The Sweepers è il nome di una band nata a Napoli negli sessanta. La storia di quella band si intreccia con i sogni, le paure, i desideri e le ansie dei cinque amici che la fondarono, segnando in modo indimenticabile il loro passaggio dall’adolescenza alla giovinezza. Essi – Armando, Paolo, Peppe, Pino e Piero – hanno deciso di ricostruire la storia della band rispondendo, l’uno all’insaputa dell’altro, a tre domande sui primi passi di quella esperienza di formazione. A fare da sfondo della loro storia collettiva sono alcuni degli avvenimenti artistici di quegli stessi anni, mentre il periodo storico di riferimento va dall’assassinio di John Kennedy del 22 novembre 1963 ai primi scioperi degli studenti di Nanterre del novembre 1967, prologo del Maggio Francese.
1. Racconta come si sono formati The Sweepers. Come cominciò tutto, come fu deciso il nome, in che anno ed in che periodo, quali furono le prime canzoni che il gruppo cominciò a provare.
da sinistra: Armando, Paolo, Piero e Peppino. I quattro fondatori della band.
Foto della band nella sua primissima configurazione a quattro. L’unico che non sorride sono io.
E cosa c’era da ridere? Immerso in un inchiostro nero: così mi sentivo agli inizi degli anni sessanta, inchiodato in una solitudine rancorosa dal peso di un senso di inadeguatezza che riguardava tutti gli aspetti: fisico-estetico, ginnico-sportivo, relazionale.
Nei miei centosessanta centimetri di pinguedine non era riscontrabile alcun tipo di peluria e questa situazione si protrasse drammaticamente per quasi tutti gli anni sessanta, mentre giorno dopo giorno e anno dopo anno vedevo i miei compagni di classe trasformarsi, mascolinizzandosi, in sfrontati giovincelli che, in modo sempre di più spericolato, si avviavano alla conquista di qualche esemplare del genere femminile. Pensando che il mondo fosse pronto a deridermi e ad escludermi – ancor prima di sperimentarlo concretamente – mi attestavo in una posizione di difesa ad oltranza, reattivo oltre ogni misura, chiuso solitario ed antipatico.
Ci conoscemmo in un liceo scientifico, anonimo a quel tempo, del Vomero. Frequentammo insieme i primi due anni, poi io andai in un’altra sezione mentre loro tre rimasero insieme, ma ormai i primi atti fondativi della band erano stati gettati. Io andavo a studiare a casa di Armando, e nel tempo anche le nostre mamme cominciarono a frequentarsi. Armando prima, la band dopo, rappresentarono, per me, la boa a cui avvinghiarsi ed il canotto per galleggiare alla meno peggio nel mare nero d’inchiostro di un’esistenza votata alla assoluta emarginazione sociale. Armando, ai miei occhi, deteneva tutte le doti che io avrei voluto avere: simpatico, divertente, disinvolto, amabile con gli altri e “con le altre”: rappresentanti del mondo femminile attraverso le quali – così mi raccontava – approfondiva la conoscenza delle principali differenze morfologiche fra i due sessi. Insomma: un mito. Quando lanciò l’idea di fare una band e mi propose di farne parte, accettai, sebbene mi tremassero le gambe e fossi assolutamente certo che sarei morto di vergogna alla prima occasione. Scelsi come strumento la batteria: non avevo proprio idea di come si suonasse ma mi sembrava l’unica possibilità concreta di partecipare al progetto e mi avrebbe dato l’opportunità di esserci ma un po’ nascosto dagli altri, insomma in disparte in modo che mi si potesse notare anche meno del necessario. Erano i primi anni sessanta. Rimanemmo per un po’ in quattro e grazie a Paolo, quello che se la cavava meglio, cominciammo a “montare” qualche pezzo; ricordo “Apache” perché dovevo fare un accompagnamento particolare, imitando il suono dei tamburi indiani. Avevamo una scarsissima attrezzatura, il che ci impediva di osare esibizioni in pubblico, ma era divertente e per quelli che erano i miei reali obiettivi “esistenziali” era più che sufficiente. Mi affacciavo al mondo della musica, ascoltavo 45 giri a manetta, cominciavo ad affinare l’orecchio e distinguevo il ritmo di ogni pezzo, anche se alcuni “tempi”, soprattutto quelli latino-americani, mi erano particolarmente ostici. Capii che l’unico fra noi che aveva un vero talento musicale innato era Peppino, il bassista, in grado di suonare e cantare ad orecchio e con il quale per vicinanza timbrica ero in stretto contatto. Come band avevamo già dei fan – un gruppo vociante di ragazzini di tutte le età – e qualche volta alle nostre strimpellature venivano le sorelle di Peppino, producendo in me ansie, rossori e patemi d’animo dei quali ho ancora un ricordo vivissimo. Naturalmente mi “innamorai perdutamente” di una delle due sorelle – dal nome programmatico di Berenice – che elessi a mia musa ispiratrice (me de che?), per la quale avrei fatto, nel corso degli anni successivi, pazzie e per la quale avrei sofferto pene amorose lancinanti, ma questa è un’altra storia.
2. Qual’è il ricordo legato al gruppo che tu ti porti nel cuore?
La fraternità che si creò fra noi. Ci volevamo bene. Mi volevano bene: sopportarmi con le mie “paturnie”, nelle mie esplosioni di rabbia incontrollata o nei miei mugugni era, di per sé, un enorme segno di affetto. E poi scoprii con grande stupore la disponibilità di mio padre a darmi una mano in quell’hobby che, viceversa, ero certo che avrebbe bollato come “perdita di tempo”. Ci diede una radio a valvole per adattarla a rudimentale amplificatore, mi regalò un registratore Geloso sul quale incidere le prove che facevamo, ci accolse a casa (la disponibilità di mia madre era scontata), mi comprò tutti i vari pezzi della batteria e qualche volta mi accompagnò con la macchina in giro per le prove o per quelle “esibizioni” occasionali che ci capitò di fare. Negli anni tumultuosi che seguirono, dopo il mio periodo della band, avrei dovuto approfondire meglio quei segnali di amore che mio padre mi mandò allora. Non lo feci. Ma mi accorgo, adesso, scrivendo, che mi sono rimasti nel cuore.
3. Quale fu l’esperienza più divertente che il gruppo ha vissuto?
Non lo so, almeno come gruppo. Per me la cosa più divertente che accadeva quasi ogni volta che provavamo era quando Peppino per indicarci una canzone da provare diceva così: “proviamo quella cosa che fanno i cosi e che fa..” e suonava due note con il basso. Noi ci scompisciavamo mentre Peppe rimaneva serissimo aspettando davvero una risposta. Con il tempo, però, Paolo e Armando impararono a comprenderlo, l’affiatamento (e l’affetto fraterno) integravano le singole bizze personali perché, come si dice a Napoli: o’ figlie mutò o’ capìsc sul a’ mammà (il figlio muto lo capisce solo la mamma).
nell’immagine: Auschwitz è pubblicata nel 1967 da Guccini nell’album Folk beat n.1, un pezzo che fece cambiare la percezione stessa di cosa fosse una canzone. L’aveva scritta l’anno prima e pubblicata dall’Equipe 84. Ma è il 1967 l’anno della “rivoluzione” nella musica: in Italia si cambia pagina, si inventa la nuova canzone italiana. I Nomadi, l’Equipe 84, gruppi beat e cantautori hippy, tutti a caccia di una nuova identità, di una via alternativa nei testi e nella struttura musicale. Debuttarono Guccini e De Andrè, il quale nel suo disco aveva inserito un pezzo “Preghiera in gennaio” scritta ai funerali di Luigi Tenco, morto a gennaio all’Hotel Savoy di Sanremo. In quell’anno i Nomadi pubblicarono “Dio è morto” il capolavoro di Guccini, Gianni Morandi “Un mondo d’amore” , una canzone pacifista e tenera, i Giganti osarono un pezzo come “Proposta” che arrivava al più disarmante, fantasioso degli slogan: “mettete dei fiori nei vostri cannoni”.
le altre puntate della storia collettiva
Armando Staffa:
Paolo De Vita:
Peppe Fioritto & Pino Cenzato
Pierluigi, mi hai commosso. Siamo cresciuti insieme. I nostri ricordi si fondono con quelli delle nostre mamme e di tutti gli amici che in quegli anni della adolescenza ci hanno accompagnato nella crescita, consentendoci di attraversare con maturità il periodo della grande rivolta giovanile del 68. Momenti indimenticabili come le notti passate al ciclo stile della facoltà di Architettura per preparare i volantini delle manifestazioni del giorno dopo oppure gli attacchi e le “mazzate” beccate dai celeri i o dai fascisti. Grazie amico mio per essermi sempre vicino
Che belli i miei amici
È una storia che in qualche modo mi appartiene e mi emoziona…Questi ragazzi degli anni 60..non solo hanno arricchito le loro vite..ma anche quelle di chi li ascoltava dietro le quinte…..bravi tutti