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sgt. Ferry

 

Sono, da sempre, un appassionato di motori. Come tutti quelli della mia generazione del resto, ma per me si tratta di qualcosa in più: sono un vero e proprio fanatico. D’altra parte, con un nonno paterno già operaio in Fiat; con un padre tassista di piazza; con uno zio che, dopo avere disputato due Millemiglia (quelle storiche, quelle vere), era diventato titolare di un’industria di componentistica per auto e moto, come potevo crescere diversamente? Il patriarca era (era stato) un uomo Fiat: 510, Balilla,Topolino; questi i “suoi” modelli prima di rinunciare alla guida per l’età (e per l’osteria). Dei suoi due figli il minore, mio padre, lo seguì: 1400, 1500L, 125; queste le auto con cui affrontava il traffico cittadino (dapprima in neroverde, poi in giallo canarino). Mio zio, il più snob (e il più ricco) della famiglia, era invece un uomo Alfa: 1900, Giulietta, 1750; via via sino alla Montreal, auto che forse hanno avuto solo lui e pochi altri. E io? Fiat 500 naturalmente: bianco avorio, interni verde pisello, ruote nere, marmitta abarth. Unico difetto fondamentale: non aveva i ribaltabili (ma, a quell’età, si rimediava facilmente; con posizioni da fachiro ma ce la si faceva). Mio zio Attilio non era stato solo un dandy perditempo, amante delle belle macchine (e delle belle donne), ma era diventato un imprenditore di successo. Sposata una donna se non ricca quantomeno abbiente, era andato a costituire con lei una società e una piccola industria per la produzione di componentistica per auto e moto che, agli inizi degli anni ’60, ne videro di colpo il boom grazie alla sopravvenuta obbligatorietà dei catarifrangenti e delle luci posteriori su ogni tipo di mezzo a motore. L’improvvisa quanto fulminea espansione di quel mercato diedero un tale impulso all’azienda dei miei zii che, nel giro di poco tempo, si trasformarono da piccola impresa artigianale, la “Parafanghi Paioli s.n.c,” a grande azienda industriale, la “Paioli Components srl.”, collocata in quel di Sant’Agata Bolognese, a fianco di un’industria ben più titolata e conosciuta di loro, la Lamborghini spa.
Ogni tanto (di solito di domenica) si faceva un salto a Sant’Agata, per stare un poco assieme e più che altro per portare i nonni (che vivevano con noi) a trovare il loro primogenito, che non vedevano mai perché sempre preso e straimpegnato da questa sua nuova importante attività. Sul retro del capannone adibito ad officina c’era uno spiazzo di terreno incolto (da adibire in futuro ad eventuali ingrandimenti della fabbrica) sul quale era stato allestito una sorta di barbecue: con tanto di forno a carbonella; con un lungo tavolo e relative panche; con un piccolo capanno di servizio completo di ampia tettoia, che si estendeva al di sopra delle nostre teste per ripararci dal vento e dal sole. Quel giorno, un giovedì, mio padre era di riposo; i suoi genitori desiderosi di vedere il loro “bambino grande”; io senza ore di lezione all’università; mia madre, come sempre, accomodante e disponibile. Era la prima settimana di marzo di quel 1966, e la primavera aveva già fatto la sua comparsa dalle nostre parti, con temperature quasi estive. Arrivammo verso l’ora di pranzo e, dopo i saluti e gli abbracci, ci sistemammo all’aperto dove zia Laura, accantonati per un momento i problemi manageriali, aveva imbandito la tavola per tutti. Oltre a noi cinque e a loro quattro (zii e cugini), c’erano il custode dello stabilimento con la moglie e un paio di impiegati: tredici persone in tutto. Il clima era quello festoso delle grigliate all’aperto: mio zio cucinava; mia zia serviva a tavola; gli adulti se la raccontavano; i giovani scherzavano e (a dirla tutta) si annoiavano. Dallo stabilimento lì a fianco (separato da noi unicamente tramite una rete metallica) uscirono due uomini. Uno robusto e tarchiato, con folti capelli neri e un viso dai lineamenti netti, marcati: sembrava una faccia da sergente di cavalleria nei film di John Ford; l’altro, più giovane, era alto, occhiali e pochi capelli, un’aria da intellettuale. «Ciao Lambo», fece mio zio rivolgendosi a Ferruccio Lamborghini, suo vicino di casa e collega, storpiandogli volutamente il cognome, come si usa tra amici, «smettila di parlare sempre di affari e vieni qui con noi così ti rilassi un poco». «Ciao Paioli», rispose l’altro appioppandogli, altrettanto volutamente, il cognome della moglie (come a dirgli: è lei la manager, tu sei solo un cuoco), «se torno a nascere mi dò alla cucina, come te». Si sfottevano, ma si vedeva che erano amici, e che ci giocavano su. «Dai, non fare il difficile», di nuovo mio zio, mentre rigirava le braciole nella griglia, «vieni a darci una mano, non vedi che siamo in tredici a tavola?». La scaramanzia, a volte, fa miracoli. Sgt Ferry (come mi venne istintivo inquadrarlo nonostante non indossasse la divisa da “soldato blu”, ma uno spezzato di buon taglio con tanto di cravatta a fiorellini), congedato il proprio interlocutore (l’ingegner Dallara?) aggirò la rete metallica e venne a sedersi con noi. Strinse la mano ai miei, salutò cordialmente il resto della tavolata, continuò a scherzarci su. «Caro Paioli, non sarebbe ora che ti mettessi a produrre qualcosa di più serio dei parafanghi o degli ammortizzatori?». «Caro Lambo, e come fareste voi industriali dei motori senza i miei componenti, fondamentali per le vostre belle macchine?». Il gioco continuò, tra un boccone di salsiccia e un bicchiere di vino, per tutta la durata del pranzo dove i due uomini continuavano a sfottersi con benevolenza, ma si percepiva che si stimavano e si consideravano l’un l’altro. «Me ne devo andare», disse Lamborghini, alzandosi da tavola dopo l’ennesima battuta in quel suo caratteristico accento tra il bolognese e il ferrarese. «Sono già più delle due e tra poco mi arriva il trasporto per la Svizzera». Quelle parole evidentemente allertarono zia Laura, che aveva un certo fiuto per queste cose: «E che ci andate a fare in Svizzera, fuori dai circuiti di mercato?» «Presento al salone di Ginevra il mio ultimo modello … ». Attimo di silenzio, e di suspense. «Dai, non fare il misterioso», zio Attilio era uno che andava per le spicce. «Dicci qualcosa di più. Siamo amici, non spie industriali!». Sgt Ferry si bloccò per un istante, parve riflettere un poco, poi si decise: «Venite con me». Ci condusse all’interno della sua fabbrica dove, in una sala chiusa a chiave, stava un grosso oggetto ricoperto da un telone impermeabile. «Attenzione», disse Lamborghini tra il serio e lo scherzoso, «preparatevi, perché agli anziani e ai deboli di cuore potrebbe venire un infarto». Così dicendo tolse il telone con un gesto unico e veloce. Focalizzai, all’istante, la più bella macchina che avessi mai visto in vita mia: bassa, larga, con un muso aggressivo, da belva; verniciata di un inusitato arancione brillante; ruote in lega Campagnolo, con moschettoni anziché dadi di fissaggio; fari in orizzontale con lunghe “ciglia” nere, dello stesso colore delle griglie sul cofano e sul lunotto. Roba da infarto, veramente. «E come la chiami questa meraviglia?». Ancora una volta fu Attilio a rompere il ghiaccio, dopo un lungo e assordante silenzio da parte di tutti. «Miura, come la famosa razza di tori da combattimento. L’ho già presentata al salone di Torino l’inverno scorso, ma solo come motore sul telaio: la macchina completa, con questa carrozzeria disegnata da Bertone, compare in pubblico per la prima volta a Ginevra la settimana prossima. Che ne dite?». «Dico che da domani le Ferrari avranno sicuramente vita più dura». Questa volta il commento fu di mio padre, sottolineato dai cenni di assenso di suo fratello e di suo padre. «Con questa metto negli stracci il mio collega di Maranello», concluse il buon Ferruccio con fare pensieroso, a cui evidentemente non era andata ancora giù la famosa battuta del Drake nei suoi confronti: “Tu pensa ai tuoi trattori, che alle macchine ci penso io”. Un’impiegata fece capolino dalla porta: «Scusi Commendatore, è arrivato il camion. Gli dico di entrare?». Lambo parve riscuotersi e, in un attimo, ritornò padrone della situazione. «Lo faccia venire; e gli dica che siamo pronti a caricare». Ce ne andammo, alla spicciolata, salutando a malapena e ringraziando per il regalo, unico nel suo genere, che avevamo ricevuto in quel modo e in quel luogo da parte di quello straordinario personaggio che è stato Ferruccio Lamborghini.
E’ così che la Miura, “la macchina più bella di tutti i tempi”, è partita per il suo viaggio nel mondo e nella storia. Storia che non è ancora finita se è vero, com’è vero, che alle aste più prestigiose del pianeta, i pochi esemplari rimasti, restaurati da mani sapienti, vengono battuti a suon di milioni, siano dollari, euro o sterline. Io, nel mio piccolo, tuttora abbagliato da tanta magnificenza, non posso certo permettermi di partecipare a nessuna di queste aste. Però posso permettermi di andare dal giornalaio che, ogni settimana, mi tiene da parte un kit di montaggio della mia splendida Miura, in scala 1/8. Saranno un centinaio i montaggi che dovrò fare nei prossimi mesi (a circa dieci euro l’uno, per un totale complessivo di più di mille euro: un prezzo equo per il modellino di una macchina che vale milioni). Ma, quando l’avrò finita, sarò anch’io finalmente “in macchina”.
I sogni, si sa, in qualche modo vanno realizzati.

in copertina. Ferruccio Lamborghini e la sua Miura SV rossa nella tenuta di La Florita in Umbria (foto da Corriere.it)  

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