Il grande giorno è arrivato. Stringo la piccola mano di Giada. Lei si guarda intorno raggiante. I capelli raccolti e un abitino rosa.
Ci fermiamo un istante sulla porta. Guarda in su, mi sorride. “Mamma, andiamo?” Ha più coraggio di me.
Alberto sembra nervoso, pallido dentro il suo tight grigio, ma quando ci vede arrivare i suoi occhi si illuminano. È bellissimo, ed è l’uomo più dolce e buono della terra.
È il nostro matrimonio e mi sono imposta di non pensarci, oggi. Ma non è facile convivere con un dolore; è come una spina conficcata nella pelle. La sento pungere. E fa male.
Don Mario celebra la Messa. Ascolto i rumori della chiesa, alle mie spalle. Un colpo di tosse, i ventagli degli invitati che tagliano l’aria come ali di farfalle. Nessun cigolio. La porta in fondo alla navata centrale rimane chiusa, silenziosa. Immobile come un blocco di ghiaccio.
“Lo sposo può baciare la sposa.”
Un applauso scrosciante.
Lui non c’è.
Fuori dalla chiesa mamma si avvicina per baciarmi. Incontro i suoi occhi, smarriti e lucidi come i miei. “Non verrà”. Me lo sussurra nell’orecchio, simulando leggerezza.
Papà non ha mai accettato quella gravidanza fuori dal matrimonio. Si è perso il profumo di talco, le prime parole e i primi passi. Le favole prima di dormire, il bacio della buonanotte.
Giada qualche volta mi chiede del nonno. “Perché non lo vediamo mai?”
Non posso rispondere. Non adesso. Invento scuse. “È stanco. Ha un impegno”.
A volte mi fermo a osservarla mentre dorme. Quel viso d’angelo che ha colorato la mia vita. “La figlia del peccato”. Papà avrebbe dovuto nascere cent’anni fa…
L’ultimo invitato lascia il ristorante. Mi siedo sullo sgabello del pianoforte dove, poco fa, Alberto ha suonato per me “Your song”, la nostra canzone.
Papà non è venuto. Penso che è così che ci si perde per sempre. Ci si allontana in silenzio, nell’ombra fredda del rancore, finché le distanze si dilatano, sfumano i contorni dei ricordi. E anche quella spina non duole più. È soltanto una cicatrice sulla pelle.
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