Si era nascosto nei suoi pensieri, un luogo davvero impervio, irraggiungibile.
Nessuno passa, neppure lì, accanto.
Il campo di stallo dei treni merce è un deserto di ferraglie e vagoni forgiati conforme l’uso. Di tanto in tanto il silenzio si squarcia e il rumore di ferraglie segna che un convoglio si muove. Un mondo di cose in un viaggio tutto notturno.
Il convoglio si muove lento: la vita s’aggrappa in corsa.
Fauna entomofila ed esseri vitali del suburbio o fuggiaschi.
Il macchinista invisibile, accelera di poco, per seguitare in una corsa lenta, verso chissà quale meta. Principiare un viaggio al crepuscolo che è l’incipit della notte, è da folli: si passa la notte aggrappati a questo mostro di ferro e di legno. Nauseabondi di fumo sulfureo, di nafta, il pilota era Satan, il destino l’inferno. Solo la follia da disperati può permettere questo viaggio a questi sacchi cenciosi legati ed aggrappati ai vagoni.
Jack, pensò tra se che per vivere si tollera, per scomparire s’ignora, mentre ignorava il dolore, perché non voleva morire ma solo vivere, e la vita gli sembrava la persecuzione o una condanna.
Era la sua vita. Non fortunata, nemmeno sfortunata. Patti, aveva saltato e si era aggrappata al portellone, dalla parte opposta, del vagone, sapeva che altri brutti e sporchi come lei, erano aggrappati a quel viaggio verso un sogno.
Tagliare la tenebra a faccia unta di fumo grasso, contro la brezza di pianura settembrina, gli metteva un tremore addosso. Pestava il predellino rigido, di ferro, mentre legava il suo corpo dietro la schiena, alla maniglia del portellone principale. Odorava d’urine, forse di cavallo, si convinse che quel vagone aveva trasportato cavalli.
Andava tutto come aveva immaginato, proprio a lei che rifiutava norme imposte, innovazioni di ogni genere, sperimentatrice di sostanze, espressione di sessualità alternativa. Prevaleva in lei l’interesse per la religione orientale, mentre rifiutava il materialismo anche dialettico, come ogni rappresentazione esplicita e cruda della condizione umana.
Si sentiva cosa, oggetto pesante, appesa a quella maniglia di vagone da bestiame. Aveva veduti troppi occhi morire in diretta. Pensava ancora, solo perché pensare è gratis: “Non ho piani. Né appuntamenti. Né puntelli con qualcuno. Così esplorerò tranquilla. Cuori e Città”
Naufragava con altri verso l’ignoto.
Jack si sentiva sicuro di essere solo, si, ma raccolto nella sua “follia del viaggio” ricordava il primo spinello, regalo per una discreta attenzione, senza scopo alcuno, da una certa Patti, all’uscita dal Selvatico, scuola d’artisti, sperimentatori e pazzi. Iniziarono per quel caso, le sue folli follie, pensava che l’autoreferenza della barbarie, sta tutta nel barbaro che abitava le sue spoglie appese con una corda dietro la schiena, a quel gancio, di carro merci in corsa lenta verso la notte.
Pensava che se avesse incontrato per strada un poeta, un’artista, l’avrebbe preso a calci, fin che finiva a rantolare sulla polvere di gomma consunta della strada. Sapeva bene come e quanto gli artisti abbiano concorso a costruire questo presente, appeso ad un gancio di vagone puzzolente, senza futuro: gente liquefatta, confusa come le gocce della burrasca nel mare in tempesta.
Capiva la ragione che lo aveva legato a quel vagone puzzolente, per un viaggio probabile verso un occidente, alla ricerca di Allen, quell’anti poetante di genere indefinito, dalle parole incazzate contro il presente, come un ebreo, anzi da ebreo.
Il convoglio lento, gli sembrava una serpe di pianura, nera, buia in campagna, lesta e guizzante quando intorno s’accendevano le luci dei contesti antropizzati, luoghi ove milioni di esseri giacevano inermi, in luoghi confinati o celle.
Aderente ad una viscida serpe ma sopra di se, il suo spazio senza confine era trafitto di stelle.
Questo bastava a sopportare la bestia strisciante. Patti s’appisolò sognate, contava solo il luogo dove posare, non era un luogo quel percorso notturno, senza ricordo, nulla poteva toccare o annusare, mentre era presente quell’odore organico, invadente ed arrogante.
Gregory e Neal le dissero di non salire in un convoglio qualsiasi. Attendi la tenebra raccomandarono, solo allora sarebbe partito un convoglio che permetteva di alloggiare nelle torrette del frenatore del vagone. Si sarebbe recato altrove, verso nord ovest , sarebbe passato sotto interminabili gallerie. Questo era un merci di pianura, qualcosa di locale, piccole stazioni con poca luce, nessuna scritta era leggibile, solo rosso, talvolta verde, qualche altra arancione.
La notte infinita, come il viaggio. Una sola infinita galleria più nera della notte, più puzzolente del vagone, alla fine uscirono a riveder le stelle.
Luce scialba, l’orologio sanciva un tempo inesorabile, si stava preparando un nuovo dì, l’ora di slegarsi da quell’abbraccio: Mondovì.
Che stazione è mai questa? Patti si lasciò come un cencio a terra.
Il convoglio si dileguò nel buco della montagna, come serpe che si rintana, scomparve l’odore e il viaggio che non è stato.
Guardò da dove era giunta, vide altri cenciosi muoversi come lei, mentre s’indugiava a raccogliere il suo dignitoso bagaglio, s’approssimò un tale.
“Ti regalo questa canna Patti, che il viaggio ti sia lieve”: disse! Era Jack, quel suo compagno di scuola al Selvatico.
Aggiunse: “sei scomparsa anche se ti cercavo, ti hanno fatto scomparire”.
L’ho definita una scrittura densa e pastosa: mi ricorda i racconti radiofonici di Jack Folla e le atmosfere estreme di Jocker. Gli “esseri umani” che si muovono nella notte ci ricordano il baratro sulla soglia del quale tutti prima o poi possiamo finire con il camminare. Il baratro dell’emarginazione, della solitudine, del vuoto esistenziale, del Nulla. In una società disumanizzata leggo questa storia come un’allegoria moderna del vivere sempre al limite della dignità negata. Una bella storia.
Grazie Pierluigi, è un a metafora del viaggio, un viaggio nella vita.
Grazie Pierluigi, è un a metafora del viaggio, un viaggio nella vita.