Ma cosa vuoi che ti racconti?
Come si fa a raccontare un’emigrazione alla rovescia?
Va beh dai, ci provo, ma solo perché insisti.
Il giorno prima avevano tagliato l’albero, sì proprio l’albero, quello che mi forniva i rami per fare le frecce, nel cortile interno della mia casa a Milano.
Comunque cosa c’entra l’albero te lo spiego dopo.
Avevamo finito di impacchettare tutte le nostre cose e c’era un’atmosfera allegra, perchè avremmo ricominciato tutto, mamma e papà avrebbero lavorato insieme in una struttura per sordomuti a Padova, lei avrebbe aiutato le suore e lui avrebbe fatto il custode, una sorta di factotum.
E allora via, alle quattro del mattino, vestiti di tutto punto e in piedi davanti al lungo camion, un enorme “scatolone” che avrebbe contenuto la nostra casa per una notte.
Era il 1976, qualche giorno prima la terra aveva tremato all’ora di cena costringendoci a scappare di corsa all’aperto; avevamo lasciato le nostre bistecche fumanti sul piatto e il nostro gatto, dopo lo scampato pericolo, le aveva trangugiate sparendo fino al giorno successivo.
E finalmente eccoci qui con gli occhi sbarrati a guardare dall’alto questo mastodontico veicolo, questa Milano illuminata e stranamente semideserta.
Scorrono paralleli a noi i binari del tram, le montagnole di verde di Porta Vittoria che mi hanno visto distruggere la gloriosa Graziella a furia di salti e di acrobazie “cross”.
Poi un colpo al cuore, forte, il respiro si blocca, ne sento quasi il rumore che fa, “Pa-Tun”, il finestrino fa scorrere davanti a me la grande ruota delle giostre, le Varesine, il Luna Park che sorto sopra le rovine della vecchia stazione dei treni di Milano.
Ma le ruote girano inesorabili e mi portano verso la mia “nuova vita” incuranti della mia tristezza di bambino.
Nuovamente mi sovviene l’immagine dell’albero tagliato: non sarei mai più andato alle Varesine (che negli anni a venire lasceranno il posto ai futuristici grattacieli della Regione Lombardia), non avrei più giocato nella foresta di Piazzale Martini, dove con archi e fucili ad elastici combattevamo gloriosamente come Cavallo Pazzo contro le Giubbe Blu.
Anche il grande falò del sabato, che ci vedeva ballare e saltare mentre bruciavano le cassette vuote del mercato rionale, il fuoco che con un ritorno di fiamma si era portato via il volto di Filippo, ecco, tutto questo non ci sarebbe stato più.
Siamo già in autostrada e il nero mi inghiotte sulla cuccetta del camion, le luci ipnotiche dell’autostrada mi regalano alle braccia di Morfeo.
Arriviamo a Padova che è mattina presto, e in un’enorme stanza dell’asilo (delle suore appunto) stabiliamo la nostra nuova temporanea dimora, che per ora assomiglia più ad un serraglio di carovana che ad una dimora civile!
Non riesco a stare fermo e decido di iniziare il mio giro di perlustrazione.
Mi fermo attonito davanti ad una bruttissima chiesa e un’auto che sopraggiunge mi strombazza dietro rumorosamente togliendomi alle mie fantasticherie; ho undici anni (quasi dodici), ma gli dico: “Amico stai calmo, ora mi sposto”, lui per tutta risposta abbassa il finestrino e, avendo perfetta cognizione dell’accento con cui gli ho parlato, mi urla:
”Cavate da là, mona de un bocia teron …!” (Spostati da lì, stupido ragazzino terrone).
Io capisco l’idioma (i miei genitori sono di origine veneta), gli rido in faccia e penso “ma sto’ deficiente dice terrone a me che sono nato a Milano?”, poi gli urlo di rimando
“Terrone a me? Ma non vedi dove abiti?”.
Lui fa il gesto di aprire la portiera, ma io sono già almeno quattro lunghezze fuori dalla sua portata.
Torno verso i miei e vedendoli abbattuti domando: “Cosa c’è che non va?”.
Mia madre con calma, quasi piangendo, mi spiega che l’appartamento dove avremmo dovuto traslocare non è più disponibile, dicono che è una questione di soldi, pare che qualcuno abbia offerto più di noi.
Intanto continuiamo a vivere accampati con le suore, e i miei lavorano gratuitamente in cambio di vitto e alloggio.
Pochi giorni dopo una notizia ancora più ferale. Il lavoro promesso ai miei non sarà disponibile perché la fondazione che gestisce la struttura ha inserito una nuova clausola, il porto d’armi obbligatorio per il custode.
Mio padre non ha alcuna intenzione di farsi il porto d’armi e propone in alternativa un cane addestrato a guardia, ma sembra proprio che il ragioniere amministratore non ne voglia sapere:
“Ci vuole un custode armato per difendere le povere suore ed i ragazzi sordomuti da eventuali ladri o peggio ancora criminali che volessero assaltare la villa della fondazione.”
Si tratta di motivazioni assurde, e a posteriori sono certo che sotto sotto ci fossero ben altri interessi.
Ora sento di essere io quell’albero tagliato, e la mia linfa inizia a tingersi di rosso, provo molta rabbia e molto rancore. Oltre ad aver rinunciato ai miei giochi, mi sento un migrante, quando arrivo mi chiamano
“Eccolo lì, il milanese di merda!”.
Senza contare le due volte che a scuola e in oratorio (o patronato, come lo chiamano gli indigeni) vengo bloccato e perquisito dagli adulti perché pensano che io giri col coltello, e trovano solo il carica pipa del babbo nelle mie tasche.
Vedi, ti sto dicendo tutto questo perché credo davvero di capire i “veri migranti”, pieni di speranze e aspettative, delusi atrocemente appena sbarcano qui perché pensano di trovare l’America e il paese di Bengodi, e invece trovano un Paese impreparato all’accoglienza, dal quale cercano di fuggire al più presto, prima di cadere nello sfruttamento o, peggio, nella delinquenza organizzata.
Generalizzazioni a parte, mi fa una grande tristezza constatare che questo Paese una volta se la prendeva con gli emigranti del sud e ora se la prende con quelli stranieri.
Ecco, ti ho raccontato un pezzo di storia della mia vita, quella di un bambino-albero tagliato a undici anni (orgogliosamente dodici, come amava dire); i miei genitori mi hanno costretto a ritornare alle loro origini, ai loro luoghi natii, e io ci sono tornato da milanese terrone.
la foto è di Uliano Lucas, Emigranti, Photo Open Up, Padova
Tutto lo strazio di una infanzia sradicato, come la delusione di una realtà capace di cancellare qualsiasi piccolo ma indispensabile sogno racchiusi in questo racconto di ottima fattura. Grazie. Mi é piaciuto molto
Non ti conosco Armando ma GRAZIE per l’ottima fattura… Tiziano
Prego Tiziano…è davvero un racconto scritto molto bene. Complimenti
Un plauso alla tua profonda sensibilità, ed a uno dei tuoi straordinari talenti.
La scrittura.
Cinzia
Mi ha commosso la tua storia che, pur conoscendoti, ignoravo. Provo tenerezza per quel bambino la cui normalità è stata violata da un mondo che poco si accorge dei piccoli e certo non sa ascoltare i bisogni degli indifesi. Grande Benny!
Se quel tuo emigrare al contrario, se quell’albero tagliato della tua infanzia, se quei sogni e speranze infranti di bambino ti hanno consegnato all’uomo che sei, all’uomo capace di scrivere un tale racconto, allora, noi che leggiamo, possiamo soltanto dire …Grazie! Grazie per come sei e per quello che riesci a trasmettere.
Storia commovente che mi è piaciuto leggere e che fa riflettere.