#gliesercizidicontame
Qualche tempo fa partecipai per celia ad un contest. Era dedicato ai dolci. Scrissi un’ode dal titolo ” Dolci peccati” ispirandomi ai cannoli siciliani. Nel mio immaginario era una poesia erotica ma dovetti convenire con me stessa che nessuno ne comprese il ” doppio senso” e la giuria premiò quell’opera conferendole il crisma della liricità. Ancora oggi sorrido al ricordo di quel mio sottile ” vilipendio” del sacro dolce giungendo a vincere “intendendo altro”. La potenza della parola e della suggestione collettiva! Riflettendoci, però, quel mio scritto traduceva perfettamente il rapporto che da sempre mi lega alla mia ” croce e delizia”, il tormento e l’estasi inconsapevole della mia esistenza: il cibo. Sebbene sia stata una ragazzina obesa, un’adolescente in perenne scontro subdolo con lo specchio, non gli imputai mai i miei fallimenti, le mie obiettive analisi, le mie severe condanne. Vi era un’ unica responsabile. Ero io, non lui ( personificazione necessaria per ogni rapporto alla pari). Il cibo è uno dei piaceri della Vita. Nella mia visione epicurea gli altri due sono fatti di relazione: umana e sessuale. Dunque il cibo. Il mio rapporto con il cibo è sempre stato improntato a passione. Pura, istintiva, senza filtri o costruzioni, al pari di quella erotica. Col cibo il mio corpo non smaltiva le calorie che con profonda goduria introitavo. Non ebbi disturbi alimentari, fisici sì però, ed il cibo divenne il capro espiatorio da sacrificare in una persona che aveva somatizzato ogni più impercettibile mutamento della sua vita. Arrivò a farmi male persino l’acqua che bevevo perché la ritenzione idrica era eccessiva e non riuscivo a smaltirla.
Improvvisamente il demone fatto di intingoli, pinzimoni, sughi, decise di alzare il tiro della sua possessione. Col mio corpo cominciò un terribile faccia a faccia sul genere ” l’esorcista”.
Fu quando pancreatite, colecisti ordirono una congiura contro di me che mi resi conto di quanto non avessi ascoltato il mio corpo e le grida che aveva lanciato da anni per avvisarmi. Ma io avevo deciso di alienarlo da me privilegiandogli la mente, superbamente convinta che quel corpo che mi aveva tradita togliendomi i piaceri della vita, meritava la punizione dell’indifferenza. Punendolo, punii me stessa. E me ne resi conto in ospedale mentre da sola combattevo contro quei demoni che si erano dati appuntamento per un sabba memorabile. Me ne resi conto non potendo proprio mangiare mentre solo le flebo inviavano a quel corpo il nutrimento di cui aveva bisogno. Ricordo che il primo giorno in cui mi portarono la pastina puntine e una mousse di pera provai al contempo gioia e rabbia incontenibili. Gioia perché finalmente dopo quasi due settimane vedevo il cibo, rabbia perché avevo flebo in entrambe le braccia e nessuno a potermi imboccare. La disperazione dell’impotenza porta a compiere atti titanici, senza vergogna o pudore. Ricordo che senza piegare le braccia ruppi gli involucri che ricoprivano le ciotoline sbattendole contro la punta di un coltello che avevo poggiato al muro. E mangiai come un cane. Con il viso tuffato nella ciotola utilizzando la lingua come cucchiaio. Assaporando ogni infinitesima briciola arraffata come fosse il migliore caviale al mondo. Non pensai alla bestialità cui mi aveva indotta un sistema ospedaliero che, in periodo COVID, impedendo qualsiasi assistenza familiare, aveva annientato, mancando il personale, la dignità del paziente. Godetti, invece, della mia conquista a dispetto della feralitá che era in me. Io e il cibo? Oggi? Lo stesso rapporto che passa tra me e il mio corpo. Una rieducazione all’ascolto, alla consapevolezza dell’importanza, alla maturità nell’approccio. Ecco perché a cinquant’anni mi sono affidata a professionisti, per imparare a percorrere le strade, per riappropriarmi di me intera senza compartimenti stagni. E il cibo sta diventando un potente alleato nella riconquista del mio corpo che avevo offeso. Sa essere ironico, mi ha persino promesso ” dolci peccati”.
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