosa in più del fare sesso in un lupanare, sembrava incredibile che in un luogo tanto disgustoso potesse nascere un fiore così delicato. Eppure in quell’inferno fatto di volgarità e libidine qualcuno si era finalmente accorto di lei e per me, non ho vergogna a dirlo, era nato l’amore. Iniziammo a vederci nelle sue poche ore di libertà, una relazione fatta di gesti delicati, piccole attenzioni che col tempo avevano sciolto i dubbi e le resistenze di Clio, diventando un sentimento profondo per entrambi. L’aspettavo nei pressi del tempio dei Dioscuri, a prudente distanza dal lupanare, lei mi raggiungeva trafelata appena libera. Il nostro era un amore difficile, contrastato, fatto di momenti, di incontri clandestini, di sogni irrealizzabili, perciò ancora più intenso. Poi un giorno sul finire dell’estate mi disse con le lacrime agli occhi “Non cercarmi più, sarebbe inutile e ancora più doloroso per entrambi, domani all’alba insieme ad altre lupe mi porteranno a Capua, al mercato degli schiavi e…”. Non le detti il tempo di chiudere la frase, la baciai come non avevo ancora fatto, le dissi tutto il mio immenso e disperato amore, provai a inventarmi tante vie d’uscita, fin quando, stanca, acconsentì a vederci prima dell’alba al tempio di Cerere. “Scapperemo, andremo lontano, dove nessuno ci potrà riconoscere e finalmente vivremo insieme…”.
L’aspettai fino al mattino, poi accecato dalla rabbia e dal dolore andai al lupanare, ma di Clio non c’era più traccia. Non ci volevo credere e invece non l’avrei mai più vista.
Davanti al lupanare rivivo quei giorni come fosse oggi, ho le gambe stanche e i capelli bianchi, ma le emozioni sono ancora vivide, profonde, sento perfino il corpo tendersi come un arco e il cuore spezzarsi dal dolore. Guardo quell’uscio, che non ho più varcato da allora, con gli occhi bagnati di quel ragazzo che oggi ha le sembianze di un vecchio e dalla gola sale solo un nome, il suo.
Sogno di Monica Rizzardi
Un’eterea immagine riflessa di un desiderio irrealizzabile.
Poi l’ incontro, la ricerca di due anime perse da tempo e desiderose di ritrovarsi.
Il desiderio di corpi che anelano ad un infinito contatto.
Poi le mani si sfiorano, si intrecciano, bramano corpi pulsanti di desiderio.
Ed è ricerca sublime di un piacere assoluto
Il sogno si realizza e i due corpi si riflettono negli occhi innamorati.
Mi sveglio e il sogno svanisce.
Resti tu.
Ci sei , sei qui
E il desiderio non è più irrealizzabile.
Il sogno è diventato realtà
Angelo e Demone di Carla Bisogno
Con l’incedere lento e sinuoso, muoveva i fianchi ondeggiando sui tacchi.
Si apriva la gonna a tubo , mostrando le belle gambe. La camicia aperta con i bottoni slacciati mostrava il seno morbido e candido. Attraversava la piazza assolata, la sola donna che sfrontata, passeggiava in quell’ora. Sonnacchiosi gli uomini seduti ai tavoli del bar, al suo passare improvviso si destavano, allertati dalla visione. Lei suscitava forti emozioni, quell’incedere di fiera metteva in moto torbide fantasie. Restavano come immobilizzati da un incantesimo, fermi sulle sedie a seguire quel corpo che si allontanava nel sole. Ma lei passava per uno solo, un giovane bello, moro e appassionato. Lui era geloso pazzo di quella creatura . Doveva essere sua e basta. Lei selvaggia e indomita era vento di tempesta, era uragano, pioggia sul deserto. Lei attirava nella sua rete di ragno, lei si concedeva in segreto per il piacere e per la bellezza . Lei era peccaminosa ma Angelo dolce, lei ammaliava e proteggeva.Nella battaglia del talamo, vinceva la sua guerra tra i sospiri , arresa ai sensi. Lui si dannava per voler essere l’unico, l’esclusivo. L’avrebbe rapita e tenuta prigioniera, per vederla da solo e possederla finalmente .
Sali che ti devo salutare di Monica Rizzardi
E’ stato al primo incontro
Il cuore batteva così forte
Che temevo lo sentissi.
Le tue mani si sono intrecciate alle mie
In modo semplice e naturale
Nessuna forzatura, nessun disagio
E’ stato subito bello
Subito magico
Ed è stato subito amore.
Quando ci siamo lasciati ti ho detto:
“Sali in macchina che ti devo salutare”
Mi hai baciata: soave, dolce come mai
E poi intenso e passionale.
Come piace a me.
Così ti volevo salutare.
Fantasmi d’amore di Carla Bisogno
La villa sul lago nasconde gli amanti e
Il loro peccato lussurioso, la loro bramosia dei sensi. Essi cercano pace tra le antiche stanze, nei letti patiscono per le loro pene, condannati a un male che li infiamma, ma non li distrugge.
Per giorni e notti consumano le loro membra,
Nello struggersi dei corpi mai sazi, mai paghi
Lui ha fame di quel bianco ventre, di quella conchiglia nascosta cui brama arrivare e schiuderne il dolce frutto, fino ad assaporarne il succo. Lei condannata a giacere nel possesso , a racchiudere e contenere le impennate furiose del suo vigoroso nerbo.
Quelle pareti risuonano delle loro voci, dei richiami appassionati tra di loro. Quando poi scende la notte, gli amanti avvolti in unico lenzuolo dalla finestra volano a placare le ardenti voglie nelle acque gelide del lago. Hanno pensato ai fantasmi quelli che li videro ogni notte, tuffarsi dalle finestre sul lago e risalire poi alla villa grondanti d’acqua, stretti nel lenzuolo. Per otto lunghi anni chiusi in quelle stanze , non ebbero pace che nella frenesia dei corpi, asserviti al solo desiderio.
La storia d’amore a Villa Pliniana sul Lago di Como tra Emilio Barbiano e Anna Bothier.
E’ successo di Monica Rizzardi
Sì, è successo
A te e a me è successo
Non era ne calcolato ne previsto
Ma è successo
Ed è bellissimo
Farsi avvolgere dall’amore
Abbandonarsi a lui, perdersi
Sentirsi una cosa sola
In una nuvola rosa di baci perfetti
Di carezze lunghe
Di sguardi dolci e sognanti
Di abbracci infiniti
Di sogni possibili e irreali
Di occhi che baciano
E sospiri che escono improvvisi
Le tue mani nelle mie
La mia bocca perfetta per la tua
Tu ed io
Noi qui innamorati e persi
Oltre il tempo e le paure
Ghiaccio bollente di Marina Neri
Ti vedo lì, fermo tu stai
solo io conosco il fremito che dentro tu hai.
Scorre il fuoco nelle tue vene,
eppure fingi il ghiaccio di chi amore non teme.
Di roccia levigata son le tue pareti,
come neve lasciva mi poso morbida sui tuoi immensi tappeti.
Strofino la mia essenza,
impudica ti avvolgo come nube senza confini, ho smarrito, ormai, il tempo della pazienza.
Ti tocco mio monte,
possente
signore
placa la sete, indicami una fonte
ove io possa bere, non ghiaccio ma amore!
Dimmi di cammini di lava,
a lasciare tracce su pelle sudata,
parlami del tuo fuoco che marchia con le ustioni dei sensi, donami il guizzo che scalda, che sogna, che libera, che guarisce l’anima ferita,
e poi erutta il tuo ghiaccio bollente, sigillo d’amore,coi lapilli che stanchi e appagati cadono nel tuo, nel mio mare.
LE TETTE di Ernesto
Io ho scoperto di amare il cinema nel 1973, quando uscì Amarcord di Fellini.
Avevo sedici anni e il film mi regalò, tra l’altro, lo stupore eccitante della strepitosa, straripante Maria Antonietta Beluzzi, la tabaccaia.
Capii che Fellini era il mio regista, e capii anche di avere una predilezione sconfinata per le tette oversize. Da quel momento iniziai a cercare tutte le numerosissime conturbanti apparizioni di donne in carne nei film del riminese, autore di invenzioni divenute archetipi indimenticabili: la Saraghina di “8 e ½”, Sylvia di “La Dolce Vita” e de “Le Tentazioni del Dottor Antonio”, la divina Susy di “Giulietta degli Spiriti”, la Maga Enotea di “Satyricon”, la Gradisca di “Amarcord”, la Gigantessa e la Bambola Meccanica di “Casanova”, la femmina Mongolfiera di “La Città delle Donne”, fino alla Marisa, la sposa smaniosa dell’ultimo film “La Voce della Luna”, che si trasforma a vista in Vaporiera facendo letteralmente ‘deragliare’ il maritino inadeguato.
Quel pantheon di divinità muliebri inaccessibili, e per questo ancora più bramate, riprodotte in infinite varianti e mutazioni, ammalianti o minacciose, affollavano un tunnel di specchi nel quale Federico si è aggirato come in un labirinto per gran parte della sua vita.
Lo stesso labirinto nel quale continuo a girare.
Vidi la Saraghina, donna ricca di femminilità animalesca, immensa e inafferrabile, e nello stesso tempo nutritizia, così come la vede un adolescente affamato di vita e di sesso, un adolescente italiano bloccato e impedito da preti, chiesa, famiglia ed educazione fallimentare.
Un adolescente che cercando la donna ne immagina e desidera una che sia “una grande quantità di donna”. Come un povero che pensando al denaro ragioni e farnetichi non di migliaia di lire, ma di milioni, di miliardi.
E poi la “moglie del farmacista”, che viene spiata dal buco nel legno di un capanno sulla spiaggia, e la descrizione è lirica e traumatica allo stesso tempo: “Dapprima non vidi niente, sentii solo canterellare “Fontane all’alba”. Poi una gran parete bianca di ciccia che si muoveva, una cascata di capelli strizzati da due mani e infine lo scoppio di un seno nudo che riempiva tutto il visibile. Si allargava, si dilatava, andava da tutte le parti in un ribollire di curve, di sfere, di rotondità, come il bucato al sole quando tira vento. Sopra di me la voce di Gigino: “Che cosa credi che siano quei due prodigi? Due lune fosforescenti e tiepide? Due grandi colombe bianche? Due fiaschi spagliati pieni di latte? Due gigantesche pere spadone sbucciate e piene di sugo? Un altare? Le guance di Eolo quando soffia il vento? Lo Spirito Santo? No, sono molto più di tutto questo messo insieme. Sono le tette”.
Quante volte ho provato eccitazioni irrefrenabili pensando a 8 e ½, quando Guido, (Mastroianni, alter-ego dello stesso Fellini, e alter-ego mio) immagina un harem in cui tutte le donne della sua vita si ritrovano e coesistono assieme serenamente. Questo posto è un luogo di fantasia dove Guido trova la pace interiore, viene lavato, asciugato e coccolato come un bambino da figure femminili di ogni tipo.
Fellini (e io pure) non smette mai di pensare alle donne. Le disegna nei suoi blocchetti e le idealizza, progettando i suoi film.
Le donne di Fellini (e pure le mie) non sono un semplice parto della sua fantasia. Nascono da una calibrata miscela di immaginazione e realtà. Sono, letteralmente, sogni.
Un esempio?
La bellezza ottundente di Anita Ekberg ne “La dolce vita” del 1960, una donna appariscente, dai capelli biondo platino, gli occhi bistrati, sessualmente aggressiva, archetipo delle femmine provocanti del cinema felliniano, un’incarnazione mitologica, leggendaria e sovrannaturale della femminilità.
Sono felice di pensare che Federico ed io vediamo il mondo con gli occhi incantati di un bambino, le nostre trasgressioni sono monellerie, le nostre bugie e i nostri sogni erotici sono puerili caricature della vita, del sesso, della morte. Anche le tette enormi di certi personaggi femminili, come la tabaccaia Beluzzi, sono grandi come le vedrebbe un bambino.
E le voci suadenti, sussurranti, di molti personaggi, mi entrano nella testa come ipnotiche, provenienti da un indecifrato altrove.
Se chiudo gli occhi, mi vedo in piedi, al bordo della fontana con la fotonica Anita Ekberg.
Qualche brillio dell’alba sull’acqua mossa dai suoi passi lenti, il vestito nero, la sua testa all’indietro e le sue grandi tette, spumeggianti e lucenti.
“Ernesto … come here …”
Mi tolgo le scarpe.
“Si, Sylvia, vengo … hai ragione tu … sto sbagliando tutto … stiamo sbagliando tutto…”
Fermare il tempo di Armando Nocera
Ecco, appunto, io non so parlare d’amore, mi agito e mi irrigidisco quando le situazioni prendono una certa piega. E’ strana l’esistenza umana; passi gran parte della vita credendo di essere uno fra tanti, di provare le emozioni che anche gli altri provano, di camminare in parallelo con la maggioranza delle persone; le giornate scorrono veloci, spesso pure noiose, tutto fila liscio, o lo credi tu, quando il disegno cambia, quello che prima era tinta pastello subisce un brusco cambiamento : il rosa diventa rosso vivo, l’azzurro blu oltremare, il giallo tenue diventa color oro luccicante… gli occhi si chiudono per l’intensità dei colori e per le emozioni che ne scaturiscono…non sei più la stessa persona!
Lei è entrata nella tua vita e l’ha sconvolta, stravolta con una forza che non credevi possibile, quello che prima ritenevi importante scompare, esiste solo lei, i suoi occhi, le sue labbra, la sua risata di cristallo; la sua carezza leggera ti manda in estasi e, come dice la canzone, ti manca il respiro; ogni tua fibra pulsa e risponde ad un unico bisogno, amarla; basta qualche minuto con lei e tutto il vuoto di prima si riempie, perdoni il destino per le mancanze, per gli anni trascorsi aspettando un regalo dalla vita…eccolo il regalo!
Ma, come tutte le cose belle, anche questa dura poco.
Ora la situazione è capovolta, ora è lei che ti cerca, dove sei?
Minuetto di Futura
La mia testa in mezzo alle sue cosce. Non chiedetemi altro. Solo questo voglio ora. Mettere la mia testa in mezzo alle sue cosce. Annusare, respirare, leccare, mordere. Col suo sapore dolce, di miele, e deciso, come un vino. La mia testa in mezzo alle sue cosce e sentire che si lascia andare, che spinge il bacino contro la mia lingua, le sue gambe si aprono a offrire più spazio al piacere, la sua mano sulla mia nuca forte che tiene, come a chiedere di continuare. In eterno. Lì, con la mia testa in mezzo alle sue cosce, ho trovato la mia casa.
Mi piace il suo modo infantile di guardarmi. Mi piace quando mi scruta. Mi sento desiderata. Ogni volta che posa gli occhi su di me sento che ha voglia di prendermi a morsi. Il suo sesso è Gonfio. Duro. Di quelli che danno una grande soddisfazione senza troppo impegno. La prima volta però no. Sembrava un bambino a cui avevano regalato un negozio intero di giocattoli. E nella voglia di possederli tutti, scappa, impaurito, confuso. Così lui. In quel momento avrei dovuto capire che non è mai stato solo sesso.
Cos’era la mia vita prima di lei? Un sereno susseguirsi di giorni. Non rimpiango nulla di quel tempo, ma quando svanirà questo nodo in gola che sento ogni volta che penso che lei non é mia? Riempio i giorni di impegni, combatto il senso di vuoto, guardo le finestre rubando riflessi ed ombre ai vetri che proteggono e nascondono e immagino una vita che non è mia.
Pensavo fosse un gioco. Incontri rubati alla monotonia della vita. Ma ad ogni suo bacio sento le mie difese venir meno. E mi accorgo che il mio passo si fa meno deciso. Dove sto andando così in fretta? Mi guardo intorno, vorrei urlare il suo nome. Ma il suono mi muore in gola. Io, spettatrice clandestina di una vita che mi scorre accanto.
Finalmente respiro. Chiudo gli occhi e lei è davanti a me. Non la tocco per paura che svanisca. Respiro il suo respiro. Profuma. Sfioro con il naso la sua pelle. Velluto, caldo. Mi inginocchio a lei. Sono schiavo. Devoto. Chiedo perdono per questa passione che mi travolge. Le afferro le natiche e sogno di entrare con la testa dentro di lei. Uomo che diventa bambino. Ricominciare tutto daccapo. Vivere e morire con lei.
Prendimi ti prego! Ogni volta che non facciamo sesso ti amo di più. Prendimi, usami per il tuo piacere e finiamola qua. Invece no, sento tutto il suo rispetto, il suo amore, il suo incanto, in questi gesti gentili. Mi sento di porcellana. Mi sento cadere in frantumi. Portami via, sono fragile. Ricostruiscimi tu, pezzo dopo pezzo. Come in quell’antica arte giapponese. Ho bisogno di sapere chi sono.
Qual è il confine tra sesso e amore? Quando la pelle arde nella mancanza. Quando il respiro si fa corto in attesa di un incontro. La cerco tra la gente. Mi sembra di udire la sua voce, mi volto. Lei non c’è. Ho ancora tra le narici il suo profumo. Sento il desiderio salire. Vorrei mangiarla, una volta e per tutte. Definitiva. Sento le sue mani calde su di me, che mi frugano il cuore. Sento la voce uscire dalla bocca. Dove sei? Dove sei dove sei?
Sono qui.
Ho bisogno di incontrarti, ancora. Concedimi un’ultima volta.
Non siamo fatti per questa vita. Noi siamo desiderio.
E allora dove ti vedrò?
Incontriamoci là dove i desideri prendono forma. Incontriamoci nel sogno.
Pentecoste di Iaia de Marco
Siamo arrivati nel tardo pomeriggio, in tempo per la cena di benvenuto. Scendiamo nella hall dove ci sono già alcuni colleghi e i rappresentanti delle case farmaceutiche sponsor, in abito blu d’ordinanza. Aspettiamo ancora qualcuno prima di avviarci al ristorante, così propongo un aperitivo con cui conto di diluire la concentrazione di racconti dei casi clinici. Delicatamente incoraggiata da un prosecco, mi inserisco nella conversazione per dirottarla altrove.
Poi arriva J. Ha gli occhi grandi e neri da cerbiatto, come i ragazzi di Kipling, incorniciati da occhialini tondi e timidi. E le dita sottili di seta scura. Il sorriso pronto e gentile.
Fuma come se non potesse respirare che attraverso una sigaretta.
Parla un Inglese universale.
Ora i suoi occhi agganciano i miei, o sono io, piuttosto, che, continuando a guardarlo, intercetto il suo sguardo:
- Where you came from? –
- From Naples, I am his wife – rispondo pronta chiarendo il possessivo con il dito che indica mio marito seduto accanto a me.
- Oh, so you aren’t a doctor! – e sorride compiaciuto, subito però distratto da altre voci che lo incalzano da più parti.
Finalmente arrivano anche gli ultimi, ci avviamo verso il ristorante ai piedi del castello, stipati in tre auto in tutto “così evitiamo la carovana e il rischio di perderci”.
Il locale è caldo e simpatico come l’oste che ci accoglie. Il braccio del dottore indiano proteso verso il mio bicchiere, segna obliquamente il mio orizzonte destro per tutta la serata ed è come se, insieme al vino che continua a versare, mi trasferisse la capacità di esprimermi in inglese. Una specie di Pentecoste dell’amor profano. Mi sciolgo, sbaglio poco anche la sintassi, quasi mai dimentico il “do” nelle interrogative. Ci divertiamo tutti. È ormai l’una passata, il tempo è scaduto. Usciamo, sotto un cielo così alto e stellato da sembrare africano. Ho la sensazione di barcollare. Bene! Così con naturalezza cerco il braccio di J per appoggiarmi. Poi, non so come, finisco in auto con lui. Siamo in quattro, nella berlina dell’ospite guidata dal suo premuroso assistente perché lui ha bevuto troppo, noi sul sedile posteriore. Lara e il dottor Zivago sulla slitta. I due davanti continuano a raccontare storielle in un idioma sempre più impreciso. L’indiano, con la sua dolce voce appena un po’ alterata dall’euforia, mi confida che anche lui si annoia un po’ durante le cene con i colleghi
- I escape from professors, I escape! –
Rido perché sia chiaro che ho capito, ma in realtà sto seguendo una specie di pensiero, ancora quasi informe. Il corpo capisce prima, la mano si è posata sulla sua, senza più necessità di pretesto. La reazione di lui è pronta come quella di qualcuno che stia sognando lo stesso sogno. Attratti da una forza di gravità complice verso il centro del sedile, le nostre ginocchia si toccano. Lo spacco della mia gonna lunga fa giudiziosamente il suo mestiere e si apre. Col dorso del mignolo lui mi accarezza la pelle. Le voci dei due davanti mi giungono sempre più lontane, intono qualche risata sulle loro giusto per rassicurarli. Ho la sensazione di cadere riversa, dentro me stessa. Vorrei dover arrivare a Boston, why not?
Dieci minuti dopo ci ritroviamo in albergo. È a questo punto che J osserva che il vino pregiato ricevuto in dono risentirebbe sicuramente del viaggio transcontinentale, così sarà meglio berlo subito, in nostra compagnia, in my room!
Et voilà! Ecco prolungato il nostro tempo. Per una bottiglia di rosso da meditazione in quattro ci vorrà almeno mezz’ora, o anche un po’ di più! Un ultimo gioco di sguardi rubato alla notte.
Nella sua camera, mio marito sprofonda nell’unica poltrona disponibile con le palpebre a mezz’asta e un’aria da con il corpo sono qui, ma la mente mia non c’è; il giovane collega si sdraia a pancia in giù su uno dei due letti gemelli. Io mi sfilo le scarpe e seggo sull’altro, tirando su le gambe e incrociandole. J, in sintonia, mi imita. Guardo quei piedi nudi, scuri ed eleganti, stagliarsi sul legno chiaro del pavimento con la delicatezza naturale di un corpo privo di arroganza. Non so davvero più di cosa parliamo. Non smetto di guardarlo. E vedo il liquido rosso che lambisce il suo piede perché la mano, turbata o esausta, non ha centrato il mio bicchiere poggiato a terra, tra il mio desiderio e le sue gambe.
Buonanotte, good night, see you tomorrow, addio.
La nostra stanza è accanto. Ci spogliamo, leggermente malfermi sulle gambe. Doccia, denti. Dov’è il mio spazzolino. Brancolo nella memoria avvolta dalla nebbia etilica. Mi soccorre l’abitudine, ho sempre lo spazzolino in borsa. Già, ma la borsa dov’è. Oddio. L’ho dimenticata nella camera di J. Non posso andare a letto senza lavarmi denti per dipiù scuriti dal tannino! Mio marito è nascosto dallo scroscio della doccia. Vado.
Knock, knock, busso in inglese.
- Just a moment, please.- la voce gentile attraversa la porta
- I forgott my bag.- sussurro, quasi più per me stessa che per lui.
La porta si apre.
Il complice di Titta Tittocchia
Con quei capelli arruffati, in pigiama distesa sul divano a pensare senza agire, senza capire
cosa le stava succedendo
D’improvviso si scosse da quel torpore e uscì senza una meta.
Vagò in macchina con la musica in sottofondo, sentì un forte rumore si avvicinò un uomo le chiese se stesse bene,
Lo aveva tamponato. Nulla di grave solo qualche graffio, lei stordita lui calmo e cortese le chiese di andare a prendere un caffè vedendola stordita.
Parlarono come se si fossero conosciuti da sempre. si scambiarono il numero di telefono.
Da quel giorno la loro vita cambiò senza che nessuno lo sapesse.
Messaggi, mail che resero le giornate meno pesanti.
Più si scrivevano più il desiderio di rivedersi prese il sopravvento.
Avevano bisogno di quell’ abbraccio di cui tanto ne scrissero. Non volevano altro.
Fu così ,dopo mesi, che decisero di passare una notte in una località sconosciuta, lontano da occhi indiscreti.
Si trovarono davanti ad una stazione, lei arrivò senza trucco, con un paio di jeans e un maglione, non doveva fare colpo su di lui. La sua vita l’aveva e non l’avrebbe mai lasciata.
Trovarono un albergo e passarono tutto il tempo ad abbracciarsi pur desiderosi di altro.
Dopo quella notte credettero di non rivedersi mai più.
I messaggi, le telefonate di nascosto continuarono fino a a spingersi oltre .
Si era creata un’empatia, simbiosi tale che non potevano più non rivedersi.
Non fu amore nel termine in cui si pensa, ma una forte attrazione, sensualità che in pochi capirebbero.
Cominciò così
Anni di passione, giochi erotici, salti mortali per un fugace bacio.
Sotto la doccia con l’acqua che scorreva sui corpi nudi , giochi in cucina, lui mangiò sul suo ventre, lei lo fece andare in estasi con la sua bocca,
Il solo pensiero di essere a pochi chilometri di distanza faceva uno strano effetto, si eccitavano.
Periodi lunghi senza vedersi per i troppi impegni, così lei appena sapeva che lui era in zona prendeva la macchina per raggiungerlo, solo il tempo di un caffè per colmare quel vuoto dentro di sé, come lui pur di vederla deviava i suoi viaggi per un solo bacio. A volte un sesso sfrenato sbrigativo colmo di piacere.
Non erano mai sazi.
Fu una grande “Amicizia” fatta di stima reciproca, sesso, risate, follie.
Non parlarono quasi mai delle loro vite private.
Lei così introversa, ansiosa scoprì un mondo a parte tutto suo disinibendosi come non avvarrebbe mai pensato. Il regalo più grande della sua vita.
Come scrive Vasco “A volte ci vuole un complice ed è più semplice”.
Con quei capelli arruffati, in pigiama distesa sul divano a pensare senza agire, senza capire
cosa le stava succedendo
D’improvviso si scosse da quel torpore e uscì senza una meta.
Vagò in macchina con la musica in sottofondo,sentì un forte rumore si avvicinò un uomo le chiese se stesse bene,
Lo aveva tamponato. Nulla di grave solo qualche graffio, lei stordita lui calmo e cortese le chiese di andare a prendere un caffè vedendola stordita.
Parlarono come se si fossero conosciuti da sempre. si scambiarono il numero di telefono.
Da quel giorno la loro vita cambiò senza che nessuno lo sapesse.
Messaggi, mail che resero le giornate meno pesanti.
Più si scrivevano più il desiderio di rivedersi prese il sopravvento.
Avevano bisogno di quell’ abbraccio di cui tanto ne scrissero. Non volevano altro.
Fu così ,dopo mesi, che decisero di passare una notte in una località sconosciuta, lontano da occhi indiscreti.
Si trovarono davanti ad una stazione, lei arrivò senza trucco, con un paio di jeans e un maglione, non doveva fare colpo su di lui. La sua vita l’aveva e non l’avrebbe mai lasciata.
Trovarono un albergo e passarono tutto il tempo ad abbracciarsi pur desiderosi di altro.
Dopo quella notte credettero di non rivedersi mai più.
I messaggi , le telefonate di nascosto continuarono fino a a spingersi oltre .
Si era creata un’empatia, simbiosi tale che non potevano più non rivedersi.
Non fu amore nel termine in cui si pensa, ma una forte attrazione, sensualità che in pochi capirebbero.
Cominciò così
Anni di passione, giochi erotici, salti mortali per un fugace bacio.
Sotto la doccia con l’acqua che scorreva sui corpi nudi , giochi in cucina, lui mangiò sul suo ventre, lei lo fece andare in estasi con la sua bocca,
Il solo pensiero di essere a pochi chilometri di distanza faceva uno strano effetto, si eccitavano.
Periodi lunghi senza vedersi per i troppi impegni, così lei appena sapeva che lui era in zona prendeva la macchina per raggiungerlo , solo il tempo di un caffè per colmare quel vuoto dentro di sé, come lui pur di vederla deviava i suoi viaggi per un solo bacio. A volte un sesso sfrenato sbrigativo colmo di piacere.
Non erano mai sazi .
Fu una grande “Amicizia” fatta di stima reciproca, sesso, risate, follie.
Non parlarono quasi mai delle loro vite private.
Lei così introversa, ansiosa scoprì un mondo a parte tutto suo disinibendosi come non avvarrebbe mai pensato. Il regalo più grande della sua vita.
Come scrive Vasco “ A volte ci vuole un complice ed è più semplice”.
A te di Monica Rizzardi
A te che sei entrato nella mia vita
e hai portato gioia.
A te che mi hai preso per mano
per camminare insieme.
A te che mi hai amata da subito
senza remora alcuna.
A te che hai amato tutto di me
sin dal primo giorno.
A te che mi hai conquistata
con il tuo sorriso malandrino,
con la tua calma apparente,
con i tuoi occhi lucidi
di gioia e di pianto,
di bagliori nuovi
e di attimi di smarrimento.
Insieme abbiamo riso e pianto,
abbracciati e persi.
L’amore ha fatto il resto
E con te è amore sempre
fatto di lontananza forzata
e di presenza vera
Perché l’amore vuole spazio
e vuole tempo,
ma sa andare oltre
e sa attendere
e sa aspettare.
E dopo l’attesa
amarti sarà ancora più bello
ancora più forte
ancora più vero.
Plenilunio di Marina Neri
Cosa stava accadendo in città in quelle notti? Ormai erano tre i delitti a contarsi. Uomini, aitanti, ricchi. Morti subito dopo un amplesso, nelle loro ville lussuose. Un vero rompicapo per il Commissario Serio e per la giornalista di cronaca nera Trenti. Mangiava sempre il tappo della penna mentre rifletteva. Sulla scrivania le immagini dei tre uccisi. Squarciati. Anzi, dilaniati era il termine autoptico corretto. Solo il membro era stato risparmiato, ricoperto dall’ umore rilasciato dopo l’orgasmo. La violenza dopo il piacere. Masticava silente l’uomo assorto. La rompiballe era arrivata. Al solito, avrebbe voluto carpirgli informazioni riservate per i suoi scoop. Ma era maledettamente conturbante e un giorno o l’altro aveva giurato a se stesso che avrebbe passato le mani su quel sedere sodo che esibiva a ogni falcata delle lunghe e tornite gambe. Era entrata accompagnata dal vento di primavera, capace di spazzare via l’olezzo di morte che aleggiava nel suo ufficio nella penombra. Amava riflettere nei chiaroscuri. Gli si era seduta di fronte e aveva accavallato quelle istigazioni al sesso improvviso che erano le sue gambe. Lo guardava in attesa di notizie fresche, attendibili, di fonte sicura. Si era affrettato a ricomporsi. Dirle che si era immaginato steso con lei di sopra a giocare con la parte di lui più reattiva non era un buon modo per salutarla. Invece aveva esordito con:- Nessuna notizia- Brancolava nel buio. Pochi nessi sulla vita, molti sulla morte di quegli uomini. La mano sanguinaria era una sola, senza ombra di dubbio. Era l’unico dato che si sentiva di darle. Delusa lo aveva salutato con un broncio femmineo e, ancheggiando, forse volutamente maliziosa, era uscita dal suo ufficio seguita dal suo sguardo libidinoso. Un giorno o l’altro l’avrebbe invitata a cena. Sapendo già, però, che i suoi propositi sarebbero rimasti pie aspirazioni, per la sua proverbiale pigrizia e per quella timidezza che in fondo lo pervadeva, tornò al suo lavoro. La cittadinanza voleva risposte. Immediate prima che la paura divenisse fobia. Occorreva una mappa degli uomini ricchi della città. Doveva proteggerli tutti e fare pure in fretta. Ne aveva scartato alcuni dalla lista: troppo anziani e accasati, senza particolari propensioni sessuali e senza svaghi eccentrici. Tre i probabili. Aveva scelto gli uomini più preparati per effettuare pedinamenti, indagini e mimetizzazioni varie. Fra questi si era incluso perché non aveva mai chiesto ai suoi uomini di fare ciò che lui stesso non fosse disposto ad affrontare. Una settimana dopo, un uomo, uno fra quelli della sua lista, in abbigliamento casual ma molto ricercato, aveva appuntamento con una bellissima donna. Lei era arrivata in taxi. Lo spacco inguinale ne rivelava la gamba statuaria fasciata in calze retate sorrette da un reggicalze impudicamente lasciato in vista da quello squarcio sulla gonna lunga e sexy. Si muoveva come una pantera nella sua giungla. Lui, al riparo e ben nascosto, aveva trattenuto il fiato, non solo per non essere scorto. Flessuosa era giunta sulla soglia dove l’uomo l’attendeva pieno di ardore e solerzia. I lunghi capelli biondi della donna le coprivano parte del viso e non si riusciva a scorgere il labiale. Ma aveva detto qualcosa di molto eccitante se l’uomo le aveva passato un braccio intorno alla vita e l’aveva fatta accomodare nel suo splendido maniero. Il Commissario doveva adesso spostarsi dal suo nascondiglio e trovare la postazione che gli consentisse di vedere cosa accadeva in casa del sorvegliato. In un attimo, appena balzato fuori dal luogo mimetizzato, si accorse di non essere più solo. Cosa diavolo ci faceva lì quella giornalista? In tuta nera, come un guerriero ninja? Lo trattenne per un braccio e quasi non si beccò il pugno di reazione dell’uomo. – Voglio venire anche io- disse risoluta. – Tu sei pazza- rispose a denti stretti l’uomo. – O vengo o urlo- ricattò lei. Esasperato, la prese per un braccio e corsero verso la casa. Non c’era un attimo da perdere. La bionda si stava spogliando lentamente. Ogni movimento studiato e calibrato per suscitare eccitazione. L’uomo seduto sul divano la osservava con devozione blasfema e si massaggiava l’organo, appendice del suo piacere. Sinuosa come un felino gli si era accucciata in mezzo alle gambe e lo aveva condotto, con la sola passione delle labbra e della lingua, a vette elevate di parossismo erotico. Entrambi erano entrati, avvinghiati, in camera da letto. I due voyeur dovevano fare in fretta e soprattutto non dovevano fare rumore. Lei si era stesa e, masturbandosi, lo invitava sorniona. L’uomo l’aveva raggiunta e le sue mani avevano sostituito quelle di lei, mentre la lingua le affondava in bocca in un bacio preludio dell’amplesso che ne sarebbe stata conseguenza. L’aveva coperta col proprio corpo, affondando dentro di lei. Imbarazzati da sospiri e visioni i due osservavano quasi pentiti per quella invasione celata. L’uomo ansimante era schiacciato al materasso mentre la giunonica amazzone lo cavalcava superba. Improvvisamente, sopra di lui, non più la donna ma una creatura demoniaca che godeva di quel membro ancora eretto mentre gli squarciava il petto con artigli micidiali. Con denti aguzzi aveva azzannato la gola del malcapitato, passato dal piacere alla morte in un attimo eterno. Il poliziotto aveva estratto la pistola e aveva sparato. Uno, due, tre colpi. Mentre le mani gli tremavano, proteggendo istintivamente la donna terrorizzata al suo fianco. Occhi di brace e un ghigno ferale da lupo lo avevano colpito lasciandolo interdetto quell’attimo che era bastato alla creatura per sollevarsi da quel corpo ormai esanime e tentare una disperata fuga. Gli era balzata addosso cercando di affondare i denti nella sua giugulare. Nulla più di femmineo vi era in quelle fattezze di licantropo. Istintivamente lei si era gettata addosso a quella creatura per tentare di proteggere l’uomo. La licantropa l’aveva guardata con odio e biasimo, forse persino con scherno o pietà. Un attimo che le era stato fatale. Il commissario, traballante, aveva mirato e sparato dritto al cuore. Era caduta ai loro piedi. Morta. Creatura? Ora solo donna. Solo donna. Chi mai avrebbe creduto al loro racconto?…
Aveva preparato con cura la cena quella sera. Finalmente. La luna piena sarebbe stata complice del loro incontro. Le candele spandevano una luce soffusa. Era arrivato in perfetto orario, elegantissimo nel suo completo blu notte. Gli aveva aperto lasciando fuori dalla porta ogni tormento o incognita sul domani. L’aveva abbracciata, senza il tergiversare dei convenevoli, ne aveva aspirato il profumo fresco e invitante. La cerniera alle sue spalle scese docilmente, ubbidiente alle mani di lui. Il seno fremente divenne baluardo a tenere la stoffa e lui con la bocca, allontanò quei bordi che gli impedivano di saggiare delizie agognate. Gli tolse la cravatta, gli sbottonò la camicia, percorse con scie di baci il petto villoso. Seguì percorsi incandescenti e peccaminosi e si inebriò del respiro smorzato di lui quando tributò di carezze di lingua il suo sesso già desideroso di un antro accogliente. Le scostò gli slip neri, le fece provare il bacio più audace che avesse mai sperimentato mentre la lingua cercava rifugio nell’umida caverna. Il fremito che l’aveva pervasa si era espanso in tutto il suo corpo. Lui l’aveva posseduta mentre ancora era persa nella sua estasi. Pulsante gli si era adagiata sopra. Una conchiglia con il mare dentro a inondarla e a farla divenire onda partecipe di una danza dalla musica sconosciuta. Aveva raggiunto il piacere, possente, totale. Respiro contro respiro privo di ritmo, sconnesso, ansimante. Un ululato di godimento… Di lei. Di lei. La luna padrona. Quel graffietto sulla mano…ecco…il testimone era passato! Un altro uomo sacrificato al plenilunio!
L’amore scalda il cuore di Barbara Chiarini
Era un’uggiosa giornata invernale.
Alla seconda ora di lezione, il liceo non si era ancora svegliato.
Chiara osservava assorta il paesaggio che si stagliava fuori dalla finestra della sua classe. Fuori pioveva a dirotto e guardando oltre le sponde del fiume poteva vedere L’ Arno, il fiume della sua città: poteva sentirne il rumore impetuoso, gonfio di acqua scura per via delle continue piogge dei giorni passati… faceva quasi paura ma non erano stati dati segnali di allerta, per fortuna.
Eppure, in quel freddo grigiore, una luce scaldava il cuore della giovane ragazza. Nella sua mente, non c’era posto per la traduzione di latino che il professore continuava a blaterare da una buona mezz’ora, dall’alto della sua inviolabile cattedra: nella sua testa scorrevano senza sosta soltanto le immagini del giorno precedente, di quel bacio tra lei e Lorenzo, il ragazzo del primo banco.
Lui l’aveva riaccompagnata a casa al ritorno da scuola; avevano fatto tutto il tragitto correndo sotto la pioggia sferzante e, arrivati sotto il portone della casa di lei, i vestiti zuppi e il freddo nelle ossa, si erano salutati. «Credo che mi verrà una bronchite -aveva detto Chiara- ho talmente tanto freddo».
Lui, senza dire nulla, l’aveva stretta fra le braccia, guardandola forte negli occhi, a volerle scrutare l’anima. Poi, con ferma dolcezza, le aveva passato una mano fra i capelli lunghi e bagnati e con delicatezza aveva infine posato le sue labbra sulla bocca di lei; si erano scambiati un lungo bacio, un bacio morbido, come una danza felice fra le labbra, le loro giovani labbra.
Senza volerlo, quel dolce ricordo la fece sorridere e avvampando in volto per l’emozione rinnovata, d’istinto si voltò a guardare Lorenzo; anche lui la guardava.
Si scambiarono uno sguardo intenso, di passione: non servivano parole per esprimere il loro amore.
Restarono così, a fissarsi per alcuni istanti che sembrarono interminabili, persi a guardarsi reciprocamente negli occhi, immersi nel loro mondo.
«Bastiani, vuole girarsi e seguire per cortesia?»
Il richiamo dell’insegnante riscosse Lorenzo che si girò, dopo aver dato un’ultima occhiata fugace a Chiara, come per scusarsi di doverla lasciare.
L’insegnante non poteva sapere che in quel momento due cuori battevano all’unisono, i cuori di due giovani innamorati.
Allora Chiara tornò a guardare fuori dalla finestra: un raggio di sole aveva fatto breccia tra le nubi scure di quel giorno freddo e piovoso.
Il suo riflesso puntava dritto a lei, lì sul suo maglioncino rosso, proprio all’altezza del cuore!
Ah! L’amore quante cose può fare … persino scaldare i cuori!
Potremmo mai vivere senza?
LUNA NUOVA di Maria Teresa Raffaele
Ci sono luoghi che la città trascura, ci sono persone che la città non vede, ci sono verità custodite tra gli stracci e ci sono cose segrete di sé che le persone non conoscono …
Questa storia mi è stata raccontata da Emilia, una “barbona” (a Parigi direbbero una “clochard”, a Londra una “homeless”) che vive a Roma sotto i ponti del Tevere, che si arrangia per vivere, che ogni tanto finisce in galera e che talvolta, per rompere le solitudine, si ferma a parlare, con chi le va a genio, di cose lontane, di cose immaginate, di cose vissute …
Passeggiando lungo le banchine del Tevere, è capitato anche a me, una sera , di ricevere da lei la confidenza di una storia…
… più che altro, a stupirla, era stata la naturalezza con cui l’aveva fatto. Mentre saliva le scale di casa ci pensava e pensava a come sarebbe stata la sua vita, in futuro, da quel momento in poi. Diversa, migliore o peggiore, forse … ma senz’altro diversa.
Dopo tante perplessità, dubbi, ripensamenti, non avrebbe mai immaginato che tutto sarebbe successo proprio quella sera, quando, come tante altre volte, lui l’aveva invitata ad uscire.
– Volentieri – aveva risposto, con un inedito cenno d’entusiasmo.
Si frequentavano da mesi, ma la storia non riusciva a prendere il volo. Angela, lo ammetteva lei stessa, era inafferrabile, ambigua, a momenti tenera, altri sideralmente lontana. Talvolta addirittura ostile: – Odio gli uomini – diceva – mi hanno fatto troppo male! –.
Ma lui non badava a queste parole, sapeva bene ed in prima persona, cosa fosse un passato da dimenticare.
Mentre continuava a salire, Angela ripensava, lusingata, alle prime parole che lui le aveva detto non appena l’aveva vista: – Hai uno sguardo … uno sguardo che mi turba –
Sapeva di piacergli moltissimo.
Avevano passeggiato a lungo senza parlare, privilegiando il linguaggio degli occhi e delle mani. – Vento caldo, serata senza luna – aveva notato Angela.
Ora le tornavano affollati alla mente i fatti incredibili di quella sera: il bacio che lei, per prima, gli aveva dato nell’angolo più buio di Villa Borghese, con un trasporto di cui ancora si meravigliava. E poi quell’iniziativa, così istintiva, di tirare fuori dalla tasca della giacca il temperino con il quale aveva reciso, con un colpo netto, il cordoncino che lui portava al polso e dal quale non aveva mai voluto separarsi. – Basta con i ricordi del passato – gli aveva sussurrato, stringendoglisi addosso. – Sei nel mio destino – aveva risposto lui, docile.
– Il destino è amore – aveva replicato lei, ispirata. Quasi arrossiva ripensando a come, eccitatissimi, si fossero poi abbandonati all’amore, al buio, lì sul prato, fino ad addormentarsi esausti. Era stata lei a svegliarsi per prima, lo aveva guardato appena un attimo, poi gli era scivolata via dalle braccia, si era fatto tardissimo.
La vita dunque ricominciava – pensava Angela mentre apriva la porta di casa – con tutti i suoi rischi, ma la decisione era presa e al diavolo tutte le sue teorie sugli uomini da odiare.
Si mise a letto, ma non riusciva a prendere sonno, si sentiva addosso una strana eccitazione. Dormiva, invece, quando il suono prolungato e perentorio del campanello della porta la fece sobbalzare. Non capì subito cosa volessero da lei quei poliziotti con tutte quelle domande … parlavano di lui … (un pensiero le passò per primo alla mente – oltraggio al pudore – e le veniva da ridere, ma si trattenne).
Stentò a capire quando sentì parlare di dissanguamento. Poi, piano piano, realizzò: l’avevano trovato nel parco, inerte, un sorriso perfetto sul volto, un rivolo di sangue al polso. Un lento stillicidio l’aveva ucciso.
Angela urlò, pianse, giurò e ripeté mille e mille volte la sua versione, ma nessuno volle credere all’assurda storia del braccialetto reciso. Le hanno dato vent’anni per omicidio.
Ora Angela non piange più: da pochi giorni l’avvocato le ha comunicato, trionfante, la riapertura del processo e la certezza di riuscire, questa volta, a tirarla fuori da Rebibbia. Certo lui non sa che in una di quelle notti senza luna, Angela, scossa da strani tremori, ha confidato ad Emilia, sua compagna di cella, di non sapere neppure lei come sia andata veramente quella notte …
Ci sono cose segrete di sé che le persone non conoscono.
Ci sono luoghi che la città trascura, ci sono persone che la città non vede, ci sono verità custodite tra gli stracci.
Honey di Mimmo Reale
Il tuo incedere felpato
e il tuo sculettare con grazia mi intriga.
Quando ad occhi chiusi fai finta di dormire
e con moine leziose mi cerchi.
La tua umida rosa mi intriga…”
Vivere d’amore di Francesco Briganti
Il televisore, 60 pollici di modernità elettronica, dipana le sue storie indifferente a tutto ciò che lo circonda: un divano, due poltrone, un tavolino di cristallo atteso ad abbellire un ambiente moderno, giovane, di quelli che lasciano un pò sorpresi quando ci si rendesse conto che si tratta dell’abituale parterre, sereno e routinante, di una classica coppia italiana: forse anche contenta del proprio divenire, forse mediamente soddisfatta, di certo a chiedersi di tanto in tanto il perché di un vivere, in fondo e ben nascosto, del tutto differente da ciò che si sarebbe voluto.
Voci! In lontananza, soffuse di un discorrere tranquillo che si arrampica su dalle scale di un interrato ad affacciarsi su di un giardino di ulivi che circonda la casa. Un interrato, che in tempi nemmeno molto lontani, è stato trasformato in sala cucina e ritrovo per gli amici, per le feste comandate, per quei momenti di convivialità che, saturi del tran tran quotidiano, rendono la stesso più vivibile anche se, come ritrovo, da un pò fa più da riserva indiana per due sole persone!
Fuori tra gli alberi di quel giardino, nel cielo sopra la casa, nell’infinito nascosto da nuvole nere a piangere da ore, l’inverno recita la propria parte non tralasciando scrosci violenti quali lacrime di un dio pentito; un vento sferzante contorce rami, cespugli, in un mulinare di foglie che sembrano un sabba infernale nel mentre di un freddo gelido a recitare i propri sottozero con quell’estrema disinvoltura di chi sfrontato reclamasse la propria supremazia.
Sotto il televisore un caminetto: vestigia antica in cui la legna ad ardere rende favori soddisfatti ad un tiraggio da maniero inglese. I ceppi bruciano allegri il proprio ruolo mentre, faville ribelli, sferzano l’intorno bruciacchiando, qui e là, una pelle bicolore di una fassona passata a miglior vita che accoglie e mostra quelle piccole cicatrici con orgoglio; lei sa, per chimico trattamento, che non corre rischi di bruciarsi più di tanto e del resto, già da un pò, nulla più arde, passione o no, sotto quel tetto.
Le voci si avvicinano. La scena della cena ha trovato la propria replica; hanno parlato del più e del meno, sorridendosi di una reciprocità troppo mostrata per essere vera. Le stoviglie sono state lavate e riposte, tutto adesso è nell’ordine costituito; la porta sul giardino è ben chiusa e salgono i gradini di una scala che, gradino di granito dopo granito di gradino, li porta a quello spettacolo televisivo che li attende: quando in simbiosi, quando ognuno per sé.
Litigano, scherzando e sorridendo, il possesso del telecomando che, verga di potere, sembra lanciare segnali rosso fuoco. Corrono i canali in quella ricerca estemporanea di qualcosa di interessante: ora un telegiornale, ora una soubrette a fingere di recitare, ora la smorfia fintamente irata di un politico ad avercela con qualcuno; il tutto saltando a piè pari quelle stupide pubblicità delle quali nessuna di senso compiuto.
Immagini fugaci a scorrere indifferenti all’indifferenza che le accoglie. Si passa così al satellite. Si alterna il tedesco all’inglese, lo spagnolo al francese mentre la ricerca continua e corre veloce, poi, lei: -… torna indietro un attimo …- fa tra lo stupito e l’incuriosito. Lui esegue travolto dall’apatia di quella ricerca e la scena è lì, di nuovo, forte, esplicita, nuda del nudo integrale dei due corpi avvinghiati.
Si guardano per un attimo fugace: -… cambia …- fa lei nel mentre che la lingua le passa sulle labbra rosso fuoco come le guance che ne tradiscono l’imbarazzo. Esegue di nuovo come un automa, ma poi ritorna di nuovo sui propri tasti, alza il volume ed insieme ascoltano i gemiti, i sospiri, le parole che, senza veli e nude, colpiscono ben più di ogni singolo frame. Il telecomando gli scivola dalle mani e cadendo segna il gong di un incontro: “ SESSO! Perdio!” pensano entrambi ed all’unisono.
Si vedono! Lei inumidisce le labbra tradendo una sensazione profonda che lungi dal metterla a disagio diffonde feromoni improvvisamente impazziti; dal suo canto lui mostra evidenti gli effetti che la lingua della compagna, più che le immagini ed i suoni, ha fatto esplodere sotto la tuta. Gli occhi si cercano come quelle mani a correre l’una verso l’altra, come quella coscia che spunta dalla vestaglia, come quel membro che urla la propria fame, come le lingue affamate che finalmente si trovano.
Lui sorseggia il tè che lei gli ha preparato; lei scopre le gambe invitandolo al tocco; lui sposta le sue mutandine velate; lei gli offre le cosce adesso scoperte; si avvicinano con la sicurezza, entrambi, del cacciatore prossimo alla preda. Si bramano di un intenso volere, si trovano sempre più assetati l’uno dell’altra, presi da quei corpi che si scoprono, da quei sessi che si offrono; da quell’essersi trovati dopo anni luce di vita raccontata da un lontano viciniore.
Lui spinge il tatto sul serico monte; lei, padrona decisa a comandare si china a suggere e a dare piacere; lui, novello indiana, esplora il suo umido sentire al di sotto di un intimo impudico; lei impugna, stringe dell’altro, il desiderio impennato; lui trova il gioiello nascosto: lo titilla, lo sfiora, lo stringe facendola gemere, lei si inarca riprendendo a succhiare mentre uno dopo l’altro indumenti cadono afflitti precipitando dall’alto di quei corpi in corsa verso il cielo.
Ed è istinto, puro, semplice, animale! Sono odori profumi che, atmosfere spontanee, si confondono con quelli della legna nel fuoco il cui ardere è poca cosa rispetto al calor bianco di una passione fin lì sottaciuta e stanca. Sono brividi dal profondo, carezze sensualmente gentili e violente, delicate e profonde, peccaminose e celestiali. Sono messaggi in una lingua che entrambi sembravano aver dimenticato: è l’amore fisico a ritrovar quello trascendente del cuore e con lui di nuovo si fonde.
Un capezzolo appuntito teso adesso marchia a fuoco il petto villoso, lei agita la propria frenetica vellutata bagnata voglia che ha avvolto, aderendovi, la lancia rosso carminio. I movimenti sono in sincrono come i respiri, come le lingue che si ricorrono: lo sfregarsi pelle a pelle, il sesso a sesso, piacere nel piacere, brivido dopo brivido, sguardo dopo sguardo. -… leccami …- le dice in un afflato voglioso e lei gli rende il gesto animale di quel gusto ancestrale: palpitano e fremono insieme!
I movimenti accelerano; i gemiti si sommano. -…voglio la tua voglia, adesso! dentro di me, calda, prepotente, ora …- si racconta lei nel suo pretendere tutto. -… eccomi …- le risponde ansimando – sono tuo adesso, accoglimi!- Arrivano quali disperati viandanti ad essersi finalmente ritrovati in una notte di tregenda. Lei vibra i seni turgidi e tesi di piacere allo zenit, lui le esplode dentro vergando nell’attimo l’ossimoro di un possedere posseduto; ansimano entrambi: pelle a godere di pelle!
Sono l’uno sull’altro dolcemente a coccolarsi: corpi ad aver goduto, sensi ad aver amato; anime ad essersi ritrovate. Lei profuma d’amore nella naturale propria spontaneità; lui la guarda come godendo di un sogno che si è avverato; lei ne carezza il viso, mentre lui, le sfiora delicatamente il sesso giungendo di nuovo al suo agognato input del piacere; lei lo lascia fare blandendo, ora, un desiderio che non tarda a riproporsi; si guardano ancora ed ancora mentre tutto ricomincia.
E’ ora il minuetto della poesia di un amore; il colore condiviso della voglia per la voglia; il prendere e donare di una intimità fuori dai luoghi e dal tempo: naturale come l’essere femmina di un maschio ed uomo di una donna; è l’afflato corale delle anime ammaliate l’una dell’altra; è quell’esplosione sensuale che non si può raccontare se non si è vissuta; è quel “essere” che non ha bisogno di apparire per palesarsi da un semplice sguardo, da un cenno d’intesa, da un ti voglio bene …
che fa di un concetto l’essenza di un amore vero, totale, unico!
Ti ho voluto di Carla Bisogno
Ti ho voluto come sangue nelle vene
Come rossa arancia di sera
Sulle panchine di ferro dei giardini di ieri
Ti ho voluto sulla sabbia che scotta
Distesi all’ombra di pomeriggi pigri
Le bocche come mezze mele
E cubetti di ghiaccio sulla schiena
Ti ho voluto tra le mani i miei fianchi tesi
E sulle cosce nude arrotolavi il jeans
Per entrare in mare
Io ero l’ onda che ti lambiva
Mentre tu venivi gocce di miele sulle mie labbra, dolce come il vino ti offrivi e
Io ti volevo
Montagne russe di Mimmo Reale
È divino viaggiare e percorrere
le tue curve senza freni.
E poi!
A rotta di collo nei tornanti sostare
e mirare il panorama.
Sull’umido attaccato ai parapetti
quante scivolate in salita.
È divino sul rettilineo accellerare e
in dirittura d’arrivo un boato plateale…..
Taxi di Carla Bisogno
Lui torna stasera, volo sotto la doccia,
L’acqua calda mi scende sul corpo,
Sui capelli mi forma rivoli che cadono sugli occhi. Mi asciugo bene, il phon che passo sui capelli a più riprese lo lascio passare anche sulla pelle. Mi spalmo di crema profumata, passo su tutti i punti, insistendo su alcuni.
Mi vesto: passo in rassegna le camicie, le gonne, gli abiti. Poi indosso un vestito nero, attillato con una lunga zip sulla schiena. È corto il tanto che basta a mostrare le ginocchia e le gambe nelle calze nere, le décolleté col tacco completano e per finire una pochette di vernice. Mi spazzolo i capelli e mi trucco gli occhi, un filo di rimmel e una bocca sfrontata, rosso lacca. Uno sguardo allo specchio mi rimanda una me intrigante, ma casta. Chiamo un taxi, ho l’auto in panne, andiamo in aeroporto, chiedo al tassista che mi guarda le gambe mentre entro in auto. Continua a guardarmi dallo specchietto, stavolta butta l’occhio sulla scollatura. Distolgo lo sguardo e mentre penso arriviamo. Lui è già sul marciapiede, faccio un cenno ed entra in auto. Porta una ventata fredda e sedendosi mi attira a se con un bacio rapido. Gli prendo la mano e me la porto sul seno. Lui un po’ in imbarazzo si ritrae. Il tassista ci guarda dallo specchio ancora. Ho come un attimo mi alzo il vestito e mi siedo su di lui , mi dondolo sulle sue gambe e libero il seno sulla sua faccia. Ansimiamo strusciando sul sedile, dallo specchio il tassista ha la faccia viola, si morde il labbro. Guida fino a casa e infine dice: Arrivati.
Frammenti di Maria Ester Mastrogiovanni
non canto l’ebbrezza
di corpi incandescenti
che brucia il respiro
nell’onda del desiderio
corpi sospesi senza peso
nell’intreccio caldo di odore e sapore di pelle
parla una lingua priva di parole la lingua
morbida si muove
nel tempo di un pensiero assente
avida scivola dentro e fuori i confini dell’altro
canto l’inciampo di sincronie mancate
di corpi ribelli a se stessi
colpiti negati repressi
di chi vive una vita a metà
mai ascolta il proprio respiro
ogni fremito chiude
nella gabbia di un sogno
immaginato sognato desiderato
e fugge alla realtà dell’incontro
e non si espone nella sua tenera fragilità
canto il tradimento di corpi traditi
—————————————————————————————————————–
il mio corpo si è fatto mani
morbido e impetuoso
scivola su di te
apro gli occhi
sei qui
sei tu
chiudo gli occhi
sei tu
sei il sogno del mio desiderio
esploro le tue labbra
giocosa curioso dentro e fuori
mi abbandono alle tue mani
che mi prendono imperiose
toccano ovunque
chiudo gli occhi e li riapro
sogno e realtà
il tuo respiro nel mio
sorride al calore del nostro sudore
sorrido all’impatto del tuo desiderio
come acqua mi apro
ti accolgo mi sciolgo mi perdo
nelle mie profondità
piccole onde si allargano
sono i cerchi del nostro danzare
lieve effimero potente
L’estasi blasfema di Marina Neri
Nuda. Senza vergogna, senza ritegno e contegno, senza pudore alcuno. Nel sole. Nessuna penombra a celare, a custodire timidezze, a proteggere la pelle dallo sguardo.
Il pulviscolo giocava davanti a lei, si posava dorato su ogni tratto di sentiero di corpo, su quella patina di sudore che non era calore, era attesa, era lo spasmo di chi anelava un tocco eppure non osava chiedere sapendo che a breve avrebbe preteso.
Nuda. Non un braccio o una mano a velare gli emblemi della sua femminilità.
Le statue, i dipinti del passato, erano soffusi di un erotismo spaventato, o forse, di un erotismo esasperato da un non vedo che vuole vedere, indagare, entrare, scoprire, offrire e nutrirsi al contempo.
Eppure le sue braccia erano languide lungo il corpo. Non aveva da opporre resistenze, non voleva esibire un virgineo ritegno che non provava.
Nuda. Aveva fame e voleva saziarsi. La fame dei millenni, dei secoli che la vollero succube e invece delle tenebre , dentro quel sole rinasceva Lilith.
Nuda. Senza il velo della riservatezza, senza il manto della purezza, senza la coltre della convenienza, senza l’oscurità dell’obbedienza.
Nuda. Seno e pube esposti, impavidi guerrieri di una tenzone antica, senza remore, senza regole, vogliosi e anarchici, irredenti mai pentiti a subire la pena per il solo orgoglio di essere, di volere.
Nuda…Poi lui le fu vicino, spalanco’ le braccia e nel sole di un meriggio l’ urlo beato di Lilith riscatto’ l’apatìa dell’Olimpo.
Dalla finestra di Tashi
Abito in corso Vittorio Emanuele da quando sono nato, osservo il mondo in movimento dalla mia finestra da sempre.
Il cielo è azzurro stamane, l’aria è persino tiepida, non sembra gennaio.
Dalla mia finestra osservo il mondo e la vita mi scorre davanti come un film già visto: bambini varcano il portone per andare a scuola, uomini e donne in procinto di andare al lavoro, qualche ambulante che spera di vendere porta a porta, strade affollate di auto e mezzi, traffico perenne. Tutto uguale ogni giorno.
Sorseggio il mio caffè, a occhi chiusi mi godo quel timido raggio di sole che in pieno viso preannuncia sereno. Basta a rendere felice la vita di un ozioso anziano che spera di trovare un buon motivo anche oggi per riempire giorni sempre uguali.
Una volta ero anche io tra quelli che si affrettavano, sempre di corsa e mai in tempo per andare chissà dove. Oggi sono fermo e penso di avere sprecato tutto quel tempo senza mai guardarmi davvero intorno, così cerco di recuperare il tempo perduto.
Guardo il palazzo di fronte, l’architettura, lo stile pulito, persino anonimo con quelle finestre tutte uguali e sempre chiuse. Chissà se in quelle case abitano persone felici. Me lo chiedo sempre.
L’ambulante è ancora in attesa, ha suonato ai citofoni ma sembra che nessuno abbia voglia di aprire. Il mio caffè è quasi finito e sto per andare via quando al secondo piano si aprono le imposte. Incuriosito indugio e, come una visione, all’improvviso, appare lei.
Una donna di servizio, in grembiule grigio, ha aperto le imposte per far entrare l’aria fresca del mattino ma le ha richiuse immediatamente. Forse è stata lei.
Osservo ancora e la vedo bene. Ferma in piedi dietro ai vetri, avvolta in un candido accappatoio. È giovane, non riesco a capire l’età, ha l’aria malinconica, chissà perché. Non sembra rivolgere lo sguardo in nessuna direzione, sembra persa in chissà quale pensiero.
Indugia poco e poi alza lo sguardo. Mi ritraggo. Non vorrei che pensasse a un vecchio sporcaccione e guardone. Forse non mi ha visto, sospiro con sollievo ma non vado via.
Mi sistemo meglio dietro la tenda, voglio mimetizzarmi perché quella donna mi attrae, non l’ho mai vista nemmeno in giro a passeggio. Sono curioso, voglio scoprire qualcosa ma non so nemmeno io cosa.
E mentre sto lì a indugiare nei miei pensieri accade una cosa inaspettata.
Languida e sensuale si siede sul bordo del letto ancora disfatto, si intravedono coperte candide ma il letto disfatto lascia intuire di sonni non proprio tranquilli.
È ancora seduta, è ferma, è immobile quando lascia scivolare il soffice accappatoio che le scopre le spalle. Solleva i lunghi capelli che aveva disciolti e li porta su, li avvolge sapientemente con le sue mani affusolate e candide e li ferma con una forcina avvolgendoli in una morbida crocchia. E allora che appare la schiena nuda, perfetta, sensuale, bianca.
Rimango ammaliato. Fermo come una statua trattengo il respiro mentre sento il mio corpo scosso da un fremito che mi percorre la schiena fino ad arrivare violento giù nelle viscere. Mio Dio, da quanto tempo non accadeva! Avevo persino dimenticato di essere vivo.
Nascosto dietro al tendaggio ho quasi timore di essere visto e che la magia finisca.
Ma lei è ancora lì, con quelle spalle perfette e nude, si spalma una crema. Le mani percorrono il corpo, le immagino sui seni sodi, sul ventre piatto sulle gambe tornite.
Sono tutto un sussulto.
Trascorre qualche minuto, sembra sempre persa nei suoi pensieri. Poi si alza, si avvolge nel suo accappatoio ed esce dalla camera. Qualche istante dopo rientra la donna che si occupa della casa e apre le imposte chiuse imperiosamente prima e comincia a sfaccendare.
L’incanto è finito ed io sono scosso. Non riesco a non pensare a quella immagine paradisiaca, mi sembra di sentire l’odore della sua pelle di seta, le mie mani percorrono il suo corpo perfetto ne disegnano le curve con le dita, il mio viso affonda nei suoi capelli di seta, le mie braccia le cingono le spalle e la avvolgono fino a stenderla sul letto per abbandonarsi all’amore. Tutto il giorno a fantasticare, non riesco a smettere di pensare a lei. Da quanto tempo abita lì? Dove sarà adesso? Cosa starà facendo?
E non so nemmeno chi sia.
Ho provato a chiedere ma non voglio destare curiosità o sospetti. Mi sono limitato a indagare in modo innocente.
Per tutto il giorno sono vivo dentro come non lo ero da tempo. Per tutto il giorno saltello da una stanza all’altra e, di tanto in tanto, faccio capolino nello studio. Spero di vederla ma le imposte restano chiuse.
Mi sento un liceale alla prima cotta. Sono persino felice ma per cosa poi?
Ho amato mia moglie per tutta la vita, quando se n’è andata avrei voluto morire. La mia vita si era fermata e lei, la sconosciuta dai lunghi capelli, all’improvviso una mattina di gennaio mi ha riportato in vita. Dovrei sentirmi in colpa e invece non è così. Perché?
Vado a dormire ma il mio sonno è agitato, non trovo pace. Mi alzo di buon’ora e spero che il miracolo si ripeta.
E accade. Puntuale.
È stato così che è cominciato tutto.
Il nostro rituale del mattino. Io la guardo e lei si lascia guardare.
Ormai so che lei sa e ne sono compiaciuto. Lo sapeva anche quella mattina quando ci siamo incontrati per la prima volta.
Si siede tutti i giorni sul letto disfatto, lascia che il suo corpo resti scoperto per offrirlo a me spettatore privilegiato, spettatore non pagante che da quella finestra non consuma ma gode tutta la bellezza di quel corpo perfetto.
E lei lo offre in tutto il suo candore, si lascia accarezzare da quegli occhi che bramano carne, si lascia accarezzare da quello sguardo che vorrebbe altro da lei.
Quei pochi minuti cancellano i segni di una notte dove c’è stato tutto tranne l’amore, cancellano quelle mani avide che hanno percorso un corpo alla ricerca del piacere, che lo hanno preso ma non ne hanno dato.
E quella scoperta è stata un pugno in pieno viso. Perché?
La tristezza nei suoi occhi, ora so.
Ci siamo incontrati ieri. Indossavi un cappotto rosso, rosso come la vita che ti esplode dentro e nemmeno lo sai, rosso come le giornate che hai colorato nella mia grigia vita. Non lo saprai mai, mi hai reso felice, dopo tanto. Sei stata la vita vera quando ormai la parabola è discesa, tu, prorompente e generosa.
Ci siamo guardati e mi hai sorriso. I miei occhi hanno urlato “mai più”!
So che quello è stato un addio, da domani quella finestra non si aprirà più.
La mia psicologa di Margherita
La mia psicologa è donna.
Donna, lei è donna, e in una parola, per chi va oltre l’aspetto fisico, sia maschio che femmina, può capire quale immagine io racchiuda con questa parola “donna”!
Sempre elegante nei suoi look sportivi, casual fino a quelli ricercati sotto ai suoi cappelli ombreggianti.
Aspetto il tempo in cui potrò portarla con me in moto.
L’immagine con un jeans stretto, scarpe da ginnastica bianche e una t-shirt scollo a V bianca, mentre, non si vede, un reggiseno con pizzo colorato, direi bordeaux e slip accompagnati; niente cintura, niente orologio, un bracciale etnico al polso sinistro, la fede all’anulare sinistro e un anello vistoso color oro al dito medio della mano destra; ovviamente, un casco aperto in cui incastrare i suoi vistosi occhiali da sole. Alle mie spalle a cavallo della mia moto sarà costretta a sfiorarmi con una qualsiasi parte del suo corpo.
Lei è “donna” da quando apre la porta secondaria del suo studio dicendoti “Ciao Margherita”, aspetta che tu la segua e ti metta comoda sul divanetto accanto al cuscino di Frida Kahlo e dopo uno sguardo approfondito e un mezzo sorriso accennato per metterti a tuo agio dice “come sta Margherita?”
In quel momento capisci che ci siete solo tu e lei e da lì sarà difficile scappare perché con la sua professionalità, calma, dialettica, eleganza mentale ti caverà l’anima e tu glielo lascerai fare e alla fine le dirai anche “grazie”!
La mia psicologa è bella in quel vestito, di cui non ricordo la fantasia, perché ricordo il tono della sua carnagione abbronzata dopo le vacanze estive. Il vestito lascia scoperto il décolleté quel tanto da lasciarti solo immaginare la forma del seno, più giù, segna fianchi più stretti fino a mostrare gambe affusolate, a modo, accavallate su scarpe preferibilmente con tacco alto.
La mia psicologa mi piace ancora di più quando indossa i suoi jeans attillati nei quali si muove a suo agio tanto che, di fronte alle mie infinite iperboli mentali non nasconde la sua insofferenza e si lascia andare in quel movimento di allargare e sollevare la gamba e infilare il piede sotto il sedere.
Quando sono a casa mia – come in questo momento – e l’istantanea di quel gesto mi si stampa davanti agli occhi, allora, lo immagino il film in cui mi alzo dal mio divanetto e mi avvicino a lei.
Sono in ginocchio tra i suoi jeans, appoggio qualche secondo la mia testa sul seno mentre le sue mani sulle mie spalle cercano con pochissima forza di tenermi a distanza, allora continuo, la bacio dolcemente a lungo sul collo e finalmente posso prendere il viso tra le mani e baciarla come tante, tante tante volte ho immaginato nella mia solitudine di giorno, al lavoro, in macchina, camminando sui ciottoli che lei stessa percorre rimandando il suono dei suoi tacchi sotto i portici. E per un momento non sono solo io a baciarla, anche le sue labbra si allontanano, la lingua incontra la mia e inizia un balletto.
Poi apro gli occhi.
Questo non succederà mai e noi continueremo a dirci che si tratta di un meccanismo psicologico comunissimo in quasi tutti i rapporti tra paziente e psicologo, sulla base e misura di quanto vissuto da tutti noi pazienti che ci approcciamo a cotanta professionalità e con fiducia affidiamo noi stessi alla “mia psicologa”.
Somigliavi all’amore di Armando Nocera
Somigliavi all’Amore
per questo ti accarezzavo di parole
Ti guardavo
con gli occhi di un bambino
e mi sbagliavo
Era un desiderio strano
il mio di averti
così diverso, così nuovo
e mi stupivo
Bramavo la tua anima
la tua pazienza
la tua assenza
la tua presenza
silente e incessante
Del tuo corpo e poi
dei tuoi baci
iniziai a non poter fare a meno
dalla notte che in sogno ti ho avuta
ti ho sentita
ti ho assaggiata
Ci trovammo non so come
addosso
carne e pelle insieme
io a scavarti il piacere
tu a succhiarmi l’anima
La tua bocca
bruciava le mie labbra
le mie mani
ardevano i tuoi seni
ed eri così bella
finalmente senza freni
così nuda
vestita solo di passione
e Dio, Dio se tremavi
ad ogni tocco
ad ogni scatto
ad ogni volta
Ma al mio risveglio
già te n’eri andata
Grandi labbra di Pilar
Spesso di notte ti penso, quel momento della giornata che non abbiamo avuto modo di trascorrere insieme, strette l’una all’altra per la gioia del risveglio.
Sono sola e i due vestiti che indosso scivolano via per lasciare posto al ricordo del tuo calore che piano si sta dissipando.
Ma la voglia di te è sempre tanta ogni volta che ti penso e anche quando non ti penso!
Mi aiutano le foto che mi inviavi durante le nostre chat a distanza per giocare all’ amore…
Mi basta richiudere gli occhi e ogni parte del mio corpo ricorda cosa sapevi suscitarmi.
Dai “tuoi baci” come li respiravo io, dai tuoi baci con la lingua che lasciavano traccia di brivido sul collo, sui miei seni e capezzoli che al tuo arrivo manifestavano il piacere di trovarsi tra le tue labbra … sulla schiena la lingua lasciava un leggero velo di bagnato che con l’aria fresca della camera da letto mi faceva venire la pelle d’oca. A quel punto a tradimento cominciavi a mordicchiarmi perchè il piacere che provavo non mi portasse troppo lontano da te. La lingua non si era mossa a caso fino a quel momento perché aveva disegnato il tragitto che l’avrebbe portata tra le mie gambe, sulle mie grandi labbra.
E tu amore mio, anche queste sono parole che non ho mai potuto dirti, sapevi farmi sentire la donna più sensuale del modo senza mai sentirmi usata.
Potevo permettermi di pensare, fantasticare, sognare, camminare, volare, osare fuori dagli schemi quegli schemi che erano la vera me stessa e che erano l’unica essenza di noi insieme.
Piangere non era più piangere
Sorridere non era sorridere
Poterti amare era l’occasione della felicità.
Senza Titolo di Gianfranco Brevetto
Da tempo ho intrapreso,
Ad occhi chiusi,
Un lungo viaggio sul tuo pianeta.
La tua geografia verticale,
Sottile, allungata.
Mi affanno, spesso, nel risalire
La sinuosità delle vertebre,
A stento riposo
Dove le costole allineate
Annunciano i seni.
Sono partito dai tuoi piedi,
Seguendo la rotta decisa
E tendinea delle caviglie.
Amo immergermi
Nell’oscurità rassicurante
Dei tuoi spazi.
La tendenza infinita
delle tue trigonometrie,
L’eclissi parziali del volto,
La saturazione
Dei silenzi,
Schiocchi muti,
Gesti disegnati,
Il sottofondo cartaceo
Delle lenzuola.
Ogni rumore esterno è lontano,
Come eterna è ogni lontananza.
Il passare delle auto,
Un immotivato abbaiare,
Un presente indifferente,
Un testamento senza più eredi,
In questo viaggio,
come vedi,
Dimenticammo il bagaglio.
E la sorte
Ci ha resi nudi.
Togli le scarpe e metti il cappotto
Nell’armadio, poi ti avvicini
Sono stesa sul divano, la tua mano mi sfiora il viso, scende lungo la gola e si insinua tra i seni. Si accende il desiderio , ci aggrovigliamo furiosi, sul pavimento . Riverso la testa all’indietro, il piacere fluisce piano , esausta finisco sul tuo petto. Poi usciamo , camminiamo vicini , senza toccarci.
Guardo le vetrine, tu ti fermi in libreria.
Prendo dei narcisi gialli e due paste per dopocena. Ceniamo in silenzio, rumore di stoviglie, l’acqua che scende dal rubinetto.
Ci sono le paste, ripiene di crema.
Ne mordo una e vien fuori un ricciolo di crema gialla che mi sporca le labbra. Ti avvicini con la lingua lecchi avido e mi mordi le labbra.
In un attimo mi ritrovo nelle tue braccia, impetuoso.
Al bar di Carla Bisogno
Seduto al bar perso nelle notizie del giornale, alza lo sguardo, quasi senza vedere, senza guardare nulla di particolare. Apre la porta decisa, ha una gonna scura lunga, cammina e lascia vedere le gambe nude nelle sneakers.
Si siede ad un tavolo e si libera della giacca, indossa una camicia abbottonata a metà. Si piega e poggia lo zaino ai suoi piedi, in questo gesto mostra il seno nudo e generoso. Lui non le stacca gli occhi di dosso e dal suo posto segue i suoi movimenti. La linea del suo profilo, i capelli mossi sul collo, gli occhi socchiusi e la bocca morbida, bugiarda. Si , lui la trova bugiarda, la bocca di quelle che ti amano, ma non fino in fondo. Quelle che ti promettono, ma poi ti lasciano, nei guai. Quelle che ti fanno l’amore come nessuna , che la notte ti cercano al telefono per vederti, che si danno fino a farti impazzire, ma poi un bel mattino non le trovi più. Sparita in una nuvola di fumo, nei rumori del bar, tra il profumo del caffè.
30 marzo di Sebastian Abriani
Sì bene, sì !
Vediamoci venerdì !
Quel profumo, Lulu, quello che sai solo tu!
Porta la rosa, la seta vera. È primavera.
Oh rosa cara, Musa severa!
<>.
<>.
Noiosa canzone …
Nere le calze, esibite scostando appena la sedia.
Carezze, carezze come vuoi tu.
Al bosco di pietra, Palazzi antichi,
mi sono perduto folle di te!
Fioca la luce, scala di marmo,
la porta scura, noce fumè!
Visioni importanti,
cuscini ogni dove, tappeti di Persia
broccato, raso, seta.
Gran festa per me!
Legna ardente Mi brucia dentro.
Butti il cappello.
La giacca di pelle,
la gonna leggera scivola via …
il reggicalze,
camicia, tinta crema caffè.
Perle di fiume, neri capelli,
la seta ti fascia, che chiccheria!…
Il profumo ti veste, Soltanto per me.
Occhi verdi Scavano l’anima,
vogliono tutto, e tu lo hai!
Mordi l’orecchio
Carezze, carezze, carezze, carezze,
un oceano infinito di tenerezze.
Capezzoli bruni, caldo il tuo seno,
cespuglio d’amore profuma di te.
Ambra la pelle, sincero il tuo dire,
miagoli come gatta in amore.
Stretta tra i denti La preda per te.
Scavala dentro, mio senso incantato,
perduto nel bosco della follia.
………………………………
Cenci poggiati sul pavimento
Vivono solo portati da te.
Voglia di vita contro la morte,
voglio il tuo corpo, la tua eternità.
Nei tuoi occhi di Bastian Abriani
Nei tuoi occhi leggo il tempo
che d’amore s’è consumato .
Vedo la felicità raggiunta
del meraviglioso donarsi .
Nei tuoi occhi luccicano le stelle
come lucciole in notte estiva .
Ti carezzo un poco , canta dolce
il mondo della notte , nei tuoi occhi.
Ultim’ora di Carla Bisogno
Stasera mi spettini i pensieri,
Passeggi scalzo sulle mie spalle nude
Indifese , mi scivoli su ogni centimetro di pelle
Ti sento indugiare sulla dolce collina del mio ventre, ti riempi le mani dei miei seni turgidi
Snoccioli con i denti le ciliegie che sono i miei
Duri capezzoli, te ne riempi la bocca calda
Poi in discesa libera pettini il cespuglio arruffato e ti fiondi nel nido sicuro.
Ti muovi lentamente e con pazienza ondeggi
Piano, fino a sentire sciogliersi il fluido dell’intimo piacere.Ti imploro di continuare, di non fermarti ma tu rallenti ti fermi ad afferrarmi per i capelli, mi succhi il solco del collo, prima e poi mi mordi il lobo dell’orecchio. Ancora voglio sentirti e te lo chiedo languente, non lasciarmi adesso
Mentre sei nella tua estasi.
Respiro di Batin
Se i ricordi potessero trasformarsi in oggetti Anna sarebbe un masso di tufo, forse con la forma del mio cazzo, ma la roccia sarebbe lei, con tutti quei buchi, con quelle irregolarità e ruvidità che sono bandite dalla nobiltà dei marmi e delle pietre pregiate, eppure duraturo, molto duraturo, forse eterno, considerando che le necropoli di tufo sono resistite ai disastri di millenni e sono ancora qua, come il mio pensiero di Anna. Uscito dal centro, mi lasciai sballottare dalle curve per Bassovizza, ma non avevo il turno, le diedi appuntamento al bar di fronte al centro Elettra, il sincrotrone, sono un fisico delle particelle e non scopo da oltre 20 anni.
Anna capitò in città una settimana prima, catapultata in Italia dal suo antro americano in Florida, per una serie di convegni su Oscar Kokoschka, si fece sentire due giorni dopo, precisa, pragmatica, intellettualmente onesta, doti che unite assieme diventavano un’arma terribile che non lasciava scampo. Al semaforo pensavo alle sue grandi tette. Cazzo quanto erano belle le sue tette. Sarà stata una quinta, che si espandeva sul suo corpo come una spedizione di conquista, sembrava uscire luce da quei seni, me la ricordo sdraiata, proprio in un bosco qui vicino, nell’estate del 2000, e le sue tette mi dominavano ancora prima di essere nude. Era la notte della laurea di Ester, la grande amica di Anna, una bellissima bionda slovena dalle gambe teutoniche, evocanti il dio del sesso. Eravamo felici per lei e festeggiammo a modo nostro, scopando nel bosco. Seguivo con le dita le curve di Anna, le afferrai la coscia destra, come fossi una specie di Giacobbe e salì su, fino all’inguine, iniziando a roteare con la mano attorno alla sua fica. La carezza sul corpo di una donna è una cosa strana, non può essere formalizzata, non possiamo trarne assiomi, in quel momento, mentre Anna si lasciava esplorare dalle mie dita poteva anche rompersi i coglioni di questo puerile tentativo di raffinatezza carnale. Se qualcuno avesse preso nota dei miei movimenti per scriverne un saggio sulla carezza probabilmente si sarebbe reso ridicolo di fronte a tutte le donne del mondo. Le piaceva? Sono un fisico, non ne ebbi mai la prova, ma penso di si. Perché era una questione di ritmo, di armonizzare il mio respiro con il suo, ad una pressione del mio medio corrispondeva il mio inspirare, quella pressione aveva un effetto ed il respiro di Anna lo mostrava, almeno quello, la donna non può nascondere il respiro, tutto, ma non il respiro ed il respiro dice moltissimo, è come un codice morse, il respiro è significato puro, per molti è solo significante. Il verde era scattato da un po’, ma non me ne accorsi, le auto dietro suonavano impazzite, eppure non me ne accorsi, non era il 2000, non era notte e non ero in quel bosco. Tornò il rosso e il tizio dell’auto dietro scese per avvicinarsi con fare minaccioso. Io semplicemente non avevo voglia di essere distratto dal mio ricordo, si avvicinò questo tizio, basso, viso unto, vestito con una ridicola giacca da manager ma sembrava un pagliaccio da circo. L’idea di riempirlo di botte, proprio perché avevo torto, stuzzicava il lato infernale che da sempre mi abita, lo stesso che s’impadroniva di me quando stavo con Anna, lo stesso che la spingeva all’estremo verso le cose più assurde, ma non volevo pause troppo lunghe nel mio film mentale, quindi chiesi umilmente scusa e mentalmente lo mandai al diavolo. Scattò il verde e partii quasi sgommando, per poi frenare all’ennesima curva, mentre vedevo le mie mani sulla sua pancia e poi fino a quei bellissimi seni, mentre spingevo il mio corpo verso il suo bacino, per esserne totalmente risucchiato. Sentivo il mio respiro come riflesso nel suo, due metronomi sincronizzati che in quel momento si moltiplicavano, in 10, 100, 1000 metronomi, come nel concerto di György Ligeti. La mia bocca plasmava avidamente quel collo, reso puro dall’assenza di capelli lunghi, lo costruivo fino all’altare delle labbra, che circumnavigavo come un marinaio in cerca della balena bianca. E mentre i vestiti si sbucciavano quasi da soli, come scorze di civiltà, sentivamo una brezza fredda ed eccitante sulla nostra pelle.
Passai proprio davanti alla casa di Ester, di nuovo in vendita, era la seconda casa di Anna, dove si rifugiava dopo le nostre litigate, dopo che io con i miei esperimenti mentali di coppia l’avevo stremata, io non vi ebbi mai accesso, non potevo nemmeno sostarvi di fronte. Ester si che sapeva guarirla dalle ferite, da tutte le ferite. Trieste è una città per modo di dire, tutto sanno tutto di tutti, è un condominio, se pisci senza tirare lo sciacquone rischi che il sindaco ti redarguisca: “ho sentito che non tira lo sciacquone, non è una bella cosa sa, come fa a vivere con altra gente lei?”. E me lo chiedo anch’io, come faccio a vivere con gli altri? Mi sembra più facile intuire cosa possa avvenire dentro un buco nero piuttosto di capire come si vive con la gente. L’Elettra era ormai vicino, poco più di un km, rallentai per allungare i miei ricordi, quasi per poterli trattenere, per fermare il tempo senza schizzare verso il nulla alla velocità della luce. Fare l’amore con Anna quella notte fu tremendo e sublime insieme, mentre il mio sesso penetrava in lei mi disse che mi avrebbe lasciato. Non l’avrei mai permesso, armonizzando il ritmo del mio corpo con il suo cercai di alienarmi dalla situazione, per non finirla troppo presto, per renderla eterna. Aspiravo la sua saliva come la terra arsa assorbe la pioggia. Quando faccio all’amore mi sforzo di immaginare il volto della donna in situazioni diverse da quelle intime, al lavoro, dal meccanico, dal parrucchiere, vedevo il volto minuto di Anna, il suo profilo leggermente orientaleggiante, il taglio corto di capelli e asimmetrico che mi faceva andare fuori di testa come niente al mondo. I suoi occhi grandi e spalancati di fronte ad ogni occasione di seduzione possibile, fosse anche quella di convincere il proprio cane ad attraversare la strada. Lei era così, la sua esistenza era all’insegna della seduzione di tutto, affascinava la chimica organica, era sedotta da quella inorganica, ecco perché io ero perfetto per lei. O quasi. Con la voce consumata dal piacere e dallo sforzo fisico Anna ripetè la sua volontà di lasciarmi. Quella notte fu per me simile a quella di Giacobbe, quando lottò con l’angelo in Genesi. Fu una notte diversa, fu un sesso diverso, perché io, come il padre di Israele, cambiai il mio nome, lei me lo cambiò.
Quasi arrivato, vidi sulle rocce che costeggiano la strada una scritta fatta con la bomboletta spray. (∂+m)ψ=0. Era la fin troppo celebre equazione di Dirac, quella che dovrebbe spiegare quel bizzarro fenomeno quantistico dell’entaglement. E’ diventata famosa per la sua aurea mistico romantica, perché pare che dica che due particelle che sono state un tempo insieme terranno conto di questo stato iniziale per sempre. Ma è sbagliato. La formula è sbagliata. E’ sbagliato proprio formalizzare quello che sentono due esseri. E’ sbagliata l’eternità. Al massimo quella formula potrebbe riguardare il mio cazzo e la fica di Anna, anche se non possiamo considerare né l’uno e nemmeno l’altra degli oggetti microscopici. E’ sbagliata perché basta un’interazione con un qualsiasi altro oggetto e puff, svanisce tutto il bel sogno di eternità. Sono un fisico. Anna lo sapeva, come sapeva che io l’avevo tradita proprio con la sua migliore amica, e non per amore, per desiderio incontrollabile, ma per uno dei miei fottutissimi esperimenti mentali. Ester, che soffriva da sempre di depressione ed era innamorata in maniera disperata di Anna si tolse la vita il 10 novembre di quell’anno. Anna ed io ci eravamo lasciati due mesi prima. Da allora non ci siamo più visti, da più di vent’anni. Ero arrivato, sia all’Elettra, sia al bar. Guardai dentro il bar attraverso la porta a vetri e vidi solo una figura con un cappotto e cappuccio. Mi arrivò un sms: “Il tuo nome resterà sempre Ignobile, però avevi un gran cazzo, addio”.
Ti amo di Armando
Non è quanto si ama ma come ad essere più importante.
Tutto ciò che è quantificabile è destinato a consumarsi e, di conseguenza, a diminuire di volume, peso e forma.
Neppure l’amore si sottrae a questa regola.
L’amore non può e non deve essere mai qualcosa di costruito di ” per forza” ma qualcosa che sorge spontanea ed inevitabile come un filo d’erba nel cemento. Quanlcosa di “non possiamo farci niente”.
Frasi come ” ti amerò per sempre- ti amo da morire” non sono reali né accettabili ed il perchè è presto detto.
Il “per sempre” non esiste perchè è interrotto dalla morte.
Auguro Buon San Valentino dunque all’Amore, forza trainante del mondo in tutte le sue magnifiche contraddizioni: Gioia e dolore. Dono e privazione. Felicità e Malinconia.
Secondo me i versi dell’amore dovrebbero essere così:
TI AMO
Ti amo (amerò) fin quando esisto
fin quando gli occhi
sapranno parlare
fin quando ogni gesto
non avrà bisogno di parole
Ti amo
quando sei arrabbiata/o
e quando ridi
Quando mi cerchi
e quando te ne vai
quando mi manchi
Quando facciamo l’amore
e quando restiamo distesi
a guardare il cielo
Quando il mare
ci regala ancora emozioni
e quando corriamo
insieme sotto la pioggia
ridendo
Quando facciamo tardi
e non vediamo l’ora di arrivare
Ti amo
nello stesso istante
in cui ti penso
ed anche tu lo fai
e lo conferma un gesto
inaspettato
Ti amo
nell’attimo (im)perfetto
di un litigio
perchè precede la pace
sugellata con un bacio
un abbraccio
un semplice scusami
Ti amo
quando anche da soli
siamo insieme
Quando mi guardo allo specchio
e mi dico:
Ti amo
e non posso farci nulla
Quella sera di Carlo Ceremigna
Come tutte le sere, alle 18,30, finito il servizio da attendente presso la caserma in cui era militare, tornava a casa.
Da raccomandato faceva il militare vicino casa e dalla Cecchignola con due bus arrivava a casa dopo un’oretta.
Come tutte le sere, dopo il primo bus che lo portava alla stazione Termini, doveva trovare posto su quello che lo portava verso casa dove po aspettavano la fidanzata e gli amici oltreché mamma e papà.
Era sempre una lotta per riuscire ad entrare in quel bus che se perso sarebbe ripassato dopo un’ora.
Riuscì a salire con grande fatica.
Pieno zeppo era appena salito sul predellino della porta posteriore di entrata e si reggeva con la
Mano destra sul ferro curavo che reggeva l’asta posta per sorreggersi.
Ad un certo punto percepì sul dorso della mano un poggiarsi morbido.
Dapprima non ci fece caso. Poi quel morbido prendeva forma, si girò e dietro tre teste di ragazzi vide due occhi come la brace che lo puntavano in modo insistente ed allo stesso tempo sentí il morbido strusciarsi con più voluttà sul dorso della sua mano…
Era d’estate , la seta del vestito della signora che non avrebbe dovuto avere più 40/45 anni gli faceva sentire benissimo l’inguine che pulsava voglioso.
Piegò d’istinto il dito medio facendolo somigliare ad un dosso e percepì benissimo l’interruttore del piacere della signora passarci sopra ritmicamente. Si guardavano senza poter fare altro. D’un tratto il ritmo e la pressione sulla sua falange aumentarono e poi nulla…sentiva il calore umido avvolgergli la mano sentiva le pulsazioni dell’intimo altrui accoppiarsi con le sue……
All’improvviso la signora scese di colpo e svanì nel turbinio della folla …non la potè raggiungere e non la vide più, ma porta con se quegli sguardi e quelle sensazioni uniche che talvolta tornano prepotenti nella sua mente