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Osterie

“Sono ancora aperte come un tempo le osterie di fuori portaMa la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta mortaQualcuno è andato per formarsi, chi per seguire la ragioneChi perché stanco di giocare, bere il vino, sputtanarsi ed è una morte un po’ peggiore”

Francesco Guccini, Canzone delle Osterie di Fuori Porta

 

Bologna, la mia città, è nota in Italia (e nel mondo) con gli appellativi di “La Dotta” e “La Grassa”. Il primo le proviene dal fatto che è sede della più antica università dell’emisfero occidentale; il secondo perché non solo qui si mangia bene (come in ogni angolo del nostro Paese del resto), ma lo si può fare a qualunque ora del giorno e della notte in luoghi a ciò specificamente dedicati: le osterie. A quei tempi (i mitici anni ’60) noi studenti universitari frequentavamo per bande sia le aule delle varie facoltà cui eravamo iscritti, sia quei luoghi di svago e di perdizione. C’erano i veneti, quasi tutti a Giurisprudenza, che venivano chiamati “I Veci” (da “ciao vecio”, come dal loro dolce idioma dialettale). C’erano i romagnoli, in gran parte a Ingegneria, che venivano soprannominati “I Passa” (non si è mai saputo se in omaggio a Stefano Pelloni – il celebre Passatore – o se ad una loro specialità culinaria, i passatelli). C’erano i modenesi, sparsi un po’ ovunque, ma principalmente iscritti a Lettere, denominati “I Borlenghi” (da un loro piatto tradizionale a base di lardo, latte, farina e chissà cos’altro ancora). E poi c’erano gli stranieri, per la maggioranza americani, che, al contrario di ciò che avviene oggi, venivano qui da noi a laurearsi in Medicina e Chirurgia. Li avevamo inquadrati come “I Comancheros” (perché, così come i loro antenati fornivano armi agli indiani, ai loro coetanei italiani gli studenti Yankee fornivano jeans targati Lee, occhiali da sole Ray-ban, racchette da tennis Wilson, vinili di Elvis, e altre sciccherie del genere made in USA).

Di osterie ce n’erano a bizzeffe, da quelle più antiche nel centro storico a quelle più periferiche e improvvisate, situate nei vari quartieri fuori porta (baristi che si erano trasformati in osti, perché avevano scoperto che i piatti di pastasciutta e i bicchieri di vino rendevano di più dei flipper e dei biliardi). La nostra era quella del “Becco di legno”, quartiere Cirenaica (così chiamato perché sorto nel fatidico ventennio, per celebrare anche qui da noi i fasti dell’impero). Le compagnie si incontravano e si incrociavano in quei locali scuri, fumosi, dalle panche di legno e dai muri screpolati, e l’oste (Vito) a volte si sbagliava nel prendere la comanda, e ti portava una tagliatella al ragù invece della pasta e fagioli che avevi ordinato, ma andava bene così, e le colpe se le prendeva la moglie, che stava in cucina. Nella banda dei Borlenghi il capo riconosciuto si chiamava Francesco e ne facevano parte, oltre a una dozzina di ragazzi tutti modenesi, anche alcune ragazze, tra cui Sandra, una biondina pallida e timida che cercava di non darla a vedere (come si dice) tenendosi appartata e in silenzio, ascoltando e guardando con serietà e compunzione le nostre sguaiatezze e, a volte, i nostri eccessi. Quella sera il buon Francesco si sedette al suo solito posto e, dopo un paio di bicchieri, annunciò: «Ho scritto qualcosa per ricordare Sandra». E così, imbracciata la chitarra, iniziò il pezzo, intitolato – ci disse – “In morte di S.F.”. In questo modo venimmo a sapere che la poveretta aveva perso la vita qualche giorno prima, in occasione di una gita in macchina in compagnia del fidanzato.

“Lunga e diritta correva la strada, l’auto veloce correva, la dolce estate era già cominciata, vicino lui sorrideva. Forte la mano teneva il volante, forte il motore cantava, non lo sapevi che c’era la morte quel giorno che ti aspettava …”.

Le rime uscivano fluide assieme alle note, e a tutti noi si accapponava la pelle nel ricordo di un’amica che non c’era più. Ebbi così, assieme a pochi altri, il privilegio di ascoltare in anteprima assoluta un piccolo capolavoro della canzone italiana d’autore, che, con il titolo di “Canzone per un’amica”, è diventato un classico, che viene riproposto costantemente ancora oggi in radio, in tv, addirittura nei karaoke.

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