La frase. “Salve, questo è il principio di un film intitolato Il Prodigio. Le persone che incontrerete, i personaggi del film, credono ciecamente alle loro storie. Non siamo niente senza storie. Perciò vi invitiamo a credere in questa.” (Kitty)
Chi lo ha fatto. Sebastian Lelio, classe 1974, esponente di punta del nuovo cinema cileno. Ha vinto nel 2018 il Premio Oscar per il Miglior Film straniero con “Una donna fantastica”
Di che parla. Irlanda, 1862, la Grande Carestia ha seminato il paese di morti per fame ed ha visto crescere il fenomeno delle “fasting girls, le ragazze che digiunano”. Anna, il personaggio centrale del film è una di esse. Lei ha 11 anni e non mangia da quattro mesi. Ad “osservare” quello che una parte del paese definisce un miracolo è invitata Lib Wright (la talentuosa Florence Plugh), radicata dalle sue competenze mediche in una visione oggettiva della situazione ma spinta dalla sua dolorosa storia personale a trovare soluzioni fuori dai dettami ideologici
Che ne penso E’ un bellissimo film sul potere delle storie e delle credenze che ne derivano e si stratificano negli esseri umani, condizionandoli. Lelio viene da un’educazione fortemente religiosa e da una ricerca costante, nei suoi film, della “giusta distanza” fra l’osservanza religiosa ed il proprio personale percorso di vita. Un film cupo, ma esaltato dalla prodigiosa fotografia di Ari Wegner (Oscar per “Il potere de cane”) che può risultare ostico alle sue prime sue battute ma che poi coinvolge e commuove. Bravissimi tutti gli attori. Mi è piaciuta molto l’idea di seminare nel film i discorsi di una narratrice, Kitty, che parla direttamente al pubblico per sottolineare il potere delle storie e del cinema che sa raccontarle. Grande cinema.
Netflix, da vedere, Pier 9.12
C’è una frase verso il termine del film che mi ha turbato, ma per motivi di spazio questo turbamento non è entrato nella recensione. E’ la mamma di Anna a parlare, rispondendo alla pressante richiesta dell’infermiera di impedire la morte della figlia: la vita umana è così effimera mentre ci aspetta una vita eterna. Io voglio che mia figlia vada in Paradiso. Era il tempo nel quale i bambini morivano come mosche e venivano lasciati nei fossi accanto ai sentieri, ce lo ricorda Kitty, la voce fuori campo, dicendo che nessuno ha mai parlato di quelle morti ignorando così che in ogni bambino si nasconde un prodigio. Un prodigio, il titolo del film. E’ facilissimo per me, a distanza di tempo e di spazio, circondato da tutto quello che può facilitare la vita alle mie figlie, giudicare e condannare senza appello “quella madre”. Eppure dal suo punto di vista lei ha fatto tutto per sua figlia: l’ha trasformata in prodigio vivente ma quando tutto si è sgretolato “offre” alla figlia l’eternità serena del Paradiso, il massimo possibile a quel tempo e in quella situazione. Il regista non giudica: il suo sguardo e la sua ricerca è su come la fede prenda posto dentro di noi influenzando comunque e in ogni caso le nostre scelte. E ci fa ragionare. Ed amare il cinema