31 ottobre 1993.
Ore 20, Rai Uno, Telegiornale “… oggi è morto a Roma Federico Fellini. Nato a Rimini nel 1920 iniziò giovanissimo a …”
Non ascolto più, non sento mia figlia Valentina che mi parla, poso i piatti sul tavolo che sto apparecchiando per la cena.
A Padova piove, esco in terrazza, mi bagno la testa, alzo gli occhi e guardo il cielo nero.
“Cos’hai?” chiede mia moglie, alterata “… ti sto chiedendo da mezz’ora se cambi il pannolino ad Anna …”
Cambio il pannolino ad Anna, senza vederla.
E’ morto Fellini. Non può essere. Non voglio.
Il giorno dopo è festa, ma io non ci sono, non ci sono con la testa, uno stordimento imprevisto e denso mi impasta il cuore, non capisco perché.
O forse sì.
“Vado a salutare Federico … torno subito …” dico a mia moglie nel tardo pomeriggio, ed esco, senza che abbia il tempo di replicare.
Prendo il primo treno diretto a Roma, parte in ritardo alle 18.50, salgo e chiamo a casa “… Sto andando a Roma … devo …” Sento l’incredulità dall’altra parte, so che è l’ennesima prova di forza con mia moglie, sto esagerando, non lo merita, non sopporterà a lungo.
Il viaggio è all’insegna della memoria: mi passano davanti agli occhi le facce, le parole, le scene, tutti i suoni, le musiche, le risate.
Casanova, vitelloni, amarcord, zampanò, 8 e ½ , vieni marcello bello, tutto danza, tutto colora.
A Roma è notte, mi faccio portare in taxi a Cinecittà, la camera ardente sarà allestita là, voglio fare presto e devo farmi venire un’idea per entrare negli studi.
Alle 2 c’è movimento davanti al cancello, qualcuno mi dice che la camera ardente sarà aperta alle 6, e per le prime ore sarà accessibile solo per le maestranze di Cinecittà.
Devo entrare.
Provo ad intrufolarmi con un gruppo di attrezzisti, non funziona, mi fanno uscire.
Ritento più volte.
All’ennesimo tentativo, l’uomo della garitta dietro la cancellata si infuria “ … E mo’ basta! … Tu nun ce devi da entrà qua …”
Arretro, alle mie spalle sento una voce che si rivolge perentoria alla garitta “… Plinio, è con me, lassa perde ..”
Non ho il temo di rendermi conto di chi ha parlato, vedo un uomo massiccio, con un berretto che reclamizza un fabbrica di vernici, che mi prende sotto braccio, quasi alzandomi, e mi porta dentro.
Si chiama Mario, con Fellini dipingeva scene e rideva tanto.
Mi guarda gli occhi, rossi anche di sonno.
“Te manca pure a te?”
Non rispondo, lo ringrazio con la mano mentre corro verso lo Studio 5.
Il “suo” Studio 5.
Entro, la bara è al centro di un cielo azzurro immenso, scenografia de “L’intervista”, attorno gli operai che per una vita hanno lavorato con lui.
Il silenzio è assoluto.
Mi basta questo, mi basta sapere che mi ha lasciato, ma che non l’ho perduto.
La morte non c’è là dentro, e io lo ringrazio.
Adesso vedo che non sono l’unico a sorridere.
Federico
Pubblicato inAmore
Fa venire i brividi
La morte non c’è la dentro. Tutto il racconto è da brividi, ma questa chiusa ancora di più, E’ un sussulto. Io lo vorrei pensare di mio Padre,a volte ci riesco a volte no.