I pomeriggi di domenica erano per lei la quiete dopo la tempesta.
Lo stress della settimana si acquietava. Il sabato faceva da spartiacque tra il girovagare parossistico fino al venerdì e l’ elettroencefalogramma piatto della domenica.
Aspettava con trepidazione quelle ore, in cui aveva smesso di cucinare, impastare, sistemare per ubbidire al ruolo di madre e di angelo del focolare, e poteva, finalmente, dire al suo divano: sono tua!
Iniziava lo zapping selvaggio, un gioco curioso col suo telecomando, consistente nel cercare qualcosa di decente in televisione, che facesse da sottofondo ai suoi pensieri liberi.
Ma era un gioco che negli ultimi tempi la tediava parecchio. Insulse oche starnazzavano nell’aia televisiva della domenica.
Finiva così per abbandonare il suo divano e cercare cassetti da sistemare. In un angolo degli stessi si trovava sempre un cimelio, un biglietto, una foto, un ciondolo, che le avrebbe sicuramente riportato alla mente briciole del suo passato.
L’ordine non era mai stato una sua prerogativa e sapeva che non c’era un criterio logico nella sistemazione o nel rinvenimento di pezzetti della sua vita.
Sapeva cosa c’era in quella scatola nera, lì in fondo al cassetto, fra fazzoletti, collane, persino un calzino spaiato.
C’era un orologio.
Un classico orologio maschile. Tutto in acciaio. Semplice. A corda. L’orologio del macchinista.
Lo estrasse dalla scatola. Diede un paio di giri al pomellino della corda. Ne udì il ticchettìo familiare.
Il tempo che si era fermato tra le lancette di quell’orologio, aveva ripreso a scorrere.
Preciso. Sì, l’ orologio del macchinista doveva essere preciso. Nessuna variabile, nessuna incognita in quel Tempo che scandiva arrivi e partenze.
E c’era una bimba che salutava un uomo in divisa, con la borsa piena di carte, la lampadina con tre colori, e San Francesco a proteggere un cammino, un viaggio.
“Fai la brava. Papà guida il treno e porta i nonni a vedere i nipotini, il fidanzato a riabbracciare la fidanzata, gli ammalati negli ospedali a guarire”
Le dava un bacio e lei sapeva che il suo era un eroe, un papà che guidava il treno, che univa l’Italia in quel su e giù pieno di speranze.
Quell’orologio era magico. Non lo faceva arrivare mai in ritardo.
“Sai, piccolina, la gente ha l’appuntamento col Destino quando prende il treno…”
E lei immaginava questo Destino. Doveva essere importante se tutti volevano arrivarci in tempo. Desiderava crescere per incontrarlo. Avrebbe indossato anche lei un orologio magico, non avrebbe disatteso nessun appuntamento col suo Destino.
Glielo aveva regalato quando quel Tempo per lui non era stato più importante, quando i suoi binari lo avevano condotto alla Stazione del suo vivere, quando un solo appuntamento gli era rimasto.
E lei aveva bloccato quella corda. Per non farlo scorrere.
Ma l’orologio del macchinista scorre anche senza corda. Puntuale sempre.
“Papà, il Destino si arrabbia se arrivi in ritardo?” gli aveva chiesto lei un giorno di pioggia, di fulmini e di tuoni. Voleva che tornasse il sole per farlo andare a lavorare.
“Il Destino non aspetta. Ma non scappa. Deve solo compiersi. E per farlo ha il suo tempo. Nessuno può stabilirlo. È un treno in corsa. La Stazione è sconosciuta. Ma il macchinista deve essere puntuale”
Già. Era sempre stato puntuale il suo papà.
Anche in questa domenica pomeriggio in cui lei si era fermata a una stazione per ritrovare la bimba cui luccicavano gli occhi per l’ appuntamento col suo Destino.
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