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In quella Banca

Quando, quella mattina del 16 agosto 1976, entrai dal palazzo di Via Roma 210 nella sede della Filiale di Napoli della BNA, avevo il vestito del mio recente matrimonio ed un groppo in gola.

Ero “finito in banca anche io” come diceva sarcasticamente Antonello Venditti al suo compagno di scuola.

Per me andare in banca equivaleva ad una resa: mi ero da poco sposato e dovevo uscire, per senso di responsabilità, da un lungo periodo di precarietà lavorativa e di impegno politico a tempo pieno, ma significava chiudere una vita che valesse la pena di essere vissuta e finire tutte le mie giornate a spuntare contabili e ad inserire assegni, stando molto attento ad esprimere le mie idee.

Mio padre aveva mosso mari e monti per fare entrare, in quella banca, l’unico suo figlio maschio che non aveva voluto fare l’ingegnere, che aveva smesso di fare l’avvocato e che perdeva il suo tempo ad inseguire chimere e a costruire la nave dei folli.

Entravo, dunque lì in quella Banca, con un umore scuro ma con la cravatta al suo posto su una camicia bianca immacolata ed un completo azzurro in fresco lana.

Ero in attesa nel grande salone del primo piano dove si aprivano le porte del Direttore della Filiale, del Capo del Personale e dell’Ufficio Personale.

Mentre attendevo, con quella cravatta e quell’umore, che mi venisse indicato l’ufficio dal quale iniziare il mio noviziato bancario – i tre mesi di prova come da contratto – il mio destino prossimo e futuro, imprevedibile e imprevisto, mi venne incontro: con la camminata un po’ ciondolata, il barbone incolto ed una cravatta distrattamente lasciata larga su un collo di camicia sbottonata, uscì dalla porta del Capo della Filiale e venne verso di me il segretario della sezione del Partito Comunista Italiano di San Giuseppe Porto, Mario Ruggiano.

Rimanemmo basiti entrambi, l’uno di fronte all’altro: “E tu che ci fai qui?” “Io ci lavoro. E tu?” “Dovrei lavorarci. Da oggi”.
Poi sorrise, alla sua maniera, tirando baffi e labbra all’insù e scoprendo i denti bianchissimi mentre i suoi occhi verdi si illuminavano: “Benvenuto, allora!”

Mario ed io facevamo politica nello stesso vicolo del Centro Storico, a ridosso delle mura del Monastero di Santa Chiara. Lui era il segretario della Sezione San Giuseppe Porto del Partito Comunista Italiano ed io capitanavo un gruppo di ragazzi vomeresi di buona famiglia nel loro catartico impegno sociale nella sede di Banchi Nuovi, allora solo un semplice Comitato di Quartiere.
Non ci eravamo mai rivolti la parola fino a quel giorno, fino a quella mattina del 16 agosto 1976. Eravamo – come si direbbe con il linguaggio di oggi – competitor politici ed al più ci salutavamo con un freddo ciao, le rare volte che per avventura ci incontravamo.

Grazie alla presenza di Mario in quella stessa banca la mia vita prese immediatamente una piega completamente diversa da quella che mi ero immaginato nel mio rimuginare buio della mattina di metà agosto.
Cambiò radicalmente la mia vita personale ma anche quella politica ricevette la spinta in una direzione più matura e consapevole, attraverso la militanza sindacale della quale Mario mi spalancò le porte.

Ma in verità nessuno di noi due avrebbe potuto immaginare come e quanto quella mattina avrebbe cambiato il corso delle nostre rispettive vite.

Nacque un sodalizio umano e sindacale alimentato dalla comune opposizione al “padrone” (e mai come nella BNA di quei tempi questo termine era più che appropriato) e da interessi culturali assolutamente simili nel campo del cinema del teatro della letteratura.

Nacque un’amicizia profondissima, per lunghi tratti quasi simbiotica, le nostre vite si intrecciarono.

Diventammo inseparabili, legati da riti inviolabili praticate tutte le mattine da quel giorno e per alcuni anni: il caffè con la “vasca” (ovvero: la passeggiata) nella Galleria Umberto I, l’intervallo stesi sui giardini del Maschio Angioino a consumare il panino in estate, le riunioni nella stanza sindacale, gli scambi di opinioni dopo la lettura dei giornali.

E poi pezzi di vacanza passati insieme: eravamo a Pescasseroli quando ci arrivò la notizia della strage dell’Italicus e piangemmo abbracciati.

Poi Stromboli, Villetta Barrea, Scanno.

E le confidenze sugli amori, le donne, gli amori che occupavano le sere e le notti, fra sigarette ed un pò di vino con la musica in sottofondo.

Mario, più grande di me di qualche anno e profondamente intriso di studi filosofici mi ha insegnato ad affrontare la vita con uno sguardo diverso, disincantato e un  pò fatalista; mi ha portato a conoscere profondamente e amare Napoli, la sua storia, la sua cultura, la sua profonda umanità; mi ha insegnato tutte le nozioni fondamentali della cucina, dei vini, dei segreti culinari napoletani, degli indirizzi dove trovare “la vera pizza” ed “i veri scialatielli”.

Ricordo la sua espressione assorta e allo stesso tempo divertita mentre mi raccontava la sua cucina dove, nei primi piatti, non mancavano mai due pomodorini schiattati.

A lui devo tutte le premonizioni sui quarant’anni, sulla prima crisi vera che ogni esistenza incontra in prossimità di quella scadenza così come le letture che mi consigliava per immettere la dose giusta di relativismo nell’entusiasmo politico: Musil e Camus.

Per vent’anni è stata la persona alla quale sono stato più legato, dal quale sono stato più influenzato e al quale mi sono ispirato, anche successivamente, per attingere a lui nei vari ambiti della conoscenza e dell’esperienza di vita.

Mi ha avviato all’ascolto della musica operistica e della musica “colta” in genere. Conservo – pur senza preservarlo dalla sciatteria che mi contraddistingue – il libretto del Rigoletto che Mario mi regalò per facilitarmi la comprensione dell’opera e delle sue straordinarie bellezze.

Lasciò Napoli prima di me. Gli anni di lontananza, la fine dei riti consumati in quella banca, segnarono la fine del nostro sodalizio, affidato, ormai e da un bel po’ di tempo, alla memoria e al rimpianto di tempi irripetibili.

Anche la stessa banca, quella banca, quel marchio, quella filiale, quella struttura di Via Roma fin dentro la Galleria non esistono più.

Quando sono andato negli anni scorsi in pellegrinaggio in quei luoghi ho sentito il mio cuore gonfiarsi come quando vedo uno di quei film sulla memoria e mi metto a piangere in modo irrefrenabile.

Ed allora mia moglie mi guarda con tenerezza, mi accarezza il viso e sorride.

Pubblicato inAmore

1 commento

  1. Bezzo Bezzo

    Ero a Roma per un corso metà anni 90 Mario discerneva di Estero con una competenza inarrivabile Appena mi vide interruppe la lezione Si avvicinò e mi abbracciò Scusate disse all’aula È un mio amico …

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