foto di Fulvio Mantoan
CONCORSO LETTERARIO QUESTO NATALE 2020
Regolamento. Al termine della lettura della storia, puoi lasciare il tuo giudizio. Vince la storia che riceve più Like. Il concorso termina il giorno di Natale. Il vincitore sarà proclamato il 26 e riceverà in dono tre libri degli autori del Blog
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TUTTE LE STORIE IN CONCORSO
DICEMBRE 2020 di Maria Ester Mastrogio
Sarà successo qualcosa di strano! Sta di fatto che non avevo mai visto per così tanto tempo di seguito i miei signori.
Negli ultimi anni soprattutto, spesso sono rimasta sola anche per due tre mesi. Era tutto un fare e disfare valigie. Era tutto un via vai di persone, i figli, gli amici dei figli, amiche, amici, a pranzo, a cena, durante il giorno, e una volta l’anno, a Natale, la mamma della mia signora e suo fratello.
Già, Natale! Gli altri anni gli addobbi, colorati e festosi, il piccolo presepe di sughero, le luci nell’ingresso e nel salotto erano già stati tolti dalle scatole, dalle buste e messi nei soliti modi con alcune variazioni. Alla signora piace cambiare sempre qualcosa. E ogni anno compra qualcosa di nuovo da aggiungere o per sostituire un decoro rotto.
Fuori nel ballatoio, appesa con un nastro rosso ad una trave del tettuccio, c’era la lanterna di Babbo Natale, a forma di casetta di ceramica con il tetto rosso e le pareti bianche con le finestrelle, dove lei all’imbrunire metteva una candelina; un festone dorato annodato con garbo al pomello della porta d’ingresso, e delle campanelle luccicanti d’oro e rosse appese alle verdi imposte napoletane, qui le chiamano fiorentine, che si affacciano dalla finestra sul ballatoio. Appena entrati nell’ampio ingresso, una volta ci facevano così, luci intermittenti erano sul corrimano della scala interna, al lampadario dei fiocchi di neve e sul lato superiore dell’armadio un festone di azzurro luccicante con delle palle colorate che dall’alto scendevano ai due lati. E poi in salotto il tripudio dell’albero fittamente decorato e tante luci e altri festoni, uno dorato sullo specchio dalla cornice antica dorata con una grande stella al centro, uno sulla credenza e uno sull’angoliera, arricchiti da alcune palline natalizie, e sui vetri del balcone ora luci ora adesivi colorati.
Detto così sembra una cosa esagerata, come le luminarie che si fanno al Sud durante le feste di paese e che oggi sono state esportate anche al Nord durante le feste di Natale: piene di luci colorate fitte fitte, ogni anno un po’ diverse. Chissà, forse per lei c’è anche questo ricordo del suo luogo d’origine. Ma fa un effetto d’allegria, come il sorriso che strappa a chi la guarda, una bambina che non vuol dare limite al suo gioco e ci si butta con passione, a capofitto. Ti contagia, ti dà calore. Mi sento coccolata, contenta!
Sarà successo qualcosa di strano! Quest’anno ancora nulla è stato fatto e siamo al 14 dicembre! E poi non viene più nessuno in visita!
La sento rispondere al marito che le chiede inquieto se farà l’albero, che ci pensa, ma non ne ha voglia e che vorrebbe fare qualcosa, forse la farà. Lui fa già tante cose in casa e fuori, fa la spesa, cucina, prepara la tavola, la sparecchia, mette i piatti nella lavastoviglie, riordina quello che lui stesso ha disordinato. Addirittura la chiama quando tutto è pronto, lei arriva, commenta il profumo del cibo prima ancora di assaggiarlo, si siede, lui le serve il pasto e dopo il primo boccone in genere, gli dice com’è, e quando gli dice che è proprio buono sa di farlo contento, sa che è quello che vuole sentirsi dire. A volte ci pensa lei a fare tutto, ma di rado, lui è contento così, lei anche. Tempo fa l’ho sentita mugugnare: decidere cosa mangiare è un potere, lo dice con il sorriso ma con aria di sfida, come a dire, lo conosco il tuo giochino – e vuole che lui le chieda se le va bene il cibo che ha deciso. Lui un po’ ha resistito a queste lamentele, ma quando lei come al suo solito senza tante parole, è una decisa, dalle parole passa subito ai fatti, si è infilata in cucina per stabilire cosa mangiare, lui ha capito che sarebbe stata una lite continua o avrebbe dovuto accettare le sue decisioni, e siccome ci tiene molto a fare lui – cosa e quanto mangiare- allora negli ultimi tempi ogni giorno lo sento chiederle se le va bene il menù del giorno, o cosa fare fra due alternative.
No, non credo proprio che a lui venga in mente di fare l’albero di Natale. Lo ha fatto sempre lei e solo lei. Lei, come avrete capito, non mi dà molto del suo tempo, ma io lo so che mi ama lo stesso. Me ne accorgo dal modo con cui mi osserva e dalla cura di tanto in tanto che mi rivolge: mi ringrazia e mi sorride e quando fa così mi fa sentire importante, so di fare davvero parte della sua vita. Ogni volta che parte mi saluta e ogni volta che ritorna mi dice che è contenta di rivedermi e mi chiama con vezzeggiativi così affettuosi! E poi quando mi mette le mani addosso, mi sembra un folletto impazzito, tutto torna splendente fino all’ultimo angolo e c’è un’aria di pulito che solo di rado l’altra signora che viene per riordinare riesce a creare. Alla mia signora va bene così: cucina e bagno pulitissimi, lì interviene se vede che non è come dice lei, il resto se c’è un po’ di polvere non importa.
Quest’anno poi, deve essere proprio un anno particolare, fra marzo e aprile, l’ho vista fare cose mai viste: lei si è definita ape operaia, una che sta spesso sui libri e di manuale fa pochissimo, anche se quando ci si mette le piace molto. Addirittura, quando improvvisamente me la sono vista sempre dentro, si è comprata carta vetrata e vernici e ha prima pulito e poi dipinto tutte le inferriate del balcone, dei cancelli d’ingresso, della scala a chiocciola che era ridotta malissimo fra ruggine e strati antichi di vernice. Il tempo era quasi sempre bello, freddo ma muovendosi si poteva stare. Lei diceva che non si poteva uscire e allora stava sempre fuori a fare questi lavori. Si alzava presto la mattina, come al suo solito, faceva l’ordinario quotidiano, in quei due mesi la signora delle pulizie non veniva, e poi montava il suo turno di lavoro quasi come se fosse un’operaia. Il pomeriggio lui quasi la obbligava a rientrare: era freddo, era troppo, le poteva venire un raffreddore o il mal di schiena. Lei a volte lo ascoltava, a volte no. Non l’è venuto mai un raffreddore e nemmeno il mal di schiena, un pochino forse quando proprio esagerava. Quando pioveva o era stanca si fermava, ma dentro ferma ferma proprio non riusciva a stare, si metteva sul suo tappetino azzurro scuro e faceva yoga, da sola o con la lezione online.
Ora se non farà nessun addobbo un pò mi offendo, un po’ mi dispiace anche per lei. Quando fa così vuol dire che c’è qualcosa che non va, ormai la conosco. Ma forse… ora che l’ho vista scrivere di me e di questi addobbi mancati, la vedo sorridere… forse fra poco salirà nella soffitta per darmi la gioia di vedere aria di festa. Sì, ho visto che lo ha scritto! Evviva e Buon Natale!
QUEL NATALE DELL’OTTANTASEI di Pier
C’era l’albero. Quello vero, quello che si comprava in Via Luca Giordano davanti alla scuola. Erano accatastati a gruppi di una decina e appoggiati alla cancellata della Scuola Statale “Luigi Vanvitelli” di fronte ad una panetteria i cui profumi riempivano la strada per decine di metri. Si andava lì, si sceglieva con cura: era mio padre che lo faceva e, da sempre lo accompagnavo, silenzioso, annuendo alle sue scelte che mi sembravano ogni anno sempre meno perfette.
Poi l’albero prescelto veniva sistemato di fronte alla finestra in un angolo del salotto buono, dove c’erano i mobili ed il tavolo con il piano di opalina, sfrattando quello più piccolo, quadrato da gioco, con il panno verde incollato sopra.
C’erano le palle. Racchiuse in una lunga scatola rettangolare, quella che veniva usata per regalare le bottiglie dei liquori, Stock 84 e Vecchia Romagna, che scendeva dall’ultimo ripiano in alto dell’armadio a muro.
E poi le lucine, sistemate da mio padre in due file distinte: una di luci colorate intermittenti dalla forma di candelini e l’altra, piccole e tonde, dalla luce fissa.
Il rito dell’albero apriva il Natale, il periodo dell’anno a più alta intensità emotiva.
Il rito rimase identico quando da sposato andai a vivere, con la mia famiglia a Via Leopardi, a Fuorigrotta.
E il 25 dicembre dei primissimi anni ottanta la festa ruotava attorno alla scoppiettante allegria di mia figlia Verena, che dalle primissime luci dell’alba cominciava a girare per casa indossando la vestaglia della madre che strusciava per terra come il velo di un abito da sposa, finendo immancabilmente i suoi giri davanti all’albero a soppesare i tanti pacchetti con le carte colorate con campane, slitte e barbe bianche e cappelli rossi disegnati sopra.
Sapeva che non doveva toccare e così stava ferma lì, desiderante.
Bisognava aspettare i nonni e, solo prima del pranzo, avrebbe potuto scartare, con frenesia, i pacchetti e gioire e battere le mani e abbracciare e baciare ora l’uno ora l’altra del cerchio degli adulti.
C’era tutto anche quel giorno di Natale dell’ottantasei. O quasi: c’era l’albero con le palle, le scatole con i regali, mia figlia che li scartava.
Ma non c’era lei.
Non c’era mia madre, a mangiarsi la nipote con gli occhi, volgendoli ogni tanto verso di me, quasi per ringraziarmi di averle fatto quel regalo, quella bambina, che le “faceva scoppiare il cuore di felicità.”
Se ne era andata ad ottobre, nei giorni a ridosso del suo sessantesimo compleanno.
Da quel Natale dell’ottantasei, il 25 dicembre divenne, per me e solo per me, il giorno più brutto dell’anno.
Mi sono sempre sforzato di esserci, sfoggiando sorrisi e battendo le mani, contagiato a tratti dall’allegria delle figlie che si sono succedute in questi trentaquattro anni, ma continuando sempre ad avvertire il vuoto, il rumore sordo della mancanza che ti sale dallo stomaco.
Iniziava dicembre ed io mi incupivo.
Con gli anni, dopo aver sperimentato tutte le strategie possibili affinché la mia cupezza non guastasse la festa a tutti, mi sono cominciato a concentrare sulle cose di contorno: la scelta del menù, l’acquisto degli ingredienti, i vini e quattro etti di allegria che metti nel sangue con le bollicine. Il 25 dicembre è diventato un giorno di festa, un gran bel giorno di festa, come quelli belli che si succedono nel corso dell’anno e il rito – l’albero e tutto il resto – solo un’occasione di gioco per i bambini.
Questo Natale 2020 sarà tutto diverso. Festa vera.
E’ la Festa Grande del Fort Alamo, di David Crockett e i suoi seguaci che brindano alla faccia dei messicani che non sono riusciti ad espugnarlo.
Si, sono ancora qui, siamo ancora qui. Festeggiamo, ringraziando il Signore.
Mia moglie avrà fatto le frittelle. L’avrò guardata nei suoi preparativi, concentrata a pesare farine, a sbattere le uova, ad assaggiare, a scrollare la testa insoddisfatta, ad accatastare pentole, con la musica di Vasco Rossi a tutto volume, con le bambine che irrompono, inseguendosi per casa, prese dalla loro esplosiva, gioiosa e travolgente fame di vita.
E le abbraccerò ogni tanto: mia moglie alle spalle, baciando il suo collo e facendo finta di resistere al suo divincolarsi, Nina che mi butterà le braccia al collo avvinghiandosi come un Koalino e Vita Mia che socchiuderà i suoi occhietti luccicanti strusciandosi sul maglione “di papà”.
Il vuoto non lo sento più, ormai da anni. Ho solo fantasmi che mi vengono a trovare qualche volta di notte, nei sogni. Come a tutti, credo.
Mi siederò sul divano a guardare tutta quella felicità in movimento.
E immaginerò che accanto a me venga a sedersi mia madre.
Silenziosa abbraccerà tutto con uno sguardo.
E poi ad un tratto: “Pierè, finalmente ti vedo felice” .
IL NATALE, ATTESA DI UN NUOVO DOMANI di Claudia Saba
Spesso, di questi tempi, ripenso al mio Natale.
Quando, poco più che bambina, rientrando dalla scuola,
mi aspettavo di trovare
un grande albero in fondo all’angolo di una stanza.
Ma puntualmente, l’albero di Natale non c’era mai.
Arrivava all’improvviso il 24 dicembre.
Senza luci
Senza stelle
Senza Babbo Natale.
Solo qualche batuffolo di cotone a ricordar la neve.
Grande assente, l’attesa.
Così alla vigilia, prima di cena, ritagliavo della carta colorata, facevo pacchetti e li riempivo di piccole cose trovate in casa.
Un biscotto, un cioccolatino, qualche caramella.
Chiudevo tutto con cura e riponevo i miei “regali” sotto il piccolo alberello.
Guardavo e tutto sembrava più bello.
Nei miei occhi si accendevano i colori.
Ricordavo a me stessa la “cura” che si deve ad ogni persona.
Necessità di bambina.
Sogni.
Perché il Natale è questo.
Un sogno pieno di magie.
Una notte di attese.
Un pacchetto da scartare con la speranza di trovarci dentro
un miracolo.
Io non lo sapevo, allora.
Ma era proprio quello il miracolo che cercavo.
Il miracolo dell’amore.
Un sorriso, un abbraccio che mi avvolgesse e mi tenesse stretta.
Allora, bastava la gioia di sapere che in fondo, il regalo più bello lo avessi fatto io.
Con quelle piccole cose che inventavo per darmi speranza.
In quell’attesa di un futuro pieno d’amore.
Ora so che il nostro domani
è solo oggi.
È in quell’amore che diamo a noi stessi quando ci doniamo agli altri.
INSONNIA di Angela Scaglione
Come sempre, è l’insonnia che si manifesta quando i pensieri mi si affollano in testa.
Ore 02.14, notte tra 8/9 Dicembre 2020
Spalanco gli occhi convinta sia mattino, nella realtà sono-siamo in piena notte.
So che mi stai chiamando, l’ho sempre sentito il tuo richiamo, anche adesso che sei nel silenzio assoluto,
Collegata a macchine che ti aiutano a respirare.
Mi alzo, cerco la solitudine per dialogare con te, cerco il silenzio di una dimensione solo nostra dove tu e io superiamo spazio e tempo e diventiamo una cosa sola.
Da sempre, e più che mai adesso, ti sento vicina, chiudo gli occhi e ti vedo, ti materializzo seduta accanto, sul divano, con l’immancabile sigaretta accesa e quel fumo che impregna l’aria.
So che vorresti un caffè, mi hai sempre riconosciuto più brava di te a farlo. Volentieri te lo farei quel caffè ma prima ti abbraccerei così forte da farti male. Ti prometterei tutte le cose che mi sono impegnata a fare. So che stai lottando per la tua vita e per quella dei tuoi cari. Sei così piccola in quel letto enorme, circondata da macchine e persone che le fanno funzionare. Loro non sanno quanto tu sia grande e forte, non possono immaginare che in quello scricciolo di donna c’è un cervello da lottatrice, un cuore pieno d’amore, una sensibilità unica.
Stai lottando con tutta la tua forza e io sono impotente, non posso raggiungerti, stringerti le mani e dirti quello che mi brucia in gola. Resta qui, non andare via, dammi il tempo di ritrovarti, di dirti, ancora una volta, il bene che ti voglio.
La cosa peggiore di questa pandemia è la solitudine di chi sta male, l’impossibilità di un contatto, la pena di chi nulla può se non sperare, ossessivamente, in un miracolo. Siamo soli a combattere questa condanna estrema, questo virus infame che si è abbattuto sui più fragili. E tu sei fragile, provata da troppo tempo. Non posso fare nulla e questo mi distrugge.
Ricorderò anche questo Natale 2020, come ricordo quello del 1990, allora fu papà ad andarsene mentre io correvo in una notte gelata verso la stazione di Milano. Ricordo quei luoghi, solitamente affollati, vuoti e desolanti. Nella magia della nascita di Gesù, papà ci lasciava e io non ero lì, accanto a te e a tutti voi. Arrivai tardi. Ora si ripete la stessa scena in un contesto diverso. Potrei esseri lì ma non mi è consentito. Tu ti abbandoni e io non sono con te. Il Natale non sarà più una festa, fingerò per i bambini, incarterò libri e regali vari ma, ancora una volta non avrò nulla da festeggiare.
SCENE NATALIZIE DEI MIEI VICOLI di Antonio Salzano
Palazzo Englen, nella parte alta dei vicoli a monte dei quartieri spagnoli di Napoli, fu nella metà del 1700 la prima sede dell’Accademia di Belle Arti e fabbrica degli arazzi e successivamente abitazione dell’anarchico Roberto Marvasi figlio del patriota Diomede, Senatore del Regno d’Italia, grande giurista, allievo di Francesco De Sanctis con il quale partecipò ai moti del 1848, dei pittori Domenico Morelli e Francesco Galante e dello studioso crociano Antonio Altamura, autore del dizionario italiano-napoletano e di oltre cento pubblicazioni sulla storia di Napoli.
Gli anni dell’adolescenza e della gioventù li ho vissuti in questo storico palazzo adiacente all’antica chiesa seicentesca d San Carlo alle Mortelle dove a partire dal giorno da ‘a Mmaculata (Immacolata 8 dicembre) nel tardo pomeriggio per la quotidiana benedizione si udivano le voci straordinariamente angeliche delle ragazze non vedenti del collegio della fondazione Rodinò, “‘e cecatelle“, e il vociare dei pescivendoli che cominciavano ad allestire nella piazzetta antistante, le vasche per la vendita di anguille e capitoni illuminate da enormi lampade, i banchi del salumiere don Ciro posti all’esterno della bottega, con tutti i prodotti tipici del Natale con le immancabili ciociole, noci, mandorle, arachidi e poi datteri, fichi secchi, olive bianche e nere, salami e ogni ben di Dio. La bottega del vinaio ‘o canteniere con la sua merce esposta all’esterno con bottiglie di vino e spumanti per tutte le tasche.
Fino al giorno dell’Epifania, i vicoli erano ad ogni ora del giorno e della notte, una vetrina dei desideri, la voglia di gustare quei cibi tipici del Natale che oggi sono quotidianamente sulle nostre tavole in ogni mese dell’anno.
La voce roca e l’agitare i 90 numeri del suo inseparabile paniere per la riffa, piccola lotteria settimanale di prodotti alimentari, di donna Carmela, mamma di sedici figli, che in quel periodo raddoppiava quel rituale che le consentiva di organizzare la cena della vigilia e del pranzo di Natale per la sua numerosa famiglia.
Immancabile come in tutti i giorni della stagione invernale, don Giovanni ‘o mazzètto, personaggio che sembrava uscito da un quadro del Caravaggio, con la sua cassetta ripiena di fascetti di odori per il brodo – prezzemolo, maggiorana, basilico, mezza cipolla e una carota – per quanti impossibilitati economicamente a cucinare il brodo di gallina o di carne, rispettavano la tradizione consolandosi del buon profumo, meglio privilegiare l’acquisto di un pezzo di capitone e baccalà fritto.
L’angolo abitualmente occupato dal banchetto per la vendita delle sigarette di contrabbando, in quei giorni si arricchiva di ogni tipo di fuoco d’artificio, di quelli consentiti, per gli altri il ritiro era nei posti più disparati, dietro un portone, all’interno di una cappella o in un cassonetto dei rifiuti.
L’esposizione maggiormente ammirata era quella dei venditori di frutta e verdure, la merce sistemata all’esterno della bottega con un ordine di priorità, le verdure tipiche per le minestre e i contorni tipici, il cavolo, i broccoli e arance, mandarini e melloni in abbondanza.
Il brulicare delle decine di ragazzini che riconcorrevano una palla immancabilmente destinata a posarsi sulla merce del fruttivendolo o di altro bottegaio, gridando e chiamandosi a vicenda, un canto meraviglioso come quello delle cecatelle rimasto soltanto nei ricordi di quei cori e di quello splendido vocìo spentosi lentamente come per incanto.
IL PACCO DI NATALE di Carla Bisogno
Mancavano pochi giorni al Natale.
C’era il freddo di dicembre alla fermata della 73, ero in piedi ad aspettare nel gelo delle 7,30.
A quell’ora San Babila aveva già i suoi marciapiedi pieni di persone che si affrettavano e le auto ferme ai semafori.
Quel giorno cominciavo alle 8 e avrei avuto il pomeriggio tutto per me .
Al rientro mi fermai in Duomo, il centro della piazza, meta degli appuntamenti che tante volte per la vastità del luogo, fanno ritardare gli incontri. La mia passeggiata proseguiva avendo molto da guardare e osservare la speciale umanità che brulicava in quelle vie. Avevo scoperto che al Duomo non era conveniente fare acquisti, che invece erano meta preferita di stranieri e turisti danarosi. E siccome ero lì solo per passeggiare, presto tornai a casa poco distante.
Al mio rientro trovai la proprietaria che mi consegnò un grosso pacco avvolto in carta marrone e con i mio nome stampato. Salendo le scale mi accorsi che era pesante e non poco, alla fine lo spinsi tra le ante della porta ed entrai in cucina. Era un pacco mandato dai miei, una sorpresa. Tagliai il cartone e cominciai a scoprirne il contenuto.
Ogni confezione che trovavo era un sussulto, tutto mi ricordava i miei affetti lontani. Era come tuffarmi nella giostra dell’infanzia e abbracciare tutta la dolcezza di quegli anni.Mamma aveva messo anche delle foto e a quel punto le lacrime scesero copiose.
Il pacco di Natale: un surrogato d’amore compresso in una scatola e legato dalle corde del cuore.
LA LETTERINA DI NATALE di Marina Neri
Lei era stata sempre una bimba con la penna. La penna magica.
Lei che amava gli Alpini e i loro canti si era sentita uno di loro, con una penna nera fra le mani e non su un cappello da soldato.
Eppure era un dato di fatto per lei : era un alpino. Scavava trincee dentro la sua anima. Immergeva i suoi scarponi dentro guadi melmosi. E il freddo che sentiva spesso coi morsi della sua solitudine era paragonabile alle gelide acque di quel Piave, paladino indefesso della nostra Storia.
Assodato, quindi, che era un alpino usava la sua penna come un’arma potente, per esternare, per ferire, per combattere e, a volte, anche per pregare.
La usava anche come ammortizzatore nelle cadute vertiginose dalle sue vette di piacere o di disperazione.
E, ogni Natale, l’ alpino, scriveva una letterina. Via via che il Tempo si trasformava in anni dentro la sua divisa, la letterina aveva un destinatario diverso: Gesù Bambino, Babbo Natale, l’ Angelo Custode, Dio.
Aveva nove anni quando una sua amichetta si ammalò di leucemia. Elena improvvisamente era divenuta pallidissima, una creatura diafana, una candelina lentamente a spegnersi. L’ alpino aveva preso la sua penna e aveva scritto a Gesù Bambino.
Dinanzi alle lucine intermittenti di un albero carico di sogni di gioia una bimba scriveva piccole sciocche promesse per chiedere al piccolo Messia un miracolo mentre un’altra bimba moriva.
Aveva pensato che la sua letterina non fosse arrivata a Gesù, che si fosse smarrita fra le pieghe delle nuvole. L’ alpino aveva inforcato la penna quando aveva scritto a Babbo Natale. A tredici anni il rosso dei cuori avrebbe sicuramente indotto il grande nonno ad esaudire il suo desiderio: un amore tutto suo. Un ragazzo a dirle Ti Voglio bene per quello che era.
Ed era una sfera di ragazza senza avere la perfezione della figura geometrica. Ma la letterina chissà quanto aveva viaggiato e in Lapponia non era mai giunta.
Per molto tempo quell’ adolescente aveva scritto favole senza viverne mai alcuna.
Era una giovane tirocinante quell’anno in cui nella sua letterina all’Angelo chiedeva di darle la forza e la sapienza necessaria per salvare la sua famiglia dalle grinfie di una banca dal comportamento criminale.
L’ alpino aveva scritto quella letterina in riva al mare ,mentre il vento di dicembre le scompigliava i capelli, mentre zaffete di salmastro le rendevano più gustose le lacrime. Avevano perso tutto il lavoro di una vita e i risparmi di persone oneste.
E quella letterina doveva arrivare, il miracolo del Natale doveva consentirle di restituire il sorriso alla sua nonna.
Quella letterina arrivò a destinazione tre anni dopo e l’ alpino carezzò la sua penna magica che aveva lottato e vinto in un’ aula giudiziaria.
Era una donna quando scrisse a Dio. Sapeva già che non sarebbe servita a nulla la sua letterina. Il contenuto era conosciuto già dal destinatario.
Ma l’ alpino era presuntuoso e anche in questo caso aveva la convinzione che ” verba volant, scripta manent”.
Era uno scritto strano, parole a fluire in ordine sparso. Ma Dio avrebbe capito. Non era sicuramente un estimatore di retorica. L’ alpino sapeva istintivamente che prediligeva i fatti nel loro divenire. Un racconto verista e senza orpelli.
” Caro Dio sono quel tuo alpino sempre in guerra. Non so perché mi ostino a scrivere di nuovo. Ma credo che sia giusto che tu sappia i fatti senza la cronaca edulcorata dei Santi tuoi. Qui si muore ogni giorno di un morbo strano che ci uccide perché ci fa annaspare e si muore da soli e senza pace col conforto soltanto di una lontana prece.
Son qui a fissare ste lucine, a raccomandarti i figli miei, a dirti che vorrei battesse ancora il cuore , a pregarti per sta terra mia dove si è perso tutto, non trovo col lumicino neppure più l’ onore. Son io, l’ alpino, col mio scarno bagaglio. Lo so, sorridi Dio…e sorrido pure io. Forse è il prosecco o forse la sola fede che conosco. Una penna per far di due parole una preghiera.
Metto punto adesso e spedisco la letterina… fa’ che arrivi, ti prego, questa sera.-
TE PIACE O PRESEPE di Carlo Ceremigna
.era quando pioveva che il vetro della finestra era per lui una calamita irresistibile : gli occhi gli rimanevano incollati. Guardava tutto senza vedere nulla. Ogni goccia si trasformava in un ricordo che affiorava nella sua mente, adornato di particolari indimenticabili. Certi ricordi portano visioni che danno emozioni forti, ma niente in confronto di quelli che ti fanno risentire i profumi e gli odori.
Il tempo della pandemia aveva fermato il tempo degli umani. Era quasi Natale, ma viveva sospeso fra i ricordi, le usanze ed i riti di questi giorni che si affacciavano prepotenti in ogni gesto.
La sua era una famiglia di antiche tradizioni ed il Natale assumeva il ruolo del fulcro attorno al quale tutta la famiglia ruotava più di ogni altra festa. Ricordava l’odore dei fritti che mamma preparava dal pomeriggio della vigilia . Pedissequamente nella tradizione romana: carciofi, baccalà, ricotta, broccoli, mela, salvia.
Risentiva l’odore unico della carta paglia, che doveva essere assolutamente marrone tutta tagliata nelle misure del contenitore e che a contatto con l’olio dei fritti bollente emanava un odore particolare che era per lui irresistibile e quindi scattava il furto di un fritto dal vassoio che mamma stava riempiendo con la paletta di legno che era pronta ad arrivargli sulla mano colpevole…
Ricordava tutti i posti fissi.
Si i posti erano assegnati ed ognuno ne rivendicava la posizione. Il padre aveva voluto ripercorrere la tradizione della sua famiglia : 11 figli dei quali ognuno aveva il proprio posto attorno al grande tavolo da pranzo: ogni ingresso di fidanzato/a moglie o marito comportava l’aumento di un posto per l’ultimo nato ed essendo il primo figlio del 1922 e l’ultimo del 1943 la scaletta era abbastanza frequente.
E rivedeva tutti i volti degli zii ognuno proiettato nelle dense nuvole piangenti. E per ognuno ricordava un gesto, una parola , una caratteristica fisica.
Ed il suo di posto invece a Natale cambiava. Nei pranzi della domenica sedeva a sinistra del padre a Natale, invece sedeva a destra ed a sinistra sedeva il fratello più giovane. La mamma alla sua destra.
NATALE SENZA di Carla Bisogno
Il silenzio di un mattino tutto bianco
Neve fresca , piccoli passi intorno
Alle mie orme grandi
Cappucci rossi, occhi curiosi, nasini arrossati
Baci frizzanti e manine nei guanti
Il pupazzo di neve in giardino e foto sfocate.
La cioccolata calda e i baffi sulle labbra
Ritagliare stelle dorate mentre fuori la neve viene giù lenta, come i pensieri
Si staccano pezzi di ricordi, come vetri di finestre illuminate che raccontano ancora
Conto i giorni al calendario
Di dicembre, ogni giorno un passo
Questo è il Natale dei senza
Senza quelle persone travolte e portate via
Senza un gesto d’amore, senza una carezza
Ancora un anno, ma gelido, ramo spoglio
Dei suoi frutti migliori, terra arida, dura
Priva di quelle teste canute, chine con occhi ancora vividi e ricche di saperi ,
di storie, di vita
Mesi in cerca di una speranza,
Incertezza, muri di
Solitudine, oblio e paura di dimenticare.
Aria forzata di un Natale che non c’è .
BAMBINIELLO SEI SOLO ANCHE TU di Mario Martello
Di questi giorni ormai il Presepe era quasi del tutto allestito.
Richiedeva tempo. Negli anni era diventato via via più grande. Erano sorte case, osterie, laboratori artigiani e le scenografie di anno in anno cambiavano: tutto abusivismo o senza licenze…, come l’ispirazione del momento suggeriva. Il primo Presepe, lontanissimo ricordo, era una semplice, spartana stalla abitata solo da Maria, S. Giuseppe e Bambinello. Neanche il bue e l’asinello. All’ingresso della stalla, in alto era appeso un piccolo angelo con il suo “Gloria in excelsis Deo”. Le annuali puntate di mia madre a Napoli avevano via via arricchito la compagnia con gli acquisti a S. Gregorio Armeno di case e pastorelli per animare nuovi scenari e situazioni. Il progressivo ingrandimento del Presepe fu tale che io e mio fratello dovemmo migrare in altra stanza, salvo trasformaci in comparse presepiali…
Attorno a quella stalla iniziale era cresciuta la gente, s’erano moltiplicati i colori ed i volti dell’allegria e della festa; che fosse la donnina affacciata al balcone, i vivaci avventori d’una affollata, traboccante osteria con i pastori seduti che ogni tanto cadevano dalle panchette di legno, sino al sereno andare del piccolo gregge e l’immancabile pastore. Come se la Santa Nascita avesse avuto l’effetto di far crescere attorno la vita, festosa, allegra, splendente di luci e lucine, una grande comunità, un insieme in cui tutto si legava, anche la figurina più isolata.
Le vicende dell’oggi hanno portato alla chiusura di quell’osteria, la fissità del falegname, dell’arrotino, pizzaiolo o fabbro che fosse è diventata assenza. Innanzi alla Santa stalla non sostano più folle adoranti, gli assembramenti sono preclusi e il coprifuoco fa il resto. A poco a poco attorno al Santo Bambinello s’è fatto il vuoto: non pulsare di vita, né colori o luci di festa… anche l’angelo inneggiante è divenuto afono.
Bambinello mio, anche tu ti sei fatto “solo” come molti di noi. Solo al “freddo e al gelo” come dice la canzone natalizia. Il triste è, Bambinello caro, che non è il dato meteo che pesa bensì il freddo e il gelo della solitudine..
Quante solitudini diverse! La solitudine cercata nel silenzio, la solitudine provocata da un tragico abbandono, quella generata dall’altrui paura o peggio la solitudine dovuta all’altrui indifferenza. Passare accanto alle vite ignorandole, certificandone così l’inesistenza in vita, almeno socialmente, l’essere sideralmente distante da una vita nella quale stai forse inciampando, quasi incomodo ingombro. Che brulichio di sguardi emarginanti, volutamente, sprezzantemente assenti, aridi, persi in un tragico vuoto da sé! E il Covid non è la causa; e solo l’occasione per prenderne atto. Per dirla con Papa Francesco, siamo in presenza della “globalizzazione dell’indifferenza”.
Eppure quando ti giri attorno con attenzione, quando sollevi il velo dell’apparenza scopri tante piccole o meno piccole realtà di generosissime, non appariscenti ma efficaci iniziative verso fasce deboli, emarginazioni, solitudini. Sono squarci di luce, bagliori di speranza.
Caro Bambinello, nell’annunciare la Tua venuta l’angelo ha cantato: “…. E pace in terra agli uomini che Egli ama”. Questa nuova traduzione, piu bella e più vera, sembra insinuare qualche dubbio sugli uomini “di buona volontà “.
No, cari angeli! Sarà un percorso non facile e non breve ma uomini di buona volontà torneranno ad abitare la terra!
Buon Natale…
Non è necessario parlare di Lei perché ognuno di noi, che ha già vissuto questo momento, conserva nel cuore il dipinto più bello di sua madre.
Da allora, però, potete immaginare come ho vissuto i Natali. Sempre con il cuore, la mente e gli occhi alla ricerca di quel volto che ho tanto amato e che tanto mi ha insegnato.
Ma essendo fratello maggiore di tre, divenuto marito di una splendida compagna e padre di uno, due, e anche tre magnifici figli, non ho mai potuto farmi assalire completamente da questa nostalgia.
Ho festeggiato, quindi, nel rispetto delle tradizioni, tutti i Natali che il Signore mi ha donato.
Ma questo Natale, il mio sessantunesimo, lo sento diverso dagli altri e lo voglio vivere nella gioia, nella speranza che quello che sto, stiamo vivendo ci faccia riscoprire il vero senso del Natale.
Quanti Natali ho, abbiamo, vissuto nella gioia mentre tanti altri fratelli, nel mondo, vivevano nella paura, tribolazione, sconforto a causa di guerre, fame, sete, ingiustizie, epidemie.
Oggi che un virus, frutto – a mio parere – della nostra cecità, dei nostri azzardi nei confronti dell’equilibrio ambientale e sociale, è entrato nella nostra vita ci siamo bloccati e desideriamo che questo Natale, se proprio deve venire, passi presto.
No, no.
Voglio cogliere, invece, l’occasione per vivere, davvero, la gioia del Natale; ho, abbiamo tempo, siamo da soli o con i nostri pochi cari, soffermiamoci davanti al Bambino, a Sua Madre e a Suo Padre.
Restiamo in silenzio e tendiamo l’orecchio e il cuore, proviamo ad ascoltare quello che Giuseppe e Maria ci vogliono suggerire per superare la nostra paura.
Loro che hanno provato sgomento quando, in cerca di un posto per far nascere il loro Figliolo, hanno ricevuto solo rifiuti e si sono rifugiati in una grotta.
Lo stesso rifiuto che io, noi, anche nel nostro piccolo, facciamo – ogni giorno – al fratello che incontriamo per strada e che ci chiede un aiuto; lo stesso rifiuto che io, noi, facciamo quando di fronte a violenze, ingiustizie, giriamo il nostro volto dall’altra parte e induriamo il nostro cuore.
Questo Natale, allora, io voglio gioire ed esultare nella speranza che questa paura ci faccia riflettere, rinascere insieme al Bimbo Gesù.
Questo Natale, ci faccia essere uomini diversi, qui ed ora, e riprendere la forza e la determinazione, partendo dalle piccole cose, per realizzare i nostri sogni interrotti.
Ci faccia porre – per quanto ancora possiamo – qualche rimedio a quello che ci siamo dimenticati di realizzare per i nostri figli.
Ritorniamo, per un po’, alle nostre origini: Pastori che accorrono a vedere Gesù e che, come diceva Don Tonino Bello, “…..vegliano nella notte, facendo la guardia al gregge, scrutano l’aurora, Vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono di Dio. Vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi. Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza”.
Buon Natale … di Gioia e di Speranza
Natale era alle porte, tutti erano per strada a guardare le luci dei pochi negozi illuminati a festa, c’era chi si attardava dal macellaio o dal pescivendolo. I fruttivendoli pulivano le verdure per il cenone di Natale e ammucchiavano fuori dall’uscio delle gran cataste di foglie e radici, c’erano i tradizionali “broccoli di Natale” da sempre voluminosi e dei quali si mangiavano poche cime e poi un tripudio di olive, papacelle, giardiniera dall’intensissimo profumo di aceto. Restavi senza fiato e strizzavi gli occhi quando soltanto passavi davanti ai grandi contenitori, protetti alla buona, per i vapori dell’aceto.
C’era chi si tratteneva davanti alle pescherie che mettevano, fuori dal negozio, enormi vasche in cui nuotavano ignare anguille e capitoni che sarebbero finiti sulle tavole di molti per rispettare una tradizione che si presentava puntuale ogni anno.
Le luci e gli addobbi erano pochi ma nell’aria si sentiva profumo di festa.
E poi c’erano i bambini, finalmente liberi di scorrazzare per strada, per i quali si era aperto il grande intervallo delle vacanze scolastiche tanto attese che sembravano durare un’eternità.
C’era una felicità palpabile, quella che sapeva di poco ma odorava di buono.
Di cose semplici, di cose che non ci sono più.
Ero in una fredda sala d’attesa, non stavo bene, avevo manifestato un malessere che non ero riuscita a spiegare a parole e avevo fatto preoccupare mia mamma al punto da portarmi dal medico.
Io non mi ammalavo mai e ne ero persino dispiaciuta. Quanto avrei voluto far un giorno o anche più di assenza a scuola. A 12 anni era per me la trasgressione più desiderata, la invocavo quasi a preghiera.
Mia mamma si era davvero preoccupata, non ricordo nemmeno cosa le dissi. Ricordo perfettamente però cosa accadde dopo.
Sentivo il freddo penetrarmi nelle ossa, scavavo dentro alla ricerca di parole da dire che fossero quelle adatte a far capire il mio stato al mio interlocutore. Mi rimangiavo continuamente le frasi costruite pensando che non fossero adeguate e ad ogni tentativo di trovarne di nuove, ne uscivo sopraffatta.
L’attesa lunga avrebbe favorito questa ricerca, invece mi ritrovai davanti alla porta in men che non si dica, con una voce che dall’interno tuonava un imperioso “Avanti!”
Mia mamma più intimidita di me spiegò brevemente che non mi “vedeva” bene, che aveva percepito qualcosa ma non di fisico, che non riusciva proprio a decifrare e che io non sapevo spiegare. Sconsolata e preoccupata implorò aiuto al medico con uno sguardo.
Devo dire che se c’è una cosa che non mi ha mai fatto difetto è stato l’assurdo mutismo ed ermetismo in cui mi rinchiudevo da bambina. E la situazione era nettamente peggiorata con l’adolescenza per poi proseguire fino all’età adulta. Ricordo solo che leggevo tantissimo e ad ogni scoperta mi sembrava che cadessero veli.
Farfugliai alcune frasi, me le ricordo ancora. Il medico, un uomo né giovane né vecchio di cui avevo grande soggezione, mi ascoltò e sbarrò gli occhi. Mi fece sedere, perché nella foga del mio dire ero ancora in piedi e chiese di ripetere con calma e io lo feci.
“Perché ci sono bambini che non hanno niente e devono accontentarsi? Perché esiste la ricchezza che rende tanto infelice chi è povero? Perché a Natale non possiamo essere tutti uguali? Perché ci sono bambini ai quali la Befana (allora era così) non porta mai ciò che desiderano?”
Vomitai tutto quello che avevo dentro e faceva male proprio come un fiotto denso spinto da una forza interna.
Mi era bastato vedere un pomeriggio una vetrina con dei giocattoli e all’improvviso dentro di me si era rotto qualcosa ma non sapevo cosa. Non ne ero pienamente consapevole.
Raccontai l’episodio al medico che continuava a guardarmi e a non rispondere.
Non ricordo cosa mi disse. Forse nulla che meriti di essere ricordato. Ricordo invece che avrei voluto urlare, io che non parlavo mai. Avrei voluto che quel gesto, quell’urlo liberatorio, si portasse via tutte le ingiustizie del mondo.
Soprattutto perché sentivo che a Natale queste avevano un sapore molto più amaro.
Capii qualche anno dopo, un po’ di anni dopo e non biasimo quel medico per aver avuto paura di dirmi la verità. In fondo, non era nemmeno compito suo.
L’infanzia era definitivamente tramontata.
Non che me lo dovesse dire un medico. Non lo fece, non si sforzò nemmeno di trovare parole che forse meritavo, perché un po’ di quell’angoscia che avevo dentro sarebbe stata alleggerita.
I miei capirono ma, come tutti gli adulti, non pensarono mai di avermi fatto un torto a non parlarne. Erano tempi in cui tante cose venivano taciute, per l’educazione rigida o dai tabù. Ora lo capisco, ora che invece so quanto le parole possono alleggerire quella sofferenza che mi prese a ridosso di quel Natale.
L’infanzia finì in quella fredda sera di dicembre. Ma Natale e la sua magia si sono ripetuti per moltissimi anni. Ho ripercorso i ricordi e ritrovato tutte le cose infinitamente belle che mi sono accadute. Ho avuto le mie giornate felici e dei Natali di tristezza infinita, come il primo senza la mia mamma, vent’anni fa.
E ora che si appresta ad arrivare un altro Natale diverso per tutti noi, voglio credere alla magia, ora che conosco bene il valore di ciò che conta davvero.
L’infanzia finì quella fredda sera di dicembre e cedette il passo alla vita che faceva il suo percorso, non posso che essere grata per aver avuto tanta vita e tante opportunità. Le ingiustizie sono ancora lì, in questo strano Natale stridono ancora di più ma sono certa di vedere da qualche parte quell’inquieta adolescente che mi strizza l’occhio e mi indica la strada.
“Mancano 100 giorni a Natale!”
Con questo post su Facebook faccio sorridere qualche amico, poi al lavoro continuo a dire “95 giorni a Natale”, “50 giorni a Natale” e così via.
Ormai i miei amici mi conoscono. Qualcuno ride qualcuno sbuffa. Per me è una cosa importante: il periodo più bello dell’anno non deve essere dimenticato. A Natale, si sa, sono tutti più buoni e più gentili, le piazze prendono luce, i negozi si riempiono, i visi delle persone si addolciscono, come per magia.
Il Natale entra nel cuore quando sei bambino, e lascia una traccia di colori e di profumi. E poi ti accorgi che passi tutta la vita a ricercare quei profumi, quelle tradizioni, quei ricordi.
Che fine hanno fatto…?
Che fine hanno fatto i mandarini che a Natale si mangiavano seduti nella sedia con la mamma, mentre lei ti raccontava di quella volta che era nevicato moltissimo, e tu facevi un mucchietto di semi di mandarino nell’angolo della tovaglia per poi fare una gara con tua sorella su chi ne aveva trovato di più.
Che fine hanno fatto i famosi cedrini del panettone che nessuno voleva tranne mamma e papà e che tu cercavi di togliere dalla fetta.
Che fine ha fatto il tappo di plastica fatto a funghetto della bottiglia di Gran Dessert che a fine pasto il papà ti permetteva di assaggiare come fossi un adulto e tu in quel momento ti sentivi un grande! E avevi voglia di andare di corsa a raccontarlo agli amici.
Che fine ha fatto il tema di scuola “Racconta le tue vacanze di Natale”, forse uno dei pochi temi che non avevi bisogno di copiare dal compagno.
Che fine ha fatto il regalo di Babbo Natale, che fino alla fine, anche se il tuo compagno di classe te l’aveva detto che non esisteva, tu in fondo ci continuavi a credere. Quel regalo non c’è più! Lo devi scegliere e lo compriamo su UCID online! Per i più piccoli invece lo facciamo arrivare già incartato, l’unica cosa a cui dobbiamo stare attenti è che il corriere non si faccia beccare! Poi i bambini, che non sono scemi, riconoscono il logo di UCID nella confezione e tutta la sorpresa, l’incanto e la magia si rovinano per sempre.
Caro Babbo, quest’anno per Natale non portarci dei doni, ma lasciaci solamente stare con le nostre famiglie seduti a raccontarci qualche storia, mangiando i mandarini ed i cedrini, in compagnia di qualche bicchiere di acqua, zucchero e Gran Dessert.
Caro Babbo Natale, lascia che il sogno, l’incanto e la magia vivano ancora dentro di noi!
LE FESTE NATALIZZIE DE ‘NA VORTA di Marcello
Le feste natalizzie der dumilaventi
non ponno esse come quelle
a casa de mi zio co li parenti,
me l’aricordo, erano propio belle!
Dar 24 infino a capodanno,
quarche sortita fora, na scarozzata,
coperti bene pe nun becca’ ‘n malanno
eppoi arifa’ la solita abbuffata.
Gioca’ a carte infino a la matina,
magna’ le cose bbone preparate,
fa lo scemo co quarche mi’ cugina,
ma sopratutto ammazzasse de risate.
Però er momento maggico arrivava
pei fiji e i nipoti tutti quanti
quanno da Checco zio ce portava,
da quer tipo che abbitava lì davanti.
Lui c’aveva drento ‘no stanzino
‘n baule vecchio pieno de botti
che dispenzava a ogni regazzino
pe’ fa più rumorose quelle notti.
Raudi, bomboloni e tricche e tracche
e quarche artro aggeggio infernale,
allora mettevamo sciarpe e giacche
e ruzzolavamo giù pe’ le scale.
In strada, co’ robba vecchia lì pe’ tera,
buttata pe’ l’usanza giù de sotto,
combattevamo quella nostra guera
sfregando prosperi pe’ accenne er botto.
Ero ‘no scemo, propio ‘n rimbambito.
Fa er dinamitardo pe la via!
Doppo cor tempo un po’ so’ rinsavito,
li botti l’ho proibiti ai fiji mia.
A aricordalli mo’ … che ber cojone…
‘sti mortaretti der ’59!,
ma se fosse, ne lancerei ‘n mijone
pe’ manna’ via ‘sto covid 19.
NATALE 2020? A RIO DE JANEIRO di Alessandro Ranieri
Tutti in spiaggia, con gli amici di Contame
Mare, spiaggia, divertimento e bella vita
“Sognate!
I sogni plasmano il mondo.
I sogni ricreano il mondo, ogni notte.”
(Neil Gaiman)
L’invito, garbato, ma velato, come al solito, arriva da Pierluigi. Un messaggio tramite whatsapp per partecipare al ‘contest’ del blog ‘Contame’ sul Natale 2020. Una storia o un racconto inedito. Ma cosa scrivo?
Mio figlio, Lorenzo, il più piccolo, solo anagraficamente (ndr. 14 anni, ma già 190 cm.) si sta appassionando alla scrittura. Qualche articolo sul giornalino della scuola o dell’oratorio, oltre alle mie ‘imposizioni’ da genitore-dittatore sul tenere il diario personale e fare un paio di temi e riassunti ogni settimana. Leggendo qualcosa sul blog ‘Contame’ mi ha proposto un pezzo a quattro mani. Che forse scriveremo, quando me lo chiederà. Non voglio forzarlo, almeno su questo. Anche perché, essendo come il papà molto competitivo, non vorrei che la sua fosse una sfida a colpi di ‘like’ per vedere chi vince il ‘contest’. E non il semplice piacere di scrivere. Quindi, anche per questa ragione, mi son messo a pensare sul mio Natale 2020 e sulle tante feste passate in giro fra Italia e mondo, ma soprattutto tornando a Napoli, mia città, appunto, natale …
Cosa scrivere? Quanti pensieri. Non so perché, ma non ho ricordi felici, struggenti, come le tante belle storie che ho letto in queste settimane. Le frittelle della nonna di Sara, i vicoli e le botteghe di Antonio, il Natale del 1986 di Pier, le feste de ‘na vorta’ di Marcello, il ‘bambiniello’ di Mario, la ‘letterina’ di Marina, l’insonnia – da me condivisa – di Angela e il mitico ‘Te piace o presepe’ di Carlo.
Invece il mio ‘classico’ Natale era dolceamaro. Che poi si chiudeva con il mio compleanno (ndr. 5 gennaio – notte della Befana), giorno di bilanci e resoconti. Ma soprattutto di ripartenze e quindi di abbandono di affetti e della mia terra.
Partiamo dall’amaro. I miei genitori, sempre propensi al lamento, sottolineavano negativamente il mio girovagare per l’Italia e il mondo. Senza mai prendere in considerazione un minimo di stabilità nella città partenopea. Le sorelle, perennemente arrabbiate per qualcosa che non andava. Soprattutto una ‘malcelata’ gelosia da parte della mia famiglia, in particolare mia madre, su ogni visita fatta ai parenti. Considerato che da papà erano sette fra fratelli e sorelle e mamma aveva due gemelli, già erano le prime dieci uscite non viste bene. Poi qualche amico più stretto, i nonni, le zie e potevo perdere il conto. La scelta era sempre amletica. Rimanere a casa, oppure sentirsi dire: “… ma come, non mangi o ceni a casa? Vai dai tuoi parenti?”. Insomma, un delirio.
Il dolce era rappresentato dal ritorno a Napoli, la mia terra. Le passeggiate a Montesanto, dove sono cresciuto, le bancarelle che nascono come i funghi, le gare con i fuochi d’artificio, le passeggiate a San Gregorio Armeno, gli aperitivi e i dolci da Scaturchio. Le visite a Santa Chiara dove mi sono sposato e dove ho battezzato uno dei figli; le incursioni nella città sotterranea, o a Mezzocannone, piazzetta Nilo, piazza San Maggiore, il ‘Cristo velato’. Le pizze da Lombardi, Sorbillo o da Michele. O le serate passate a piazza Dante o Port’Alba, fino a sconfinare nei bistrot di piazza Bellini. Itinerari alternativi fra via Toledo, i Quartieri Spagnoli, una pizza a portafoglio da Luise, o qualcosa di più sostanzioso da ‘Ciro a Santa Brigida’. Passando da piazza Plebiscito e i baretti a Chiaia. Le decine di amici che ritrovo fra i locali di piazza dei Martiri, via Bisignano e via Poerio. Le mattinate sul lungomare, respirando l’aria salmastra, partendo dal Circolo Canottieri, le chiacchierate da Marinella, con Maurizio a piazza Vittoria e il sole che scende a picco fra Villa Pignatelli e la Villa Comunale. Una visita in piazza dei Martiri. Oppure inerpicarsi da via Posillipo, per arrivare alla torre di famiglia (ndr. Ranieri … ahhahaha) e godersi la vista di punta Coroglio, Procida e Pozzuoli. Insomma un paradiso. Altro che dolce.
Questa volta per fortuna, o purtroppo, con il virus, tutti a casa. Io bloccato a Milano.
Forse, proprio quest’anno che volevo scendere, dopo la morte improvvisa di mio padre. Che sentivo la voglia di fare il presepe, di sentire il calore della città e dei tanti, troppi, amici, lasciati sotto il Vesuvio. Invece il 2020, iniziato male, sembra stia finendo peggio. La morte di mio zio, poi mio padre, Maradona, Paolo Rossi e ora anche il mancato miracolo di San Gennaro. Al quale ho assistito qualche volta, in un misto di fede e scaramanzia.
Mi arriva addirittura una telefonata dal papà di un mio assistito che per convincermi a sottoscrivere dei prodotti assicurativi, che mi sottolinea che il Covid non scomparirà più. Insomma, un disastro. E cosa devo scrivere per Natale? Eccola la lampadina. Il genio di Aladino che mi soccorre. Da quando sto proponendo il nostro libro ‘Il tempo del coronavirus’, più di un editor mi ha sottolineato come la massa, i lettori e soprattutto le donne (ndr. la quota maggiore di clientela acquirente nelle librerie, dati riservati di una nota casa editrice) hanno voglia di storie a lieto fine. Almeno in questo periodo. Di un bel ‘cine-panettone’ alla Vanzina. Eccola l’idea.
Come sarà e quale sarà la mia storia per Natale 2020? ‘Natale a Rio’. Con gli amici di Contame.
Grazie all’ottimo lavoro del ‘tesoriere’ Ernesto e soprattutto con le dritte del super-presidente Pier, gli introiti della neo-nata associazione vanno a gonfie vele, con il prestigioso lavoro del comitato di redazione composto da Anna, Patrizia e l’onnipresente Ernesto. Viaggio premio e un po’ di ‘pocket money’ in busta per tutti. Viaggio e soggiorno a carico dell’associazione (ndr. sperando di intercettare più ‘like’ possibili per il ‘contest’!).
Dall’alto del magnifico terrazzo dell’Orla Copacabana Hotel di Rio De Janeiro, mio storico quartiere generale delle visite brasiliane col fratello di latte, fraterno amico, nonché testimone di nozze Ivan Faustinho Canè (figlio dell’indimenticatibile bomber del Napoli), mi godo la vista in spiaggia di Pier con i suoi pantaloni africani. Con Nina e Vita Mia che gli corrono intorno e Sara che prova a scrutare i pensieri e le idee del popolo verdeoro, si informa sulle possibilità di fare qualche incursione nelle ‘favelas’, chiede della ‘Rocinha’, ma che poi decide di buttarsi in acqua (ndr. attenzione alle asciugami, ai sandali e soprattutto a qualsiasi oggetto che abbia un valore).
Ernesto che vaga per il quartiere di Santa Teresa, visitare l’Escadaria Selaron, puntare il Centro Cultural Municipal Parque das Ruínas, ma facendosi tentare dal Mercadão de Madureira.
Antonio, Ciro, Gianni, Mino e Peppe, che protetti dai loro ‘panama’ si godono il mare, le spiagge e le bellezze brasiliane, sorseggiando al ‘Palaphita Kitch’, capirinha o birra e gustandosi feijoada, moqueca, churrasco e acarajé.
Anna, Carla e Marina stanno valutando se attraversare la foresta pluviale del Tijuca National Park fino alla statua del Cristo Redentore, godendo di una vista spettacolare sulla città, oppure ‘spiaggiarsi’ al sole di Rio. Barbara vuole convincere Maheba a tagliarsi la sua frangetta all’ ‘Art Hair Cabeleireiros’, per poi sfidare il mare sui sup della spiaggia di ‘Praia do Arpoador’. Discutendo con Verena, che non a torto, sottolinea come il mare di Porto Cesareo non abbia nulla da invidiare a Praia do Flamengo. Ma che comunque Lecce o Rio, meglio al mare e al sole, che stare dietro i progetti dell’associazione e soprattutto le indecifrabili indicazioni di Conte (ndr. Giuseppe o Antonio, altri due pugliesi di chiara fama).
Angela finalmente abbraccia la sua ‘cara’, arrostendosi al sole di ‘Praia do Leme’, che ai piedi della collina Morro do Leme, è il punto ideale dove andare ad ammirare i suggestivi tramonti sulla lunga spiaggia di Copacabana, dove sotterrare i ricordi della pandemia e far sciogliere qualsiasi virus.
Carlo, Franco e Mario stanno valutando se andare a Praia São Conrado per prendere il sole, passeggiare e vedere qualche partita di beach-volley o farsi tentare da venti minuti di cammino per arrivare a Barra de Tijuca. Ma è tempo di cena, convocati dal presidente che ci avvisa che per la sera del 24, in barba ai divieti, zone rosse, arancioni e gialle, verdi e azzurri, siamo tutti invitati al ‘Marius Degustare’ per il cenone di Natale. In sandali, bermuda e magliettina. Niente vestiti di gala, nonostante le signore obiettano che qualcosa di un pochino più elegante si potrebbe anche mettere.
Pier ci dice che dobbiamo far sapere le nostre scelte nella sofisticata selezione di carni, pesce e frutti di mare, in un ambiente pieno di charme, esotico e accattivante. Un ristorante surreale. Dove sembra di stare in una vecchia soffitta a testa in giù. Scenografia spettacolare, personale attento e premuroso. Cibo di alta qualità, fresco, vario; carne o pesce. Tutto eccellente, sia per cotture che varietà. Il buffet dei dolci e della frutta da impazzire.
‘Non potete venire a Rio senza passare una sera a cena da Marius’, ci dice Pier. ‘Per i fuochi di artificio ci ho pensato io’, aggiunge Ciro, che ha già familiarizzato con un gruppo di locali. E come faccio a convincere Lorenzo e Jacopo che non vogliono lasciare la spiaggia, sfidando a beach-soccer i loro coetanei brasiliani. Addirittura sono arrivati a Rio, sulla spiaggia di Praia de Botafogo, zio Vittorio e Bianca, con i loro amici in barca, ormeggiati allo Yacht Club, con dietro il verdeggiante Morro da Urca e il Pan di Zucchero sullo sfondo.
Una cartolina.
E’ tempo di prepararsi, per il nostro Natale 2020.
Auguri a tutti …
UNO DUE…TRE STELLA! (E FU SUBITO AMORE)
Quando ho letto la proposta del nostro amico Pierluigi a proposito di un concorso letterario sul tema “Questo Natale 2020”, ho riflettuto a lungo… Certamente volevo participare, dare il mio contributo come ho sempre fatto in questo lungo e difficile cammino che ci unisce forte per affrontare compatti questa straordinaria quanto inimmaginabile emergenza sanitaria e lasciare un segno, un ricordo di questi tempi vissuti diversamente.
Ma pensare di scrivere un racconto per questo Natale, a conclusione di un anno tanto difficile da vivere e superare, mi ha spaventata e rattristata al contempo.
Non volevo cadere nella trappola, ovvero mettere nero su bianco ancora tante parole riguardanti questo virus e su come diabolicamente ci ha trasformato la vita, ci ha costretto a subire lutti familiare, carenze affettive, isolamento, solitudine e dolore…
Stavo per mollare tutto ma poi, stanotte mi sono decisa: questa mia non sarà una STORIA per raccontare questo NATALE 2020, bensì il MIO REGALO di NATALE per tutti voi, soprattutto per i vostri figli.
In un mondo che grida sofferenza, vorrei invitarvi insieme alle vostre famiglie a voler ritagliare un breve momento di puro Amore. Fatelo ovunque vi troviate, in qualunque modo. Soprattutto, fatelo partendo dal cuore: perché è lì che si crea la pace.
Le mie figlie ormai sono grandi e le benedico ogni giorno per essere cresciute così magnificamente, eppure tanto in fretta… Quindi mi rivolgo a voi, che avete ancora dei bambini piccini: che siate genitori o nonni, oppure zii o cugini… non ha importanza!
Sì, dico ai bambini perché forse loro non sanno a pieno del terrore che stiamo vivendo ma comunque, in qualche modo, istintivamente, lo percepiscono tanto quanto noi grandi. Allora, datemi ascolto e cercate un momento di quiete, magari in una di queste sere che anticipano la notte di Natale, quando i rumori della giornata si smorzano e i vostri piccoli si preparano alla nanna.
Provate ad ascoltare il silenzio anche voi: vi stupirete di quante cose si possono sentire.
E poi, sottovoce, iniziate a parlare loro dell’AMORE, la sola speranza di salvezza che questo mondo impazzito può avere!
Perché al di là di tutti i regali che riceveranno i nostri figli, i nostri bambini, è questo che conta a Natale. Anche per loro. Lo avranno sentito dalle maestre a scuola, da un amico più grande, da un sacerdote…ma sentirlo in famiglia ha tutto un altro sapore!
Potete farlo in tantissimi modi, perché l’Amore ha infiniti volti e parla tutte le lingue.
Se per qualunque motivo non trovate le parole…leggete!
Ci sono storie che arrivano al cuore: cercatele, fatene tesoro e condividetelo con i vostri bambini. E se non le trovate, allora leggete questa mia…
Questa bella favole nacque parecchi anni fa dalla fantasia di una bimba di 7 anni, quella di mia figlia Allegra. Io ho solo il merito di averla trascritta allora in qualità di mamma. Insieme volevamo raccontare cos’è l’Amore, come nasce e come da sempre trasforma il mondo, generando Bellezza. Ora come allora, noi ci crediamo ancora. E per questo la dedichiamo a tutti voi, con l’augurio di poter ogni volta che vorrete alzare gli occhi verso il cielo stellato e provare una straordinaria meraviglia, sentendo il cuore inondarsi d’Amore.
Saprete allora che se anche tutto intorno sembra sbagliato, in ciascuno di noi è insito il potere di cambiare. E saprete che non c’è desiderio di valore che grazie a noi stessi non possa realizzarsi. Credeteci fino in fondo.
Ce la farete, ce la faremo!
Anche questa volta …anche per questo Natale!
Stella …e fu subito Amore!
Non tutti sanno che il Sole e la Luna erano da sempre molto innamorati.
Si amavano di un amore profondo, cominciato all’alba dei secoli e maturato nella notte dei tempi, quando ancora non esistevano le stelle.
Per migliaia e migliaia di anni sotto la volta del cielo, le persone osservavano a ogni latitudine sempre la stessa scena.
Di giorno la Luna impallidiva e il Sole attraversava tutto il cielo, cercandola invano tra le soffici nuvole.
A sera era così stanco che finiva per addormentarsi all’ombra di una montagna o sul fondo del mare, mentre invece soltanto allora la Luna si svegliava e pure lei percorreva l’intera volta del cielo in cerca del suo amato.
Ma un bel giorno accadde che un piccolo Angelo che era in attesa di essere inviato sulla Terra per diventare un Bambino, notò la pena dei due innamorati e decise di dare loro una mano.
Rivolgendosi a Dio, disse: «Signore, tra poco sarà il mio turno di scegliere una mamma e un papà, una famiglia dove nascere e una casa in cui crescere».
Rispondendogli con un sorriso, Dio gli chiese se avesse già pensato dove sarebbe voluto andare. «Tu ci hai dato un’unica regola per scegliere la nostra casa: ci hai detto di andare dove vediamo un Amore. Il Sole e la Luna si vogliono tanto bene. Io li ho ho visti, Si cercano per tutto il tempo ma non si trovano mai. Io vorrei tanto avere la Luna come mamma e il Sole come papà!» rispose deciso il piccolo angelo.
A questa richiesta Dio rimase spiazzato. Quando aveva creato l’universo non aveva previsto niente del genere! Così cercò di dissuadere il piccolo spiegandogli che ciò non era possibile in quanto Il Sole è stato creato per illuminare il giorno e la Luna, la notte. Quindi, i due non avevano modo di incontrarsi.
Per il piccolo cherubino questa non era una risposta plausibile: tutti i bambini hanno diritto di vivere dove regna l’ amore…ed egli non aveva mai visto un amore più grande di quello tra il Sole e la Luna!
L’ Angioletto aveva parlato con tanta foga che Dio non ebbe cuore di dirgli di no e quindi si ritirò sulla sommità del cielo per riflettere e trovare modo di esaudire quel desiderio così strampalato. In fondo era giusto: l’Angioletto aveva scelto la sua mamma e il suo papà e l’aveva fatto con tutto il suo cuore.
Quindi ora toccava a Lui far sì che il suo sogno si realizzasse. Ma come fare? Pensa e ripensa, Dio ebbe un’idea.
Ovviamente, per prima cosa, affinché il piccolo serafino potesse nascere, il Sole e la Luna dovevano assolutamente incontrarsi.
Allora Dio chiese al mare e alle montagne di preparare un angolino tranquillo e decorarlo con bellissimi fiori.
Poi chiamò le sirene dal mare e gli usignoli dalle montagne e chiese loro di suonare insieme la più sublime delle musiche.
Infine quel giorno ritardò di qualche minuto il tramonto del Sole, così che la Luna, svegliandosi, se lo ritrovasse di fronte, proprio nel luogo preparato per il loro incontro.
Il Sole e la Luna finalmente poterono prendersi per mano, lanciandosi in un festoso girotondo.
Danzarono insieme per ore, poi il Sole sfinito si addormentò sul fondo del mare e la Luna riprese il suo giro…ma qualcosa di nuovo era nato nel suo grembo.
Nelle notti successive essa apparve nel cielo diversa: era come se la sua pancia crescesse, notte dopo notte, finché divenne bella tonda, come quella di ogni mamma quando sta per dare alla luce un bambino.
Poi all’improvviso la luna si sgonfiò…e una nuova piccola luce si accese nel cielo. Era nata una stella!
Il piccolo Angelo aveva realizzato il suo sogno: era nato dall’amore del Sole e della Luna e ora splendeva nel cielo, tra la sua mamma e il suo papà.
Anche Dio guardò la scena e se ne compiacque.
Da allora ogni volta che il Sole e la Luna si cercano, il giorno e la notte si confondono e la terra e il mare si uniscono per replicare il magico incontro.
Milioni di anni sono passati e il cielo si è popolato di tantissime stelle… Insieme formano una grande famiglia felice, che risplende al di là delle nuvole e anche nelle notti più buie e nei momenti più duri, rischiara i sogni di tutti i bambini del mondo.
Auguri a tutti!
il disegno è di Alexander S.Snape.
LA MAGIA ED IL TRUCCO DEL NATALE di GIANNI SANTARPINO
L’attesa, il senso mistico dell’avvento, l’atmosfera, le vacanze scolastiche e anche il clima, di norma freddo come quello immaginato sul presepe, tutto contribuiva alla magia del Natale, del mio Natale, quello da bambino tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 del secolo scorso.
Dietro ogni magia però c’è un trucco, come l’amaro che viene dopo il dolce.
E per me questa festività significava sì tutto ciò, ma anche un lungo periodo di assenza di mio padre. Il suo lavoro di pasticciere gli imponeva un tour de force che andava dalla ricorrenza dei morti (che a Napoli si “festeggiano” con il torrone) e, senza soluzione di continuità, durava fino al 26 dicembre tra i preparativi delle “basi”- i semilavorati che allora erano tutti fatti a mano- e la produzione vera e propria dei dolci natalizi, roccocò, struffoli, cassate, ecc.
La pastiera no, quella era appannaggio delle feste pasquali, non come ora che si mangia quasi in tutte le stagioni…
Il tempo era scandito così fino al 23 dicembre: lo vedevo per pochi minuti solo al mattino presto intorno alle 5, se qualche rumore in casa mi svegliava, la sera no, rientrava tardi e già dormivo. Il 24 rincasava, dopo due giornate e una nottata di lavoro, intorno alle 19, in tempo per il cenone per poi crollare a letto ben prima della mezzanotte.
Il 25 era a tavola con la famiglia dopo 7-8 ore di lavoro e il 26 idem.
Ovviamente dopo due mesi di lavoro massacrante – provate a rimestare per ore con un cucchiaio di legno lungo un metro in un pentolone del diametro di 70 cm e della profondità di 90 – il suo sguardo e la sua partecipazione erano appannati dalla stanchezza.
Era l’amaro, l’altra faccia del mio Natale. E anche nel confronto con i miei compagni di scuola ne uscivo perdente. Almeno dai racconti: tutti avevano aspettato mezzanotte, giocando a tombola o altro. Noi alle 22 al massimo tutti a letto. E la cosa si ripeteva più o meno negli stessi termini per fine anno, con la variante del rito dell’arrivo del nuovo anno.
Il cenone si avviava con l’arrivo di mio padre, non prima delle 19, poi mia madre spostava in avanti le lancette dell’orologio e simulavamo la mezzanotte alle 21,30 o 22 al massimo.
Al conteggio alla rovescia degli ultimi presunti secondi del vecchio anno seguivano lo spumante e i mortaretti sparati in anticipo su tutti.
Così quando gli altri alla mezzanotte, quella vera, avrebbero fatto tuonare la città per i botti, noi avevamo già salutato il nuovo anno e dormivamo da oltre un’ora e mezza.
Un trucco più che una magia che oggi mi fa sorridere, anche se non nascondo una profonda tristezza per il mio io bambino.
E pensare che erano gli anni “buoni”, quelli del boom economico, già ma buoni per chi e pagati da chi?
Così sorrido alle chiacchiere di oggi, in tempo di Covid, a proposito di messe anticipate alle 20, di cenoni e rientri previsti entro le 22, di Natale “sobrio e diverso” e così via.
Da bambino inconsapevolmente e del tutto involontariamente avevo già precorso i tempi…scambiando ahimè trucco per magia.
BABBO NATALE PORTO’ I REGALI di MARIA ESTER MASTROGIOVANNI
Nel silenzio dell’immaginazione, nel vuoto di aspettative gioiose verso figli, mamma, fratello che coloravano di sorrisi i miei preparativi per ospitarli, riemergono i ricordi vicini e lontani del Natale. Come a riempire un buco fastidioso, che ti fa inciampare e può anche farti cadere. E così, accade: senza voler inseguire il passato, i ricordi si presentano con i toni e i modi di una festa vissuta tante volte e che quest’anno sarà diversa, molto diversa. Che festa sia!
Il rito religioso non mi ha mai visto troppo partecipe. La messa di mezzanotte l’ho vista solo nei racconti di una zia anziana e molto praticante. La nascita di Gesù, pur nella sua grandezza, si riempie di significati e tradizioni molto più antiche, che mi portano a sentire quel formicolio sotterraneo delle radici, mi fanno guardare il cielo e godere di quei secondi, minuti, in più che ricominciano ad allungare i giorni. E a me piacciono molto le giornate lunghe di luce.
L’inverno è appena iniziato, ma già promette la nascita di tutto ciò che vive nel suo stato nascente. Il freddo, la pioggia, i giorni grigi, le giornate cristalline e lucenti, rese più nitide da un vento tagliente. Lo sfondo lontano dell’Appennino dalle cime imbiancate, gli alberi ormai spogli, le foglie secche macerate dalla pioggia, eppure come sono verdi i prati grondanti di rugiada! Sembra che tutto si acquieti, si fermi per riposare un po’, in un sonno che trasforma, rigenera, rinvigorisce. Forse è proprio questo contrasto quello che più mi piace dell’inverno. Una realtà visibile spoglia che palpita di una ricchezza nascosta. Un dentro e un fuori, l’uno contiguo all’altro. La vita nasce sempre nell’ombra. E i contrari si incontrano, si intrecciano in misteriose alchimie. Mi viene in mente il simbolo del Tao, un cerchio diviso a metà da una linea curva, che separa una parte nera ed una bianca, e con due piccoli cerchi, uno bianco nella parte nera e uno nero nella parte bianca.
Ho desiderato averlo addosso questo simbolo, un anello che ho disegnato io stessa insieme all’orafo: il mio regalo di Natale di due anni fa.
Tutto è un fluire e ogni forma si trasforma.
La forma della festa di quest’anno sarà la gratitudine per quello che c’è e non la tristezza di non poter condividere tutti insieme la gioia di ritrovarsi.
E poi ci sono i ricordi, belli e brutti, a farci compagnia e a farsi gustare con il loro sapore dolceamaro.
A Napoli, a casa dei miei genitori, tanti anni fa, l’albero di Natale occhieggiava le sue luci, io ero seduta sul divanetto del soggiorno in punta in punta, così potevo cingere con le braccia, uno a destra e l’altra a sinistra, i miei due piccoli figli in piedi. I loro visi accanto al mio. Non ricordo l’anno, ma erano davvero piccoli, forse di quattro e cinque anni.
C’era un gran silenzio.
Aspettavamo che arrivasse qualcuno.
In quei pochi minuti di attesa sentivo, nel palmo delle mani, nelle braccia, nel petto sulle loro spalle, il corpo teso e caldo e morbido dei miei bambini, il respiro lieve, l’occhio fisso alle luci come un incantamento, come se dall’albero potesse uscire fuori qualcuno. Ogni tanto si stringevano a me, il contatto del loro corpo si faceva più forte sulla mia pelle: ero il loro rifugio, la loro tana.
Quella sera della vigilia, sospesa su un tempo immobile di gioia, un frammento di eternità si è depositato indelebile nella mia memoria.
Con noi c’erano mio padre, mia madre, la creativa artefice di quella scena che di lì a poco sarebbe stata rappresentata, e mio marito. Le luci della stanza erano state spente, rimanevano quelle dell’albero, piccoli puntini di luce colorata, che allungavano tutte le ombre della stanza, come le ombre di quei contadini che la sera fanno la veglia davanti al fuoco del camino a raccontarsi storie o a masticare in silenzio il tempo di una giornata di fatica.
A un tratto suona il campanello della porta, mia madre va ad aprire, si trattiene allungando la sospensione del momento, in realtà aveva da sistemare barba e cappello – rientra, e dopo di lei finalmente appare emergendo dall’oscurità del corridoio in tutto il suo artificioso splendore, Babbo Natale, con il suo mantello rosso, la sua ovattosa barba bianca, un cappello che copriva tutto il capo e un grande sacco bianco sulle spalle. La tensione dei bambini toglie loro quasi il respiro. Gli occhi sgranati su un silenzio assoluto, le labbra semiaperte fra stupore e timore. Babbo Natale apre il suo sacco, un bel lenzuolo bianco, e depone i suoi doni intorno all’albero. Non dice una parola e quando se ne va, ci saluta con un gesto della mano che sa di benedizione. Nessuno si muove. Un sorriso dolcissimo è sul viso di mio padre, una allegria esultante sprizza dagli occhi di mia madre, io quasi mi commuovo di felicità. I bambini sono ancora storditi dall’apparizione. Mio marito, era andato in bagno, si è perso la scena… e allora i bambini insieme a noi a raccontargliela…che peccato che non lo hai visto papà, è venuto Babbo Natale a portare i regali, non ha detto una parola, ci ha salutati e se n’è andato via, ora sarà a casa di qualche altro bambino! Il padre sorride, li guarda e li accarezza.
Riaccendiamo le luci e comincia la giostra dei regali.
Il calore di quel Natale ancora mi riscalda il cuore.
LA MAGIA DEL NATALE di Chiara Paggiola
…. E ogni anno la magia si ripete…..
La storia inizia ogni anno troppo presto, quest’ anno, causa restrizioni, ancora prima!
All’improvviso vai al supermercato e trovi ogni cosa che ti ricorda il Natale: luci, palline, statuine….
A quest’epoca la cosa mi fa male, mi fa pensare a quanto queste festività siano diventate commerciali ed abbiano perso il valore umano e spirituale della cosa.
Ogni giorno di più l’aria “di festa” intorno si colora di addobbi ed ogni giorno di più la mia tristezza e il mio senso di vuota aumentano.
Ogni anno penso di essere diventata un pezzo di ghiaccio, fredda… giro distratta tra tutte queste luci, mi riprometto di non prendere regali se non per mio figlio….poi all’improvviso, all’avvicinarsi delle festività, comincio a sentire il desiderio di confezionare pensieri per le persone a me care, a pensare a cosa le può rendere felici, a dare una qualche emozione e butto giù una lista. Cose semplici, utili….
Gli anni in cui sono più brava compero qua e la’ cose che poi dono, in altri faccio all’ultimo e questa adrenalina che sale mi fa cominciare a sentire che qualcosa di importante sta accadendo, che a ciascuno di noi è data una nuova possibilità!
Negli anni la regina della festa era mia madre; duranti i giorni precedenti faceva i lavori di casa, ci chiedeva di occuparci noi dei regali (fatta eccezione degli abiti che lei confezionava), lei ci dava i soldi, non si sentiva portata a farlo per noi.
Le sere passavano tra le decorazioni, il presepe, l’albero e il concerto di Natale, tradizione indiscussa.
Ma la sera della vigilia, quella era dedicata a cucinare, il pasticcio sempre all’ultimo minuto, anche l’orlo dei pantaloni nuovi non era da meno, ma, tra una corsa e l’altra, tutti in fretta alla Santa Messa di mezzanotte e poi a casa sua con tutti gli amici per la tradizionale cioccolata e altro.
L’indomani pranzo in famiglia con successiva tombola o partita a carte. A casa nostra era ogni giorno Natale…la porta era aperta e mia madre pronta ad accogliere che volesse aggiungersi per condividere.
Ecco il significato del Natale, la famiglia, lo stare insieme.
La gioia nel cercare di capire se avevo preso il regalo giusto era più intensa dello stesso ricevere i miei regali.
Negli anni a venire la gioia del Natale è stata negli occhi di mio figlio, nella tradizione del Babbo Natale che mai è mancato a casa nostra, nello stare insieme.
Ho cercato di coltivare in lui l’amore per le tradizioni che ho a mia volta ricevuto, facendo insieme gli addobbi, nel comprare utili oggetti ai cari, nello scrivere la letterina a Babbo Natale, nell’ascoltare le musiche di Natale e nel partecipare alle iniziative anche religiose del momento.
Oggi il clima è diverso, le sedie sono in parte vuote e quest’anno per colmare quel senso di smarrimento e di solitudine ho deciso di regalare piccoli gesti di gentilezza: una telefonata a chi è solo, un saluto dalla finestra, un messaggio e un sorriso per tutti.
Mi piace lo strascico che lascia questa serie di gesti, il sorriso è difficile per tutti in questo momento, ma trovo siano attimi contagiosi e che colmano anche se in minima parte quel bisogno di abbracci e attenzioni che abbiamo sospesi.
Credo che il più profondo senso del Natale sia questo, guardarsi intorno, voltarsi indietro e vedere l’altro, il diverso, l’ultimo…in termini di possibilità ….di solitudine…
Quante mani in attesa di una stretta nei letti di ospedale…. Quante persone chiuse in casa…sole….piene di paura di contrarre questo maledetto virus.
Mi sento la regina delle piccole cose, quelle che ho imparato e vissuto nella mia infanzia/giovinezza e che sto appunto cercando di tramandare a mio figlio.
I miei genitori in questo sono ancora con noi.
E che sia davvero, anche se diverso, un BUON NATALE!
GLI STRUFFOLI A NATALE di Carla Bisogno
Il Natale è una festa legata alle tradizioni e le tradizioni appartengono alla famiglia. In famiglia si impara ad apprezzare ed amare delle abitudini che poi faranno parte del nostro modo di essere. La cucina e il cibo preparati in casa è come un’impronta indelebile che non si cancellerà mai. Potranno passare anni, potremmo cambiare città e vivere con persone di altri paesi, ma il cibo e il suo profumo resterà nella memoria. A Natale poi ci sono dei rituali talmente radicati e dei cibi che per forza devono apparire sulle nostre tavole. La carrellata di antipasti, i primi e i secondi di carne, verdure e frutta secca, mandarini profumati e arance. Il panettone dolce per eccellenza, non riesce però ad oscurare la bellezza di una corona di struffoli dorati , ricoperti di miele e confettini multicolori. Ogni pallina fragrante e leggera, dolce come si deve, mette in pace il palato provato dai gusti forti del pranzo. Una pallina tira l’altra, gioiosa essenza di questa festa della vita. Quest’anno ancora non ho preparato gli struffoli, emblema del mio Natale, ultimo baluardo e legame alle mie origini campane. Qualche giorno fa ho comprato un bel barattolo di miele…Chissà mi prenda l’estro di impastare e friggere …..
TI REGALO UNA POESIA di Barbara Morello
Ti regalo una poesia
Ti regalo una poesia e,
come una Sibilla,
lascerò che il vento la disperda.
La griderò al cielo così che l’eco
un giorno
ti raggiunga
La reciterò in silenzio
che ti arrivi dritta al cuore
L’affiderò a un libro
perché le tue dita la possano toccare
le darò parole che le tue labbra potranno baciare
le disegnerò una forma
e anche i tuoi occhi la potranno ammirare.
Ti regalo una poesia,
che voce non ha,
perché possa
l’amore.
IN QUELLA LETTERA CHE C’ERA GIA’ NATALE di Claudia Saba
Me ne sto qui seduta dietro i vetri appannati di una finestra che guarda un cielo pieno di ricordi.
Intanto giù la gente va di fretta, il semaforo rosso fa file interminabili di clacson che suonano veloci .
L’orologio del tempo mi riporta indietro, al mio Natale.
Il Natale arrivava prima, una volta.
Te lo portavi a spasso tra i pensieri che in un istante erano parole.
Fino al giorno in cui sfioravi un foglio e insieme alla maestra ne facevi promesse scritte con la penna. Le raccoglievo tutte e le tenevo strette in una busta. A casa poi, furtivamente le nascondevo bene sotto il letto.
La mattina di Natale, rileggevo ancora per essere certa non vi fossero errori, la riponevo sotto il piatto di una tavola, apparecchiata di rosso per le feste.
Restavo in ansia fino all’ora in cui, tutti seduti a tavola, mio padre alzava il piatto e iniziava la lettura.
“Cari genitori, per questo Natale auguro tutto il bene del mondo a voi e a tutti i bambini poveri.
Vi prometto di essere più buona e di obbedirvi sempre. Spero che Babbo Natale porti pace a tutti e che nessuno oggi resti solo”
Applausi per poche e semplici parole che a me però facevano arrossire. Poi abbracci e tante promesse che avrei di certo rispettato.
Si, perché il Natale era questo un tempo.
Una letterina sotto al piatto di una tavola in festa e occhi lucidi che guardavano altri occhi.
E quando alzavo il mio piatto non mancavano mai le mille lire, che un tempo, erano proprio mille lire. Promesse fatte di risposte senza bisogno di parole.
Era proprio questo il Natale. Lento come il nostro tempo.
La gioia di sedersi intorno a un tavolo con la speranza di un abbraccio, di un bacio, di facce piene di sorrisi senza ipocrisie.
Non c’era l’albero pieno di regali e non c’era nemmeno il presepe. Solo una stella di Natale a illuminarci dentro.
Musica e poesia di tempi andati.
Fuori c’è fretta adesso.
Il caos infrange vetri e spazza via il passato.
IL PROFUMO DELLE FESTE di Marilla Lovato
Pensavo che non sarei riuscita a sentire l’odore di Natale quest’anno. Per motivi quasi ovvi, ormai, sentiamo solo parlare della pandemia… Personalmente accendo la TV solo per far vedere i cartoni animati ai miei figli, non guardo un telegiornale ormai da febbraio perché l’argomento è unico, ripetitivo, ansiogeno…. Non riuscirei neanche ad uscire dalla porta di casa se ascoltassi tutte le notizie sul Covid. Così, quest’anno, Natale è arrivato in sordina… In silenzio, in un clima metereologico autunnale. Ho acquistato l’essenziale, i regali da mettere sotto l’albero per i miei bambini. I regali che tanto desiderano ricevere da Babbo Natale. È stato quando ho iniziato a impacchettarli e a pensare dove nasconderli che ho iniziato a sentire il profumo delle feste. A poco a poco, è iniziata quella dolce euforia fatta di ricordi e di attesa che tanto mi stava mancando. Ho pensato così di non interrompere la tradizione di fare una foto natalizia e darla ai miei cari. Scorrendo le immagini nel computer ho rivisto la vita trascorsa quest’anno. Sono immagini piene di sorrisi, di famiglia e di amore. Avevo quasi dimenticato la gita fuori porta fatta con amici a inizio anno… E non solo. La prima corsa in bici senza rotelle di mio figlio, la raccolta delle ciliegie con i bimbi sopra gli alberi, le gite fuori porta in luoghi nuovi… il primo giorno di scuola! Ho stampato così tantissime foto e preparate per amici e parenti. Un po alla volta Natale è tornato colorato e caldo come lo desideravo. I ricordi che resteranno stampati di questo maledetto 2020 non saranno intrisi di ansia e paura. Ripercorrendo le foto vedremo solo sorrisi e felicità vissuti insieme e questo sarà il dono più bello da dare a chi amo in questo Natale 2020.
IL MIO PRANZO DI NATALE di Tobia Aufiero
So già che quest’anno il mio pranzo di Natale non sarà luminoso come l’anno scorso, e non c’entra né la malinconia perché non si può andare a comprare regali, né perché non si potranno invitare a tavola amici e parenti.
Negli ultimi due anni la luce del pranzo di Natale l’ho vista lavorando insieme con i volontari della Comunità di Sant’Egidio di Padova.
All’inizio non ero sicuro che mi piacesse tanto questa nuova idea di mio papà che, come sempre, salta fuori all’ultimo momento e dice a tutti “Che ne dite se quest’anno passiamo il giorno di Natale in modo diverso?”
Ma io sapevo che aveva già deciso e aspettavo con la mia solita curiosità di conoscere questa novità; immaginavo un giro in montagna, oppure la sorpresa di un’intera giornata trascorsa in un grande parco giochi.
Invece la mattina di Natale di due anni fa, dopo esserci scambiati gli auguri e scartati i regali sotto l’albero, abbiamo preso l’auto diretti ad una chiesa del centro città.
Ho pensato dentro di me che a Natale è giusto andare a Messa, ma quando sono entrato in chiesa ho capito che la situazione era diversa dalle Messe di Natale a cui avevo assistito fino a quel giorno. La chiesa era piena di gente e la maggior parte delle persone sembrava sofferente, non di malattia, ma delle difficoltà della vita.
Sentivo ondate di deodorante e alcuni avevano la testa lucida di brillantina.
Non riuscivo a capire cosa c’entravamo noi con quel posto e cominciavo a preoccuparmi, soprattutto quando, guardandomi in giro, vedevo facce davvero poco raccomandabili.
Alla fine della messa dall’altare vennero impartiti ordini a tutti, e in pochissimo tempo i banchi furono sostituiti da una cinquantina di tavolate con le panchine.
Mio padre guardava divertito il mio stupore e, spostando un banco della chiesa con un altro volontario, fece in tempo a dirmi: “Oggi serviremo il pranzo a chi è sempre solo”.
Provai una grande delusione: sapere che non avrei mangiato il pasticcio della nonna e il pandoro mi urtava parecchio. Le tavole furono apparecchiate in grande velocità, e ad ogni tavola venne assegnata una squadra di camerieri che avrebbero dovuto servire il pranzo agli strani ospiti.
Anche ai miei genitori venne assegnato un tavolo e cominciarono subito a sistemare i cestini con il pane, le posate e i bicchieri. Ma io continuavo a non sapere cosa fare, e c’era qualche altro ragazzino che come me si guardava intorno con aria confusa.
E fu così che ad un certo punto mi reclutarono al reparto regali, perché ognuno dei cinquecento ospiti seduto a tavola avrebbe avuto un regalo personalizzato. Insieme con altri volontari iniziammo a confezionare tutti i doni, uno per uno, mentre aspettavamo che ogni squadra di camerieri ci portasse il foglio con il nome degli ospiti seduti alla loro tavola.
Non mangiai molto, un frutto forse, perché c’era molto da fare e dovevamo finire presto, entro la fine del pranzo. Nella chiesa si sentivano i suoni delle risate e della musica natalizia dagli altoparlanti; ogni tanto sbirciavo e vedevo tante persone, di tante età e nazionalità diverse, che mangiavano tranquillamente.
Alcuni consumarono il pasto con il giubbotto addosso, a testa bassa, per timore che qualcuno portasse via il loro piatto, forse per l’abitudine di stare all’aperto.
Finito il pranzo, dopo il panettone, mi fu chiesto di vestirmi da Babbo Natale e, aiutato da altri, cominciai la distribuzione dei doni, tavolo per tavolo.
Fu un momento indimenticabile; ricordo gli occhi di alcuni anziani che stringevano al petto i guanti ricevuti in regalo, e i bambini di una famiglia di zingari: avevano gli occhi che sembravano sempre più larghi per la gioia del pallone che, perfettamente incartato, avevo dato in mano ad ognuno.
Mentre distribuivo i regali, faticando a volte a pronunciare nomi arabi, indiani, nigeriani, e di non so quali altre parti del mondo, pensavo alla mia stanza, calda, pulita e piena di giochi, molti dei quali inutili o mai toccati.
Mi sono sentito fortunato, e ho provato una grande gioia per aver visto con i miei occhi quanta gente è sola e si accontenterebbe anche solo di una parola per rasserenarsi.
Ho chiesto a mio papà di fare il Babbo natale per il pranzo di Sant’Egidio anche l’anno dopo, e la felicità è stata forse ancora più grande.
Ma quest’anno non si può. Anche se viene Natale ugualmente, per tutte quelle persone, che si sentiranno sole un giorno in più.
Mi piacerebbe portare loro una luce nel buio di questi giorni, un annuncio di speranza rivolto a tutti, come ai pastori nel presepio: «Non abbiate paura: vi porto una buona notizia».
Credo che quest’anno ne abbiano bisogno più che mai proprio quei miei amici del pranzo di Natale di Sant’Egidio: chi è povero e solo, chi è senzatetto, a chi è anziano e si sente isolato, e anche chi magari, per la prima volta nella vita, ha dovuto chiedere aiuto, perché è diventato povero a causa della crisi.
Ho sentito dire che la lotta a questo virus si fa anche con la solidarietà.
Ho deciso che se quest’anno non potrò essere presente al pranzo di Natale di Sant’Egidio troverò un modo per regalare a qualcuno di povero e fragile la gioia del Natale.
Allora ho guardato sul mio computer: regalerò un pranzo, seguendo le istruzioni sul sito della Comunità di Sant’Egidio.
Perché “ogni pranzo donato, ogni regalo, porta un messaggio che fa bene al cuore: non sei solo, non siamo soli”.
Se chi legge vuole fare qualcosa, anche poco, insieme faremo tanto!
www.santegidio.org
NATALE AL QUARTO PIANO di Carla Bisogno
Sto lavorando con il mio p.c.,
ma mi son persa nei miei racconti
Pezzi di frasi che ho scritto sulla scia di un ricordo
Si i ricordi, sono quelli che ti fregano sempre
Mentre sei lì che fai qualcosa, ecco che spunta la lucetta, la finestrella colorata, il pezzo di ghiaccio, quella risata che non scorderai.
Passi tra le scatole ben chiuse degli anni trascorsi e apri un foro per sbirciare
Quanti anni avevo quel Natale che avevo tolto le tonsille e in ospedale arrivarono i doni sul mio letto?
E il Natale dei pacchi scambiati? Che risate! In freezer andarono a finire per sbaglio i quadretti di legno invece della cassata siciliana.
Poi negli anni ottanta la mia famiglia con gli zii i cugini i nonni a Natale eravamo tutti seduti nel soggiorno della zia Pia, tra il divano e il tavolo rotondo imbandito , era festa , c’era il buon vino le pizze, i crocche’ di patate. E poi si giocava, ore di tombolate : Tengo io il cartellone! È già uscito il 23? Ecco il primo che grida ambo! vola uno schiaffone! E così si tirava tardi tra uno struffolo e uno scherzo.
Poi nasceva Gesù bambino e per noi era quella piccola statuina tra le manine di Lucia che girava per fargli dare un bacino. La zia intonava Tu scendi dalle stelle e qualcuno cantava insieme a lei . Quando sento questa canzone, mi commuovo e poi sorrido….C’era sempre uno di noi ragazzi che si nascondeva tra le tende per il gran ridere.
Mancano, quest’anno mancano ancora altri
Di allora , dal quarto piano posso sentire
Il suono delle voci , gli scoppi di risa, l’allegria che traspariva da ogni gesto .
Da lontano sparpagliati come siamo e l’amore nel cuore, per tutti.
Un momento ….c’eravamo dimenticati gli struffoli!
24 DICEMBRE 2020 di Marina Neri
Lavorava alacremente. Ininterrottamente, sin dalle prime luci dell’alba le bellissime mani affusolate impastavano, mescolavano, infornavano.
Il profumo si spandeva nell’intorno. La Tradizione, il suo retaggio, ancora una volta venivano salvati.
Il pesce profumato del suo Mediterraneo. Gli agrumi con l’ agro e il dolce del vivere delle genti del Sud. Il panettone soffice e infarcito dell’energia e della fatica della gente del Nord.
Il vino. Oh, sì. Sulla sua tavola non poteva mancare il nettare di tutti gli dei del suo Olimpo. Bianco, Rosso, Rosato. Secco. Frizzante. Fruttato. Morbido. Palati esigenti che non voleva scontentare.
Era un Natale speciale. Chissà come riusciva a mantenere lindo il suo enorme grembiule bianco pur avendo sul fuoco sughi, intingoli vari, salmorigli.
E la tavola. La tavola della Vigilia. Un Rito al pari di quello religioso che in alcuni frangenti della sua vita, addirittura si era affiancato a quello o lo aveva, talvolta, soppiantato.
La tovaglia doveva essere rigorosamente rossa. Scarlatta per dare il senso della festa. Di tutto il cuore che c’ era dentro quei piatti che aveva preparato che abbracciavano, nello spazio di una cena, l’ intera penisola.
Nulla doveva essere lasciato al caso. La specialità sarda a braccetto con il DOC abruzzese. Il Pecorino Romano in un tango passionale con le olive della Piana di Gioia Tauro. Il Prosecco Veneto amante ricambiato di una fritturina di pesce leccese. Le sarde a beccafico che chiedevano la compagnia di un buon frizzantino dei colli pavesi. I friarielli ad inseguire frittelle di baccalà . E le nocciole a volere fare festa con le mandorle.
La candela verde spiccava luminosa al centro del lungo tavolo. Era un mistero come riuscisse, da sola, a illuminare tutta la sala.
Lei era in trepidazione. Tutti quegli ospiti!
Aveva contravvenuto all’ennesimo DPCM. L’ ultimo, quello emanato a ridosso del Natale, prevedeva solo due ospiti . Ma Lei non era riuscita a fare una cernita. Però gli inviti li aveva inviati…a due a due.
Sorrideva complice con se stessa. Sapeva quanto fosse facile aggirare le leggi quando fra le loro maglie vi erano chilometriche contraddizioni.
Mancava davvero poco. Un’ultima occhiata alla sala addobbata a festa. Sarebbe stata una vigilia di Natale memorabile.
Quella di un anno bisesto, funesto, di problemi manifesto, con una previsione di futuro angusto, con tutte le cambiali , i pagherò, le aspettative in protesto.
Ma lei non voleva pensarci. La cena era pronta e gli ospiti sarebbero arrivati. A due a due… Ma sarebbero giunti tutti. Accadeva sempre così, quando era Lei ad invitare.
Ritta sulla soglia aspettò i primi.
Mamma mia come erano emaciati! Incedevano barcollando. I volti pallidissimi e scarni. Recavano i segni del passaggio del morbo che li aveva uccisi. Tornavano a cena, quell’ultima, per salutare, per brindare a un addio, per gridare a un mondo bastardo: -a caso …ho pagato un fio! –
Indossavano un camice gli altri due. Un medico, un’ infermiera. Stanchi. Tremendamente stanchi. Occhi infossati dietro caschi e mascherine. Il passo pesante di chi ha incontrato la morte e le ha chiesto innumerevoli volte :- perché?-
Dietro di loro una poliziotta e un carabiniere. Impettiti ma con fatica. Sulle spalle i pensieri di un mondo malato in cui loro erano frontiera tra un bene e un male spesso neppure più distinguibili.
Un padre e un bambino senza lo sguardo scintillante della gioia di chi dona e di chi riceve quel dono: disoccupato con famiglia. Morde terribilmente la mancanza della dignità.
Eccoli, due partite Iva. Non quelli che hanno giocato con gli scontrini o le fatture ma quelli onesti. Schiacciati da un mercato che idolatra la Finanza e perde di vista il contatto con le genti. Quelli che il 31 dicembre chiuderanno per sempre il conto col Futuro abbassando la saracinesca.
Era gremita la sua sala. Eppure il Silenzio era il sottofondo di quello strano cenone di Natale con quegli strani ospiti.
Un’Arca esclusivamente umana con le umanità di questa strana epoca. Senza doni e senza alibi.
Con il bianco del grembiule, il rosso della tovaglia e il verde della candela a stridere con il grigio e il nero di quegli umori.
Alle ventidue la Mezzanotte della Storia della Speranza che si ripete. In ogni tavola d’ Italia. Quella ricca e quella povera. Quella dove un coperto rimarrà senza commensale. Quella dove tornerà un amore. Quella dove andrà via il coraggio. Quella dove farà capolino nuova fiducia. Quella di un credere ancora.
Quella di una Italia lì, sulla porta, col suo grembiule bianco. Che ci chiama. Che ci aspetta. Che alzerà ancora un calice stasera. In nome di chi non c’è più e nel nome di chi come noi cercherà nel Natale il senso di quel Sole che nasce e, nonostante tutto, riscalda.
Buon Natale a questo nostro Io, oggi, smarrito e infreddolito.
Buon Natale Italia.
QUESTO NATALE di Armando Nocera
Questo Natale
ha un sapore dolce amaro
di resa
La speranza è uscita
a fare un po’ di spesa
L’ultimo sogno se n’era andato
portandosi ogni cosa
e adesso regnava il silenzio
Mancavano le voci dei bambini
il rumore del mare
ed il canto degli occhi
Mancava l’aria
e qualche ora a mezzanotte
Il tempo era trascorso in fretta
dall’ultimo tramonto
e adesso
sembrava essersi fermato
All’orizzonte nessun abbraccio
uno sguardo, una carezza, un saluto
Il vuoto assoluto
faceva più male
di qualunque dolore
Questo Natale
QUESTO NATALE MUTO di Armando Nocera
Questo Natale si è presentato piano, muto, imbavagliato.
Senza braccia e senza mani.
Soltanto gli occhi mostrano il dolore e la voglia di pace.
Le renne legate alla stalla si riposano.
I pacchi abbandonati negli angoli aspettano.
Si sentono lontane soltanto le voci dei bambini e le loro canzoni
Persino Cristo, in croce, si guarda bambino e non parla.
Chiede a suo Padre cosa si può fare e neppure Dio risponde.
Neppure Lui, forse, sa chi è stato a generare tanto male.
Se mandasse un altro diluvio ancora tanti innocenti morirebbero invano.
Sulla grotta del presepe la cometa stava alta e distante come se anche lei avesse paura.
Gli unici a stare vicini, attaccati, erano soltanto i cuori e nemmeno tutti.
Gli altri, quelli che banchettavano, ridevano incuranti per un giorno di ciò che era stato.
La poca gente in chiesa che pregava lo faceva anche per loro.
Salvaci Dio e salva anche loro ripetevano in coro.
Io andai in chiesa la sera prima a cercare un po’ di pace.
La folla era ben disposta tra le navate del Duomo.
Non dissero, come di rito,”scambiatevi un segno di pace”
Allora feci il segno della croce e me ne andai in silenzio per come ero arrivato.
Con il cuore stretto addosso e la speranza in tasca a ripararsi dal freddo.