Salta al contenuto

Il fantasma di Rhogudi

 

Richoudon, dal greco Rhogodes, che vuol dire crepacci. Lo avevano chiamato così quel luogo. Rogudi suonava oggi quell’insieme di lettere greche ,poste una accanto all’ altra, a testimoniare che la Storia, secondo i suoi umori, sa essere ora generosa ora impietosa ed avara.

Turista nella sua terra ci era andata per visitare, per guardare, per osservare ” il Silenzio”, quella coltre che ammanta, ingentilisce o ammorba i paesi definiti ” fantasma”.

Voleva scorgere i ferri nei muri dove le mamme un tempo fissavano le corde il cui capo era legato alle caviglie dei figlioletti per evitare che giocando precipitassero nei burroni a circondare il borgo.

Le piaceva entrare ed uscire dalle case diroccate per sentirne cigolare i battenti, per farvi penetrare spiragli di luce e spifferi di vento, ad animare qualcosa che non aveva avuto il tempo di morire.

L’acqua di ben due alluvioni si era presa la vita di quel luogo. Per giorni il cielo aveva scaricato sui vicoletti eleganti, sulle pietre lastricate di miti, sui tetti di umile amore, tutte le lacrime per secoli trattenute.

Non era bastata la Fiumara a contenerle, a valle quei rovesci avevano portato vite e storie racchiuse dentro gocce rabbiose giunte fino al mare.

Non amava definirsi ” turista”. Lei era una ” viaggiatrice”. Che importanza aveva se i suoi viaggi accadevano dentro di sé o in luoghi impervi, isolati, in riva al mare o più semplicemente, guardando il volo di un gabbiano?

Le facevano male le gambe. Non gradiva che i suoi piedi fossero allocati in informi scarpe da trekking. Ma di necessità occorreva farne virtù e quei sentieri da percorrere non le consentivano di indossare la scomoda bellezza di un tacco 12. Appena era giunta a poche centinaia di metri dal paesino era rimasta estasiata. Abbagliava la sua ieratica bellezza. Si stagliava nel sole sopra la Fiumara, l’Amendolea d’ argento le appariva come una grande mano a tenere sopra il palmo il piccolo gioiello.

Le casette in pietra locale, abbarbicate al costone, erano addossate le une alle altre, Presepio a celebrare la morte senza che nessun avvento ne preannunciasse la resurrezione.

Finestre senza più gli scuri apparivano come occhi ciechi, senza orbite nella guerra contro il tempo. La vegetazione spontanea e selvaggia si era impadronita delle mura e, irriverente, entrava fra le pieghe degli interni senza più autorevoli separé col mondo esterno.

Era al contempo una visione bellissima e terribile. La Vita portata via. Non solo dalla pioggia torrenziale, ma da un’ ordinanza, una decisione, sicuramente sofferta, inappellabile!

Paese Fantasma era diventato, perdendo, anno dopo anno, il suo antico nome, inghiottito dalle fauci dell’oblío.

Percorreva il sentiero accidentato guardando in terra per evitare di inciampare e, mentre le casette le andavano incontro, provava ad immaginare la vita che le aveva animate un tempo.

Leggende raccontavano di pianti di bimbi caduti nei burroni a levarsi al crepuscolo, uditi da chi amava attardarsi fino oltre il tramonto in quel luogo. Lei non ci pensava proprio e non per superstizione o ancestrali paure ma perché non le piaceva sfidare con la sua auto le stradine isolate di notte.

Qualcosa le aveva sfiorato il braccio. Di striscio, velocemente. Qualche insetto in volo, di sicuro. Un uscio sbatteva pigramente creando ombre a proiettarsi sul muro di fronte preda, ormai, di erbe rampicanti fagocitanti la pietra, angeli vendicatori di quella terra sottratta. Piccoli rumori la facevano sussultare.

Un po’ si rimproverava per essersi avventurata da sola in quel luogo dentro una estate assolata. “Alea iacta est” si diceva sempre a giustificare quasi i suoi azzardi ed i conseguenti ” brevi” pentimenti.

Un fruscio vicinissimo le aveva generato uno stato di inquietudine. Era sicura non si fosse trattato di un insetto. Aveva percepito un vento mentre intorno l’aria era immobile. Anche la vista in quel posto le giocava strani scherzi. Un flash intravisto con la coda dell’occhio le rimandava un’immagine eterea subito sparita. La solitudine la stava suggestionando.

Una casa più lontana aveva attirato la sua attenzione. Faceva molto caldo e un po’ di refrigerio dentro pareti, sia pure, diroccate, avrebbe spezzato quell’afa e quell’ansia crescente che l’attanagliava.

Con sorpresa aveva guardato i mobili che ancora arredavano quell’ambiente. Polvere e ragnatele rivestivano quelle povere carcasse sopravvissute alla furia delle acque. Traballanti sedie rimanevano in piedi miracolosamente trattenute dai fili sottili opere della pazienza coriacea dei ragni. Un logoro specchio dentro quella che era stata una sobria camera da letto le rimandava la sua immagine avvolta in un’aura strana alterata dalla polvere e dal tempo.

Non era sola in quella stanza. Lo aveva subito realizzato. Prima ancora che nello specchio apparissero due occhi scurissimi e un corpo fluttuante. Le gambe le tremavano di un terrore incontrollabile, l’urlo che le era salito in gola si era subito smorzato per l’inutilità dello stesso.

Era sola. Non sarebbe servito a nulla gridare. Occorreva solo riguadagnare la calma e tutto sarebbe svanito nei meandri dell’inconscio da cui si era generato. Più facile a dirsi che a farsi, soprattutto con quella entità che le svolazzava sempre più vicino, sempre più nitida.

Una irreale luminescenza biancastra le aleggiava intorno e contornava una sagoma con una lunga chioma corvina e occhi fluorescenti, magnetici che captavano tutta la sua attenzione. Dentro quella camera due donne, una materiale ed una immateriale, ad unirle un unico genere.

Avrebbe tanto desiderato scappare, ma, improvvisamente, tutti gli infissi apparivano sigillati come a volere tenere il mondo lontano. Le gambe erano pesanti, si sentiva debole, oppressa da un grande, indecifrabile, dolore.

– Ti aspettavo da tanto tempo- Si era guardata intorno più per un senso razionale che per convinzione: sapeva da dove provenisse la voce. – Solo tu puoi restituirmi la pace-

Che strane parole! Forse quell’essere evanescente che aveva davanti possedeva il senso dell’umorismo. Lei donare la pace? Ma conosceva la sua storia quel fantasma? Sapeva delle innumerevoli guerre che le fiaccavano le energie? Lei e la Pace stavano come il fuoco stava all’acqua!

Non poteva scappare. Non voleva scappare. Si disse:- ascoltare un fantasma è come ascoltare un cliente…-

Nella penombra della stanza, alla fioca luce filtrante dalle fessure degli scuri le appariva bella, bellissima.

– Il mio corpo non è mai stato ritrovato… dispersa nell’ alluvione del 1973 mi dichiararono. Uno dei tanti senza croce in quella tragedia che colpì la mia gente- Incredula conteggiava mentalmente gli anni che erano trascorsi da allora. Cinquanta! Mezzo secolo era passato e quel fantasma aveva aspettato proprio lei per parlare. Forse anche l’ ectoplasma aveva scoperto che era un’avvocata a buon mercato, rifletteva fra sé, cogliendo tutta l’ironia della situazione.

– Sono stata uccisa la sera prima della catastrofe, strangolata. Mio marito è stato l’assassino. Non ha mai espiato la sua colpa. Ha nascosto il mio corpo e divenni anima fra tutte quelle che l’alba vide tragicamente morte o scomparse, uccise dall’alluvione che, maligna, artigliò molti di noi. –

-Perché ti aveva uccisa? – le aveva chiesto sedendo su una sedia impolverata come fosse la poltrona del suo studio.

– Mi ero innamorata di un altro , sarei partita con lui. Glielo avevo comunicato quella sera. Quella sera in cui le sue botte mi avevano fatto meno male del solito, in cui le sue rabbiose parole ferivano di meno, forse perché ero innamorata e volevo solo essere libera. Non vidi la luce del sole. Egli strinse le mani attorno al mio collo e non servì a nulla battermi, divincolarmi, cercare di urlare. Finché divenni una inutile bambola di pezza, inerte, con negli occhi impresso terrore e dolore. Da allora vago prigioniera in attesa di un ponte , un varco ad aprirsi fra la mia e la tua dimensione. Oggi ho sentito che era il momento, che tu eri il ponte. Due uomini mi attendono da cinquant’anni. Uno, finalmente, per la mia giustizia, l’altro per il mio amore. Vivono entrambi nel nuovo paese nato dalle ceneri di questo. Trova il mio corpo, ti imploro. Restituiscimi alla Storia.-

Le aveva dato i nomi. I nomi di due uomini. Entrambi quasi ultraottantenni. E pure delle coordinate. Follia. Pura follia assecondare lo spettro.

Si ritrovò fra le mani una fotografia. Stava su quel comò dal legno eroso. Un uomo e una donna il giorno del loro matrimonio. Non faticò molto a riconoscerla: indimenticabili gli occhi.
Avrebbe voluto tanto uscire da quella casa e dimenticare. Ma le era impossibile, la sua natura le impediva di ignorare quello strano grido di aiuto.

Aveva cercato nei giorni a seguire i due uomini indicati dal fantasma. Con la scusa di restituirgli la cornice con la foto rinvenuta nella vecchia casa aveva rintracciato il marito della donna. Il guizzo ferino che gli aveva visto attraversare lo sguardo opaco quando gli aveva porto l’immagine, le aveva fatto scorrere una fredda paura sulla schiena. Era tutto vero. L’aveva uccisa! Saperlo era una cosa, dimostrarlo era pressoché impossibile.

Le ricerche dell’altro uomo si erano rivelate più difficili. Aveva scoperto che era andato via dal paese, che era ospite di una casa di riposo a Nord.

Le coordinate! Quelle la tormentavano notte e giorno peggio che se fosse stata perseguitata dal fantasma. Non sarebbe stato facile giungere nel punto indicatole dalla donna. Con le sue sole forze non ce l’avrebbe fatta.

Eccentrica era subito apparsa a quell’uomo. Noleggiava fuoristrada per risalire la Fiumara dell’Amendolea, era un provetto conoscitore della zona, un infaticabile camminatore per quei sentieri, un appassionato paladino di quelle terre.

Non poteva certamente spiegargli le ragioni della sua richiesta, labile era, in quel caso , il confine fra lucidità e follia. Aveva parlato di un vago tesoro, dell’ esistenza del quale l’avrebbe messa al corrente un suo cliente, impossibilitato a seguire da solo le ricerche.

Si sentiva emozionata ed inquieta nel salire sulla jeep dell’uomo. Seguivano attentamente le coordinate. Avevano dovuto abbandonare la certezza del veicolo e proseguire a piedi fino a giungere, non senza fatica, ad una piccola radura. Tantissime grotte e cunicoli a dipanarsi disordinatamente. Sapeva esattamente dove andare, la voce guida la conduceva. L’uomo la osservava e la seguiva taciturno fra l’incredulo e l’ammirato.

Una pietra a chiudere un’ entrata: un sepolcro custodito dalla natura per cinquant’anni. E poi, gettato in terra come inutile oggetto, uno scheletro. Brandelli di stoffa che erano stati vestiti a ricoprirlo. Lei fingeva stupore per il ritrovamento, ma l’uomo che le era accanto non era uno sprovveduto e la osservava ponendo in silenzio tantissime domande.

I giorni a seguire erano stati un turbinio di emozioni. Il cadavere rinvenuto aveva un nome. Fra le mani stringeva ancora un orologio d’oro strappato durante una colluttazione. Il medico legale aveva accertato la morte per strangolamento. Lei aveva suggerito agli inquirenti di mostrare l’ orologio al marito, parendo uguale a quello indossato dall’uomo nella foto del matrimonio.

Aveva solo chiesto se poteva, alla fine dell’inchiesta, tenere il ciondolo che la donna portava al collo. Un piccolo scrigno con una incisione, un minuscolo ritratto. Insolita richiesta ma l’ispettore non aveva avuto obiezioni a riguardo. L’assassino era quel vecchio vissuto nel rimorso tutta la vita, inaridito dal tempo e dalla colpa , in attesa di una giustizia che non sarebbe più arrivata dagli uomini.

Non era stato facile incontrare l’altro uomo alla casa di riposo. Protocolli, autorizzazioni, burocrazia elefantiaca atti a fare desistere soggetti meno ostinati di lei. Ma non si era arresa.

L’aveva voluta accompagnare. Quella donna lo intrigava, desiderava comprendere fin dove sarebbe arrivata. O forse, in fondo, gli piaceva e pure tanto. Lui il misogino, il solitario, il cercatore di sentieri, si era messo a seguire le tracce di quella bisbetica che gli avrebbe generato solo guai. Ne era sicuro. Pur tuttavia era lì, con lei, davanti alla porta di un altro anziano.

Gli era andata vicino. L’uomo, seduto su una sedia a rotelle, osservava il giardino al di là della grande finestra. Si era seduta accanto. In silenzio. Non sapeva da dove iniziare. Tacendo gli mise fra le mani quel ciondolo antico. L’anziano lo rigirò fra le dita raggrinzite e deformate, lo aprì. – Maria- sussurrò. E lo strinse al cuore.

Mise la sua mano in quella dell’uomo che l’aveva accompagnata, gli sorrise e sorrise a Maria, finalmente in pace.
-Non riconosce nessuno- gli avevano detto gli infermieri che accudivano l’anziano.
-Già…- pensò lei -ma l’amore non ha bisogno di memoria-.

Per chi volesse saperne di più sul borgo fantasma di Roghudi ecco un link

Roghudi: l’Antichissima Storia del Borgo Fantasma di Calabria

Foto di Marina Neri ( Roghudi, paese fantasma)

Pubblicato inGenerale

Commenta per primo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *