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Un limone al tempo del colera

L’estate del 1973 si era presentata fin dall’inizio col piede sbagliato. A metà luglio, con l’ennesima manovra economica, il governo Rumor aveva autorizzato l’aumento del costo della farina. Nel Mezzogiorno d’Italia, il pane è sempre stato un alimento fondamentale per la popolazione, per cui fu quasi naturale che i panificatori, in particolare quelli napoletani, attuassero una serrata. E fu anche “naturale” che qualche ora più tardi, il 17 luglio, nei quartieri più popolari si procedesse all’assalto dei forni. Sembravano scene uscite dai libri di storia o dai documentari in bianco e nero. E invece erano vere e a colori. Naturalmente la città fu presa d’assalto da cronisti di tutto il mondo e finì su tutte le prime pagine dei giornali. Con quali giudizi si può facilmente immaginare. Ma era solo l’inizio. Un mese più tardi alcune donne vennero ricoverate all’ospedale di Torre del Greco con violente e inarrestabili gastroenteriti. In poche ore si capì che c’era qualcosa di strano e fu disposto l’immediato trasferimento all’ospedale Cotugno di Napoli, l’unico veramente specializzato per casi del genere. Il verdetto fu quasi immediato: colera. Un morbo che tutti conoscevano e temevano, ma che ormai era lontano 90 anni dalla sua ultima apparizione. Giornali, radio e televisione erano gli unici propagatori di notizie all’epoca. La Rai aveva solo due canali e le tv private non erano ancora decollate. Ma tutti i mezzi di informazione all’inizio si tennero cauti. La notizia, specie quando si dice e non si dice, iniziò a passare di bocca in bocca. Come un tamtam si propagò per la città ancor prima che fosse dichiarato lo stato di emergenza. Ogni sirena di ambulanza era vissuto prima con grande sospetto e poi con il classico attacco di panico collettivo. Le notizie allora iniziarono a filtrare in modo più regolare e dai tg e dai giornali partì una campagna di sensibilizzazione tesa a evitare di mangiare cibi crudi, specialmente le cozze e a lavarsi le mani… Di lì a poco furono proprio le cozze a essere accusate di aver portato il vibrione del colera in città. Quintali di mitili e di pesce furono distrutti in poche ore. La polizia usò le maniere forti nell’attuare i sequestri contro i pescivendoli e i cozzicari. AMergellina gli scontri di piazza durarono giorni. E i rivenditori di frutti di mare giuravano, a ragione, che le loro cozze erano sane e si facevano fotografare mentre le mangiavano crude. Solo molti mesi più tardi, quando la condanna senza appello dei frutti di mare era stata eseguita e l’emergenza era finita da tempo, si seppe che i mitili infetti erano stati individuati solo in una partita proveniente dalla Tunisia. E da lì il vibrione si era diffuso in città, ma anche in Puglia e a Bari. Intanto ogni nuovo ricoverato per sospetta infezione, gettava tutti nello sconforto più totale. Finchè tra le sempre più frequenti sirene delle ambulanze, non iniziarono le proteste per rivendicare la vaccinazione dell’intera popolazione. Poi si alzarono i roghi di spazzatura nei quartieri periferici – non era ancora la terra dei fuochi e non si sapeva nulla della diossina.

foto di Tano D’Amico (1973)

L’assalto alle farmacie per comprare l’Ambramicina, l’unico medicinale ritenuto efficace. E infine la corsa dai fruttivendoli per accaparrarsi i limoni -unico rimedio naturale ritenuto salvifico, se si esclude San Gennaro. I risultati furono immediati: le farmacie in poche ore avevano esaurito le scorte e i fruttivendoli i limoni, che viaggiavano a prezzi proibitivi, vista la richiesta. L’unica novità positiva fu diramata direttamente dall’autorità prefettizia e dalle istituzioni: la popolazione era chiamata a vaccinarsi nei centri appositamente distribuiti sul territorio. Per l’occasione, alle strutture sanitarie pubbliche, si affiancarono i medici americani di stanza alla Nato di Bagnoli. Al Palazzetto dello Sport di Viale Giochi del Mediterraneo, struttura individuata dal Comune, la fila era così lunga che non si capiva dove iniziasse. Decine di volontari vigilavano sulla regolarità di quella lunga“processione” della speranza, sotto il sole. Rispondevano alle domande e rassicuravano sull’esistenza di vaccini per tutti. La domanda più ricorrente era se la pistola dei medici americani facesse male. Infatti i sanitari degli States usavano una pistola che pungeva il braccio e al contatto inoculava il vaccino, un sistema già usato in Vietnam, dove però gli americani distribuivano anche le bombe al napalm. Dopo la seconda guerra mondiale Napoli aveva imparato a diffidare dell’aiuto degli alleati e come sempre si scatenò un’accesa discussione: perché lo facevano ? La risposta più diffusa fu la paura. La paura che il contagio aggredisse anche loro, che in centinaia risiedevano in città o nelle vicinanze con le famiglie. Inoltre, per gli evidenti motivi geo-politico-militari, non potevano certo farsi intimorire, o peggio, farsi mettere in fuga da un vibrione qualsiasi. Ad onor del vero però la collaborazione italo americana portò al risultato di un milione di persone vaccinate in soli 7 giorni. Un record. All’epoca abitavo a Bagnoli, quindi poco distante dal Palazzetto. Avevo 17 anni e mezzo e il delirio di onnipotenza di un’età in cui, a ragione, ci si crede immortali. Perciò non fui tra i primi a mettermi in fila, ma spinto dai genitori, un tardo pomeriggio mi sottoposi all’estenuante attesa. Faceva caldo e tutto intorno era un parlare e riportare di ricoveri di sospetti malati che si concentravano in quella strada se non in quel palazzo. Un clima da untori, insomma. Poi le chiacchiere si spostavano sulla difficoltà di individuare cibi sicuri e sui prezzi dei limoni, che si trovavano molto raramente e solo a 3.000 lire al chilo (l’equivalente odierno di 30 euro al chilo…). Mi attardavo ad ascoltare distrattamente, mentre controllavo continuamente l’orologio. Ero incerto se restare o andarmene, quando notai un veloce movimento di persone che uscirono dalla fila. In un baleno si era fatto un folto capannello intorno a due giovani dalla notevole prestanza fisica. Si capiva dalle voci che c’era una trattativa in corso. 3.000 o 3.500 lire erano i numeri più ricorrenti. Poi le voci si alzarono, ci fu un parapiglia e si videro scivolare, tra le gambe dei presenti, alcuni limoni che rotolavano tranquilli verso di me. Non ebbi il tempo di realizzare il pericolo che stavo correndo a poca distanza da quel mercimonio di contrabbando. In un baleno si aprì la caccia al limone. Una vecchietta che stava un passo davanti a me nella fila era caduta a terra, spintoni, urla e calci,una scena da corsa all’oro. Mi precipitai sull’anziana donna, facendole scudo col mio corpo per evitare che fosse calpestata. Intervennero i volontari e poco dopo tutti avevano ripreso il proprio posto nella fila, mentre i due contrabbandieri di agrumi si erano volatilizzati, scomparsi così come erano apparsi. Intanto avevo aiutato la signora ad alzarsi e a risistemarsi gli abiti. Qualche ammaccatura, ma niente di rotto per fortuna. Passammo il resto del tempo a farci compagnia. Io le ricordavo un nipote lontano e lei mi ricordava mia nonna. Tre ore più tardi toccò a noi. La pistola punzonava a ripetizione in una catena di montaggio sanitaria: un infermiere, disinfettava con l’alcool, il medico iniettava il vaccino e un altro infermiere applicava il cerotto. Quando uscii dal Palazzetto, mi sentii chiamare. Era la vecchietta, mi si mise sotto il braccio e mi chiese di accompagnarla per un pezzetto di strada. Appena fummo sufficientemente lontani.Mi guardò con un sorriso di complicità, estrasse dalla borsa un limone e me lo offrì. “Tieni mi disse, non ero caduta…ne ho presi due, uno per te e uno per me…”. L’abbracciai come fosse mia nonna e non provai nemmeno a rifiutare. Sapevo che l’avrei offesa a morte. Ai tempi del colera un limone è molto più di un agrume. E’il sapore della solidarietà, quella vera, quella tra chi soffre.
Il colera del 1973 comportò 24 decessi accertati a Napoli e 9 in Puglia. I ricoveri per sospetta infezione furono 911 e 277 i casi accertati. L’ emergenza terminò nei primi 15 giorni successivi al 24 agosto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarò concluso il rischio due mesi dopo, il 25 ottobre.
Di quella brutta esperienza restano solo due ricordi “collaterali”. La collaborazione istituzionale del PCI campano con il sindaco democristiano Gerardo De Michele, per “sconfiggere il colera”. Una scelta che, poche settimane dopo – “giustificata” dal golpe fascista, filodemocristiano e filoamericano in Cile dell’11 settembre – anticipò il compromesso storico in Italia. Ancora una volta Napoli, anche nelle tragedie, era in anticipo sulla storia. E poi il caffè. Dal settembre del 1973 a Napoli, per disposizione del sindaco, le tazzine del caffè devono essere sterilizzate dopo ogni uso. Così tutti i bar napoletani, da allora, sono forniti di bollitori. Un problema per chi ha le labbra molto sensibili alle ustioni. Una curiosità per i tanti turisti che invadono oggi la città e che in buona fede credono che la tazzina bollente sia l’ennesimo espediente dei napoletani per tenere calda la loro bevanda preferita.
Una storia davvero lontana. O forse ancora drammaticamente vicina in questi giorni di epidemie – e pandemie, chiacchiere e panico – da coronavirus.

 

nell’immagine: la vaccinazione di massa da parte dei medici militari americani di stanza a Bagnoli 

Pubblicato inGenerale

3 Commenti

  1. Vincenzo Perrotti Vincenzo Perrotti

    Una foto efficace, che ci ricorda che la storia ha già visto tutto. Grazie Gianni.

  2. Anna Anna

    Che bella storia e che bella testimonianza. Io ne ho soltanto un vaghissimo ricordo, quasi un sogno, essendo piccolissima a quell’epoca ma ricordo di una vaccinazione di massa e credo fosse proprio quella.

  3. Vanna Vanna

    Un bel racconto di un’estate col vibrione, che anch’io ricordo molto bene.
    Per me l’allarme colera coincise con la gioia di un viaggio in Calabria al tempo dei fichidndia maturi . Quella vacanza imprevista sostituì alcuni giorni di scuola. Le lezioni erano sospese, anzi fu rinviato proprio l’inizio dell’anno scolastico.

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