Eravamo coetanei, lui mi chiamava Stella, io lo chiamavo Uccellino.
Non ho mai capito come facesse ma conosceva tutte le voci degli uccelli, sapeva dove trovare nidi da mostrarmi e spesso ne aveva qualcuno in mano raccolto dopo folate di vento che lo facevano cadere dagli alberi.
Era un folletto; spariva per giornate intere e nel quartiere si sentiva, alta, la voce della sua mamma che lo chiamava o chiedeva di lui.
Eravamo bambini fortunati, avevamo spazi aperti a disposizione, conoscevamo tutti gli insetti e i piccoli animali che popolavano la campagna che circondava il borgo.
Uccellino riappariva all’improvviso e aveva sempre qualche novità per me. Poteva trattarsi di un pugno di more, oppure di un piccolo rospo a una lucertolina. Sdraiati a pancia in giù nell’erba, ci improvvisavamo esploratori di creature fantastiche e poi li liberavamo con soddisfazione reciproca.
Quel giorno la mamma di Matteo ( era questo il suo nome ) dopo averlo cercato e chiamato inutilmente, bussò a casa mia per chiedermi se l’avessi visto e al mio no, si allontanò dicendo che mancava da un giorno intero.
Non era da lui. Uccellino non saltava un pasto, mangiava velocemente e magari spariva ancora in esplorazione.
Quando fu buio, ci fu trambusto; la mamma era impaurita e chiedeva aiuto agli uomini perché l’aiutassero a cercarlo.
Compresi che era accaduto qualcosa di grave vedendo mio padre balzare dalla sedia e cambiarsi le scarpe, anche il suo viso si rabbuiò; era preoccupato. Avrei voluto andare con lui ma me lo impedì.
Batterono la campagna circostante, palmo a palmo al lume delle torce ma lo trovarono solo la mattina dopo. Il mio amico di scorribande, Uccellino, era caduto in una vasca d’irrigazione. Avevamo otto anni io e lui, Stella e Uccellino, due piccoli esploratori di tanto tempo fa.
la foto di copertina è di Gérald Bloncourt
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