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Favola

Stavano seduti al tavolo vicino al mio. Il ristorante era accogliente, coi suoi elementi in legno e i mattoncini a vista, rendeva calda l’atmosfera.

Anche le luci regalavano giochi che per qualche istante avevano distolto la mia attenzione dall’intorno.

Ero sola. Chissà perché quella sera, avevo deciso di fermarmi a riposare dentro quel locale.

Non è voyeurismo quel guardare ciò che circonda quando si è in compagnia dei propri pensieri. Probabilmente si guarda senza vedere.

Al tavolo vicino un uomo e una donna. Forse il loro modo di parlare, di ridere, scherzare, mi incuriosì. Non potevo, né volevo ascoltare le loro parole.

Qualsiasi cosa si stessero dicendo li rendeva talmente complici da isolarli dal resto del mondo. Era un modo cameratesco di stare insieme, dividersi il cibo e assaggiare gli intingoli diversi che avevano nei piatti. E ridevano di gusto. Nel farlo, i loro occhi brillavano.

Quei due provavano un immenso piacere a stare seduti a quel tavolino, in quel momento.

La mia pizza nel piatto e la mia birra ghiacciata erano una magra compagnia nel mio desco solitario.

Non si sfioravano neppure. Mai una volta una mano aveva, sia pur accidentalmente, toccato l’altra. Tuttavia l’aria intorno risentiva dell’elettricità che promanava da loro e che io, spettatrice mio malgrado, percepivo tutta.

Mi chiedevo chi e cosa fossero l’uno per l’altra. Perché i loro occhi brillassero al riverbero delle bollicine dentro il loro bicchiere. Bevevano all’ unisono come se fosse un unico calice ove posare a turno le loro labbra.

Fingevo spesso di abbassare lo sguardo e di concentrarmi sui capperi e acciughe della mia eterna napoletana, sono io nei secoli fedele alla pizza che scelgo, nonostante ogni volta, andando nei ristoranti, legga attentamente il menu.

Eppure, una forza misteriosa mi chiamava a osservare con discrezione la mia coppia prediletta, come li avevo battezzati. Realizzai da piccoli indizi che non erano una coppia. Che erano lì per strane alchimie della vita o meglio del Fato, è bene chiamarlo così quando mescola le carte, prepara pozioni che serve poi sul piatto del personale destino.

Lei rideva felice a qualche battuta di lui e quel suono cristallino, sebbene spesso per pudore attutito, animava il sornione ritmo del tempo dentro il locale. Lui palesemente si beava di essere, anche per poco, il centro dell’universo e rideva di rimando con la spensieratezza che il vino e la donna gli trasmettevano.

Persino il cameriere, un uomo brizzolato e navigato conoscitore dell’animo degli avventori, pareva essere lì per completare il quadro. Ammiccante e partecipe, consigliava, portava, sparecchiava, versava. Chissà se anche lui si poneva mai domande. O se il rigore professionale gli imponeva di non vedere, non sentire, non sapere.

Chissà perché quella sera avrei voluto tanto essere quella piccola falena che volteggiava vicino alla luce fioca sopra le teste dei miei due inconsapevoli compagni di cena.

Realizzai in quel poco tempo che lì, davanti a me, fra un pezzo di pane intinto nel sugo e un olivo scambiato velocemente, stava nascendo un amore.

Neanche i due al tavolo lo sapevano. Ma io che nonostante i buoni propositi di impegnarmi nella cura della mia cena, continuavo imperterrita ad osservare, ne avevo la certezza quasi matematica.

Un unico dolce nello stesso piatto e due cucchiai a pucciare dentro la stessa soffice crema. E… due sguardi che superavano la stessa percentuale di zucchero nel dolce.

Io sapevo. Mi sentii colpevole di avere carpito un battito diverso del loro cuore. Finirono di cenare e anche io ultimai la mia sconsolata napoletana. Bevvi le due dita di birra rimaste e mi avviai alla cassa per pagare.

Loro, ancora loro, mi avevano preceduta. Non si abbracciavano, non si toccavano. Ammetto ero curiosa. Ma il mio commiato, conosciuto solo da me stessa, stava per avere luogo.

Loro si erano attardati a salutare il cameriere. Io avevo avuto il tempo di pagare. Uscimmo dal locale,però, quasi contemporaneamente.

La notte era splendida. Nel cielo, sovrana, splendeva la luna. Una leggera discesa separava il ristorante dal parcheggio. Ridevano ancora e,nel farlo, lei lo aveva preso sottobraccio. Erano brilli. Lo diceva il passo un po’ insicuro, la risata strafottente del resto del mondo, quel braccio di lui improvviso sulle spalle della donna.

Anche l’ inciampo e l’ilarità più forte tradivano il connubio tra vino ed emozioni. Poi il bacio. Improvviso. Intenso. Desiderato? Cercato? Voluto?

Realizzai improvvisamente che io non ero un emissario della Luna e che il mio posto non era quello di guardaspalle di quei due.
Mi vennero in mente i versi di Catullo “Dammi mille baci, poi cento,
poi ancora mille, poi di nuovo cento,
poi senza smettere altri mille, poi cento;
poi, quando ce ne saremo dati molte migliaia,
li confonderemo anzi no, per non sapere (il loro numero)
e perché nessun malvagio ci possa guardare male,
sapendo che ci siamo dati tanti baci.”

Non si accorsero di me, tanto erano presi e persi nei reciproci sguardi. Li superai e giunsi in fretta alla mia macchina, nei miei occhi avevo le mani di lui che facevano una leggera carezza sul volto di lei, come un cieco che imprime nell’ anima l’immagine che tocca.

Non so chi fossero. Non so cosa quella notte rivelarono alla luna.
So solo che quell’amore inconsapevole scaldò anche me.

Parlai con Cupido complimentandomi con lui per la location che aveva scelto e per la sceneggiatura che aveva realizzato. Gli chiesi cosa c’ entrassi io nella trama.

Cupido tacque. Sa essere omertoso quanto ruffiano.
Mi rispose la Luna: -a quei due mancherà una Storia, tu potevi farli esistere, almeno per un attimo, in quelle favole dove c’è sempre un “vissero felici e contenti”-

foto di Marina Neri

Pubblicato inAmore

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