Da bambina avrei voluto un nome diverso da quello che ho.
La società e quindi il mondo intero per me, agli occhi di una bambina né piccola ma nemmeno grande, era pieno di Anna negli anni ’70 ed è per questo che io non mi sentivo Anna ma una Anna qualunque, una che sarebbe passata inosservata dovunque, una il cui nome era così semplice, così banale che puntualmente non veniva mai ricordato.
E ci soffrivo, eccome se ci soffrivo.
Quando quel qualcuno non ricordava il mio nome ma quello delle mie sorelle allora mi montava una rabbia dentro e maledicevo la mala sorte che me lo aveva appioppato solo per il fatto di essere stata la prima a nascere. Non mi era toccata nemmeno la sorte del doppio nome, perché qualcuno ritenendolo antico e poco modaiolo, ci aveva attaccato dietro un nome alla moda e lo aveva reso altro da ciò che era, lo aveva elevato al rango di nome bello.
E pensavo di essere stata sfortunata. Per un nome.
Non l’ho mai voluto avere quel nome, non mi piaceva, eppure non riuscivo a immaginarne un altro che fosse appropriato, che mi piacesse al punto tale da esserne soddisfatta. Ne passavo tanti in rivista, alcuni anche bizzarri ma niente, nessuno era degno di considerazione, ero convinta, anzi convintissima che tutti fossero molto più belli di quello che avevo ma nessuno veramente mio. Non sono mai stata capace di sognare pensandomi con un altro nome, di vedermi nei miei panni senza il mio nome, di pensarmi come persona senza quelle quattro lettere banali, quel palindromo che mi portavo dentro prima che scritto da qualsiasi parte, perché era dentro che stava e là era sempre stato.
E crescendo, solo allora ho capito che era mio, che andava bene così e fanculo a chi non lo ricordava mai, lo avrei pronunciato io scandendo lettera per lettera, rimarcando la mia identità unita a quelle quattro lettere, uguali a coppia, ricordando a chi mi stava di fronte che ero anche io persona e non fantasma.
Oggi non si usa più, anche se qualcuno scrive che stia tornando prepotentemente di moda ma io credo che sia quasi un atto sovversivo chiamare una bambina Anna, quasi un distinguo in un mondo di Sharon e di Jennifer che rendono banale chi lo porta.
Ma ve la immaginate una Sharon a 90 anni? Io invece mi ci vedo a 90 anni o, almeno, mi auguro di arrivarci, con la grinta di chi ha imparato a dire al mondo
IO MI CHIAMO ANNA!
Mi piace pensare che il nome ci appartenga nell’animo e nella vita come questo nome “scontato” ti appartiene. Per come lo racconti viene davvero da crederci.
Grazie Pierluigi, la consapevolezza è arrivata con l’età ma ne sono contenta. Ho voluto due nomi un po’ meno comuni per i miei figli con l’augurio di poter dare loro quell’identità che io ho ritrovato tardi. Se passi meno tempo a combattere contro te stessa te ne rimane di più da vivere, non credi?
Chiamarsi Anna si può . Per i romani antichi era “graziosa” “piacevole” e la dea Anna Perenna era festeggiata ogni inizio di primavera. Ho colto il “grido di dolore” che non mi è mai parso disperato ma piuttosto confidenziale e si lascia leggere fin dall’inizio con complicità e compiacenza. La scrittura è talmente gradevole che leggendo diventi complice della sua insoddisfazione . Ma sai che la sorpresa finale è un grido liberatorio ed il nome diventa il suo orgoglio ed il suo vanto e riconosce che i nomi di moda passano ma il suo : Anna ,resta per sempre e mai diventerà oggetto temporaneo di moda.