Il mio soldatino preferito aveva un capello a falde larghe ed una giacca lunga.
Per me quel soldatino era il tenente Rip Masters, un personaggio della serie televisiva RinTin Tin, che, da quando avevo poco più di sei anni, ogni pomeriggio per 20 minuti, catturava tutta la mia attenzione e rapiva il mio cuore.
Era un western ambientato in un “forte” abitato da soldati in giubba blu che avevano adottato un cane – Rin Tin Tin appunto – e il suo padroncino di dieci undici anni dal nome Rusty, orfano di entrambi i genitori. In ogni puntata c’era qualche fattoria da salvare dagli indiani o una banda di malviventi da mettere in condizione di non nuocere e tutte le imprese venivano portate a termine con successo grazie al contributo determinante del cane pastore tedesco e con la partecipazione di Rusty.
Una trasmissione semplice rivolta a bambini che, come me, scoprivano la magia della televisione e la sua straordinaria capacità di nutrire le fantasie e i giochi di gruppo dei bambini, quegli stimoli seguendo i quali, nel gruppo, si spartivano i ruoli, dicendo l’un l’altro: facciamo che tu eri…”
Io avevo la televisione, mi mancava il gruppo dei bambini.
Giocavo da solo, sempre.
E giocavo in cucina perché a quei tempi le case, come la mia, disponevano di una camera da pranzo – per le grandi occasioni – di un salotto e di una cucina, oltre, naturalmente alla camera matrimoniale. Ma il più delle volte non avevano una camera per il figlio. E io dormivo, perciò, in un armadio-letto che di giorno veniva chiuso e lasciava il posto alla vita quotidiana della famiglia. Fra il tavolo della cucina e il mobile della televisione si stendeva la mia prateria e le gambe dell’etajer diventavano gli anfratti nei quali si nascondevano gli infidi e pericolosi pellerossa.
La televisione mi mandava un semplice messaggio, facilmente assimilabile alla mia età e che mi permetteva di crescere con una certezza: in qualsiasi situazione di conflitto c’era chi aveva ragione e chi aveva torto, o più semplicemente, ovunque esistevano i buoni e i cattivi. E gli indiani erano senza alcun dubbio i cattivi.
Quando, molto presto, cominciai a frequentare i cinema, sceglievo film che finivano per riaffermare sempre questa mia certezza: il mito della frontiera attraverso il quale avanzava il progresso e la civiltà, e i suoi eroi coraggiosi, che difendevano questa avanzata dall’ostilità degli indiani, eroi impersonati da una schiera di attori con i quali, di volta in volta, mi impersonavo: John Wayne, Gary Cooper, Alan Ladd, Kirk Douglas. A me piaceva da matti Alan Ladd.
Pomeriggi indimenticabili. Ero felice e spensierato.
E poi arrivò “Soldato blu” e sconvolse tutto questo mondo armonico e tranquillizzante.
Il film di Ralph Nelson racconta di Kathy una donna bianca – impersonata da una indimenticabile Candice Bergen – dopo due anni passati in una tribù indiana viene “liberata” dalle giacche blu e nel viaggio verso il forte spiega al giovane soldato Honus quelle che erano, secondo lei, le buone ragioni degli indiani nella loro resistenza all’occupazione delle loro terre da parte dei bianchi, sostenuti dai soldati blu. Il film finisce con la strage di donne e bambini della tribù Cheyenne.
Fabrizio De André avrebbe reso, anni dopo, il dovuto omaggio ai morti di Sand Creek, nel Colorado, di quel lontano giorno di novembre del 1864.
Quel film smantellò ogni certezza, infliggendomi una prima durissima lezione che divenne in quegli anni una scuola per la mia vita: mai accettare quello che ti viene raccontato da chi ha tutto l’interesse ad “arruolarti” in una fede.
“Soldato blu” è del 1970: per me venne a sancire l’opera di progressivo distacco da tutte quelle credenze che mi ero costruito dall’infanzia rispetto l’America e il sogno americano, in realtà costruito sul sangue dei nativi di quella terra.
Quel film segnò il mio Bar Mitzvah, il passaggio, cioè, alla vita adulta il cui orizzonte non sarebbe stato mai più armonico e sovrastato da un cielo sereno e senza nuvole bensì composto da scenari, di volta in volta contraddittori e complessi, abitato da personaggi mai completamente buoni, senza eroi quindi ma, nella migliore delle ipotesi, da donne e uomini che con coraggio e abnegazione perseguono obiettivi di miglioramento delle condizioni di vita di tutti.
Continuo, però, a vedere film e ad amare, irrefrenabilmente il cinema.
Il 29 novembre del 1864, 700 soldati del Colorado Cavalleria, muniti di cannoni, attaccò un pacifico villaggio di Cheyenne, a Sand Creek, nel Colorado. Gli indiani, avvicinatisi pacificamente di fronte all’esercito schierato, con la bandiera americana e una bandiera bianca in segno di resa, vennero comunque attaccati. Furono brutalmente massacrati 500 indiani, 300 erano donne e bambini. Oltre 100 furono scotennati, molti corpi squartati, molte donne vennero violentate. Il generale Nelson Miles, capo di stato maggiore dell’esercito, così definì questo vergognoso episodio. “È forse l’atto più vile e ingiusto di tutta la storia americana”.
Così la didascalia che chiude Soldato blu (Soldier Blue, 1970) di Ralph Nelson
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