Lei non aveva mai amato il Carnevale. Eppure amava i vestiti stravaganti, eccentrici.
Voglia di apparire? Così veniva codificata dagli altri, quell’intorno inevitabile che vedeva solo ciò che la superficie faceva emergere e si accontentava di quello per averne argomento di discussione in una vita altrimenti persa dentro l’ovvio, il routinario, il quotidiano ripetitivo.
Lei sapeva che era affermazione del suo Io , inderogabile e insopprimibile per la quale aveva pagato un prezzo altissimo e non poteva barattarla in nome di pettegolezzi e insulsi squittii.
Non amava invece travestirsi. Il Carnevale per lei era una iattura.
La madre lavorava alacremente per cucirle il vestito che l’avrebbe resa principessa, regina, moschettiera, dama, Cleopatra o semplice “viddhaneddha”( contadina).
C’era amore, tanto, in quell’ago che univa con piccoli invisibili punti lembi di stoffe colorate, preziose.
Giorni di lavoro e si materializzava il gioiello che avrebbe trasformato una bimba in una creatura del passato, sempre importante, sempre bella, sempre unica, al centro di un universo familiare.
E lei indossava l ‘abito cucito per amore, cercando di interpretare quel ruolo con impegno.
Ma si sentiva il Corsaro Nero. Si immaginava Sandokan. Si voleva Salvo D Acquisto. In cuor suo era Spartaco. Era il Gladiatore nell’arena.
Non si sentiva uomo. Si voleva ” agente” non complemento d’arredo.
Era donna, era stella filante, era coriandolo. E voleva essere la mano che li lanciava , li faceva volare, li indirizzava…
L’aveva incontrata un giorno alla cassa del supermercato. Teneva un bimbo stretto per la mano. Sempre impeccabile, bellissima.
Lei che di sabato era un misto e pure mal riuscito, fra il brutto anatroccolo e il ranocchio delle favole.
– Verrò a trovarla. Le devo parlare – Aveva mantenuto la promessa.
Chissà perché quel giorno, il suo sesto senso le aveva suggerito che fra di loro non serviva una scrivania. Le si era seduta accanto.
Aveva atteso in silenzio. Non bisogna mai essere impazienti. I suoi corsi di psicologia le venivano sempre in soccorso. La parola e il coraggio fluiscono limpidi dentro la pazienza.
Dopo un lungo silenzio complice e attivo, in cui le mani e gli occhi traducevano paure, orrori, ansie e voglie di rinascita, aveva lasciato parlare la sua voce. E si era ascoltata.
Aveva indossato migliaia di maschere in quel Carnevale che era divenuta la sua vita.
Ogni giorno una, per compiacere, per non urtare, per essere perfetta ” come lui mi vuole”.
Oh,sì. Quanto dolore per ogni vestito cucito e scucito! Come pelle scuoiata. Come animale scorticato vivo prima di essere immolato.
Aveva ubbidito. Messalina? Messalina. Circe? Circe. Madre? Madre. Angelo del focolare? Angelo del focolare. Che importava se per ogni abito indossato un pugno, uno schiaffo, un calcio…per non avere recitato bene?
Era malato? Forse. O era malato il suo amore? Forse. Perché chiederlo, chiederselo? .
C’ erano i bambini. Uno piccolino e una adolescente. Accettare per proteggere. Sapendo che era la consegna all’inferno della sua anima.
Lei le aveva dato conforto e consiglio. Parole vuote senza il convincimento della vittima che è vittima e che il Carnevale dura solo sette giorni mai tutta una vita!
Era andata via. Voleva solo sfogarsi con chi avrebbe mantenuto, suo malgrado, il silenzio. Per dovere. Per onore. Odiando entrambi questi precetti.
Era tornata dopo un anno. Uno zigomo violaceo e varie ecchimosi sulle braccia.
– Ha fatto indossare il vestito di Carnevale alla mia bimba! Dobbiamo salvarla. Sono pronta! –
Era pronta adesso. Finalmente la Donna aveva gettato la maschera.
L’Erinne che era sopita si era svegliata dal satanico torpore. Per un Amore più grande.
Una donna si spogliava della sua maschera.
Un’altra indossava la sua toga per regalarle l’Ultimo Carnevale!
nell’immagine: Antonio Montariello, Salto, olio su lino 80×90, 2019
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