Ho ammirato mia madre forse più come donna che come mamma. Il riserbo delle famiglie di un tempo non dava molto spazio all’affetto, ai baci, agli abbracci. Siamo cresciuti così, noi nati qualche anno fa, poco coccolati. Ho scoperto la tenerezza e la dolcezza di una donna d’altri tempi solo durante la sua vecchiaia, forse perché anche lei si era abituata a nuove atmosfere, a nuovi costumi. Ma percepivo fin da bambina la sua forza, la sua determinazione, come donna. Ero ancora nella pancia quando vinse il concorso, e forse un po’ di quello slancio è passato dal suo al mio sangue. Fatto sta che l’ho vista crescere, mentre crescevo io stessa, in un ruolo di enormi fatiche e grandi responsabilità. Trasferita un po’ di qua e un po’ di là, un giorno fu la direttrice di una scuola a tempo pieno, dove c’erano bambini affetti dalla sindrome di down, o altri ai margini della società. C’erano, insieme agli altri, ma isolati dagli altri. Con forza da leone, pretese! Pretese tavoli da mensa nuovi, dove tutti, ma proprio tutti, mangiassero uniti. Pretese che tutti, ma proprio tutti, frequentassero le lezioni nella stessa classe. Lo sconcerto ci fu, all’inizio, tra la popolazione… Ma poi si andava, per fortuna, verso nuovi orizzonti. Sin da piccola, dunque, ho direttamente conosciuto questi bambini, perché la mamma mi portava con sé, quando poteva, ai pranzi di lavoro, alle recite scolastiche serali. Infatti, era carnevale, e siccome anch’io non avevo molto, anzi poco da mettere, cercavo il mio bel vestito dell’anno precedente da indossare. Il vestito non c’era più! Chiesi dove fosse finito, e mia madre mi disse che lo aveva donato ai bambini della scuola. Probabilmente non mi sarebbe più andato bene, a quell’età si cresce in fretta. Ma ci rimasi molto male, lo ammetto. Oggi, però, ricordo con orgoglio quel costume da strega, nero, con veli di organza e un cappello a punta.
foto di Henri Cartier-Bresson
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