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Ricordi di guerra

Mia madre, nel cuore della notte, mi svegliava ed a bassa voce, lentamente mi diceva:

“Bisogna andare, non aver paura”.

Mi vestivo in fretta, in prossimità dell’ingresso c’era tutto l’occorrente per una “fuga” notturna improvvisa. Fuori ci aspettava una notte estiva, senza luna, ed un silenzio profondo interrotto da qualche rumore di animaletti notturni o da qualche ramo secco schiacciato dalle nostre scarpe.

Era abituale ad ogni allarme di bombardamento aereo incontrarci con altri gruppi ed insieme attraversavamo luoghi e strade di campagna che portavano ad un posto dato per protetto e quindi sicuro.

Si camminava in fila per uno.

Gli uomini maturi parlavano di una certa bomba fabbricata dai tedeschi che avrebbe sicuramente risolto la guerra a nostro favore. Le donne rompevano il silenzio con una recita ad alta voce del rosario, era una cantilena insistente, una melodia salmodica che inteneriva e mitigava la paura.

Noi ragazzi superata la crisi di sonno alternavamo momenti di crisi di pianto a qualche fiaba che una signora con garbo raccontava. Guardavo le stelle quella notte e mi sembravano più numerose e più lucenti di sempre. Ogni tanto venivo distratto da un canto di un uccello notturno o dal rumore amico dell’acqua che scendeva tra le pietre lisce del ruscello. Poi un altro rumore altrettanto noto ma che metteva addosso paura e smarrimento. Era l’approssimarsi degli aerei il cui rumore si faceva da percepibile a forte, fortissimo che sembravano perforare le orecchie.

“Sono americani” diceva un uomo,

“Sono inglesi” rispondeva un altro,

“No, son tedeschi” faceva eco una terza.

Poi come alla festa del Santo Patrono dagli aerei venivano giù dei grossi razzi che illuminavano la terra, e tutta la campagna a vista d’occhio sembrava chiara come a mezzogiorno. Le stelle invece erano scomparse annullate improvvisamente da tanta luce e nell’aria non si sentivano altri rumori se non quello degli aerei. I razzi dicevano i ben informati servivano per individuare esattamente il punto stabilito da bombardare.

Un Signore anziano ci consigliò di tenerci il più possibile separati e di cercar rifugio dietro le siepi. Io domandavo a me stesso dove sarebbero andati gli aerei a portare la morte e la distruzione. Certo i bombardamenti rappresentavano il vero pericolo di vita ma i tedeschi erano in ritirata verso il Nord Italia ed erano come noi impauriti e privi di cibo. Insomma erano più pericolosi del solito. Il giorno prima, in Paese, avevano fissato un cannone sulla Piazza ed avevano puntato la bocca minacciosa verso il Corso. Poi improvvisamente apparvero mostruosi lampi di luce all’orizzonte a cui seguirono spaventosi rumori, assordanti ed il terreno sotto i piedi brontolava, tremava, sobbalzava. Un fruscio di vento gelido mise in fuga gli uccelli.

Quella volta fummo così fortunati che una nostra parente ci fece occupare due “pagliai”
per la notte e finimmo per starci per ben sei mesi.

Noi occupammo il primo a sinistra e la famiglia della nonna quella alla nostra destra. Mia zia, poco più grande di me, aveva battezzati quei due malfermi pagliai niente di meno che “rifugi” e non c’era bomba capace di poterla penetrare. Eravamo nel ventre della vacca, ormai non avevo più nessuna paura ad ogni rumore sospetto mi buttavo a tuffo nel pagliaio e mi sentivo protetto come quando la notte avevo paura e la mamma mi teneva abbracciato e la sentivo dire “stai buono, con me sei al sicuro. Fra poco passa e tu dormirai tranquillo”. Quando le cose
non andavano per il verso giusto lei, mia madre, c’era sempre, era davvero il mio rifugio.

Furono mesi di fame nera e fu in realtà un gara giornaliera all’altruismo.

I miei facevano finta di non aver fame e lasciavano per noi, per me e mio fratello più piccolo, tosti di pane e qualche mela che eroicamente resisteva all’invecchiamento. La notte tremò altre dieci, venti volte ed io mi consolavo nel pensare sono nel rifugio, sono intoccabile, nessuno mi farà mai del male. Mia zia giovane, più incosciente di me cantava le canzoni appena uscite dal canzoniere e mia nonna non vedeva l’ora di tornare al suo amato commercio.

In quei mesi imparai molte cose di cui avrei fatto volentieri a meno. Vissi la paura di un
incontro fortuito con due tedeschi in cerca di cibo che ci minacciarono e ballai su una
montagnola di cenere apparentemente spenta ma che sotto covava le fiamme dell’inferno.

Piansi per la fame in silenzio per non dispiacere ai miei genitori anche se nonna ogni tanto
dal suo grembiule eternamente nero ogni tanto mi passava qualcosa da mettere sotto i denti.

Vidi corpi di persone morte e buche profonde, lasciate dalle bombe, riempite d’acqua piovana
tanto che tutta la campagna sembrava sconvolta, diversa, paurosamente diversa.

Quando tornammo impiegai del tempo per riprendere le mie vecchie abitudini e per molti anni
ancora, pur essendo tornata definitivamente la pace, tutte le volte che sentivo il rumore di un
aereo andavo a nascondermi sotto il letto.

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