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Via Cilea

E’ la via di Napoli che ho percorso più volte fino alla mia prima gioventù.
Almeno da quando frequentavo la terza media in una scuola di Via Belvedere: preferivo arrivarci non passando sotto il ponte ma tirando diritto da Via Gemito in Via Cilea per poi raggiungere la mia scuola girando
in una stretta traversa, che aveva un fascino particolare. Lì, ad angolo, c’era il negozio dove potevo fermarmi per sognare. Si chiamava “Casa Mia” con un’insegna che rappresentava appunto una casa e due vetrine piene, colme di giocattoli di ogni tipo e poi, in una vetrina stretta e lunga laterale, in bella mostra un’intera collezione di modellini di macchine di tutti i tipi, comprese le coupè, le spider e quelle da corsa. Uno sballo.
Anche per andare al liceo dovevo passarci davanti ed il rito continuò per un po’ di tempo, finché l’accorgermi che ci passavo senza lanciare a quelle vetrine nemmeno un’occhiata distratta, mi segnalò che stavo crescendo.

Andavo al liceo, un mondo nuovo e sfidante.

A passo svelto percorrevo la via, giravo in un’altra stretta traversa a sinistra e la percorrevo quasi fino in fondo: in un appartamento di un palazzo era stata organizzata una scuola, la succursale di un liceo scientifico: noi facevamo tutti parte della generazione dei baby-boom, eravamo tanti e gli spazi per noi erano sempre troppo esigui e le classi sempre affollate.
Rimasi in quella succursale per i primi due anni del liceo; anni tranquilli, avevo conosciuto Armando, Paolo e Peppino e avevamo formato una band (allora si diceva complesso): a me, che non avevo mai suonato uno strumento, mi fu assegnato il compito di imparare a suonare la batteria, che, in effetti, sembrava essere a portata di tutti, anche mia. Diventammo naturalmente amici molto stretti, perché il sabato e la domenica ci vedevamo per le prove dove abitava Armando.
Dopo il secondo liceo però ci separarono, la nostra sezione fu smembrata; io rimasi in quella stessa traversa ma in un altro palazzo.
Ma per me, che mi ero rintanato nel piccolo gruppo di amici e adesso ero rimasto da solo, fu un vero salto nel vuoto.

Davanti scuola si formavamo capannelli e a me sembravano tutti più adulti di me, ragazzi con le fattezze, le abitudini, la camminata da uomini.

Quelli di loro che fumavano, sembravano ancora più sicuri di sé: facevano capannello insieme, scherzavano, ridevano, consumavano la pizzetta, si sfottevano a vicenda, parlavano e ridevano ad alta voce. Qualche volta mi avvicinavano tanto da sembrare di far parte del capannello, ma in maniera silente. Osservavo e capivo, o almeno credevo di capire, cosa significasse “essere adulti”: commentare con sicurezza qualsiasi vicenda, essere assertivi, ammiccare, buttare uno sguardo alle ragazze che, poverette, era così bardate nei grembiuli neri (a quel tempo e in quella scuola obbligatori) che sembravano costituire una macchia nera a se stante in quel mare coloratissimo dei compagni maschi.
Io ascoltavo, annotavo mentalmente e mi guardavo intorno. C’era un ragazzo che si distingueva da tutti. Era alto, si aggirava fra un capannello e un altro con un’andatura dinoccolata, qualche volta si avvicinava anche a quello delle ragazze, era molto magro, era riccioluto, indossava un paio di occhiali tondi (che, più tardi, molto più tardi, avrei capito che erano simili a quelli di Antonio Gramsci) portava con sé sempre pochissimi libri, non ricordo di averlo visto con un cappotto – indossava spesso una giacca più grande della sua taglia – ma la cosa che mi sorprendeva di più è che portava o in mano o nella tasca della giacca un giornale ripiegato. Posso affermare, senza timore, che fosse l’unico fra tutti o, certamente, uno dei pochissimi ad avere quell’abitudine.
D’altronde il giornale quotidiano per me era davvero una cosa sconosciuta a sedici anni – tanto ne avevo in terza liceo scientifico – perché in casa non ne avevo mai visto uno. Mio padre leggeva “Epoca” un settimanale conservatore che aveva il pregio di pubblicare foto bellissime di un fotoreporter: Mario De Biasi.

Gaetano Balzano, questo il suo nome, portava con sé una copia de L’Unità.

Ma non ricordo di averlo visto leggere davanti alla scuola. Una mattina, verso le undici – non ricordo se stavamo in quarta o in quinta – lo aprì in classe: Gaetano cominciò una protesta individuale contro quella che diceva essere una discriminazione a danno di noi studenti. I professori, in un modo o nell’altro, potevano godere di qualche minuto di relax fra una lezione e l’altra, per noi studenti, viceversa, non era prevista nessuna “pausa” ufficiale, legittima, prevista, cioè, dall’ordinamento scolastico. Le pause era rubate, nei cessi; dove si andava a fumare di nascosto o ci si dava appuntamento o si sbocconcellava un fruttino: gli studenti non avevano “diritto” a fare un spuntino e sgranchirsi le gambe nel corso di una mattinata interminabile. Era un’ingiustizia. Dopo la fase dell’apertura del giornale in classe, Gaetano passò ad apparecchiare il banco per consumare una colazione, un panino, una graffa, una fetta di torta, sempre alle undici, tutti i giorni.

Il vento sociale cominciava a cambiare. Era la fine del ’67 o i primissimi mesi del ’68, gli universitari di Nanterre, forse, in quello stesso periodo cominciavano a muovere i primi passi di una rivolta che avrebbe contagiato, in un modo o nell’altro, tanti di noi. Le antenne molto sensibili di Gaetano intercettavano quel vento o, più semplicemente, lui era già “oltre” quel nostro modo di vivere come studenti ubbidienti, poco più che adolescenti ma già conformisti, borghesi avrebbe detto lui.

Quando si fermava a parlare con qualcuno lo guardava diritto negli occhi, sorrideva, agitava le lunghe braccia e faceva domande dirette, strizzando un po’ gli occhi. Mi hanno raccontato che dopo, molto dopo, alla presentazione di un libro di Paolo Spriano, lo storiografo del PCI, in una libreria di Napoli, Gaetano gli chiese conto, con durezza e senza perifrasi, del suo innamoramento per Berlusconi. Maria Rosaria, detta da sempre “Maddy”, il cuore caldo del piccolo gruppo di ex compagni  di classe del liceo che continuano a mantenere i contatti – sopratutto grazie a lei – dopo mezzo secolo, ricorda un aneddoto che riguarda Gaetano. Lui studiava con tre compagni di classe – Franco, Salvatore e Donatello – e telefonavano a lei per avere un aiuto per il latino. Nel corso di una di quelle telefonate, diventate consuete, Gaetano si fece passare la cornetta e chiese a Maria Rosaria che libro stesse leggendo. Un libro dell’adolescenza femminile, Piccole Donne della Alcott – rispose lei. La mattina seguente Gaetano andò da Maria Rosaria e le diede un libro e con il suo sorriso aperto, strizzando un po’ gli occhi, le intimò: “Leggi questo che è più bello”. Era il Diario di Che Guevara.

Gaetano è morto suicida nel 2010. Insegnava Storia e Filosofia in un Liceo (senza nome) di Bacoli e Monte di Procida. Il suo funerale è stato fatto sulla spiaggia di Capo Miseno. La biblioteca del Liceo, per costituire la quale aveva lavorato per anni, è stata intitolata a lui. L’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici che ha sede a Napoli lo ha commemorato ogni anno.

Da quando ho saputo della sua morte, ho cercato le sue tracce sul web. Ho trovato la fotografia sgranata che pubblico qui – e che lo ritrae in classe, mentre parla sorridente come faceva lui – e i ricordi dei suoi ex alunni.

Uno in particolare mi ha colpito:  è di un certo Gaetano Illiano, che lo ha frequentato anche dopo il liceo e racconta che “chiacchieravamo del più e del meno e soprattutto di come cambiare il mondo”.

Quell’idea fissa, quella speranza di cambiamento “dello stato di cose presenti” che lo ha accompagnato per tutta la vita e, forse, quando lo ha abbandonato, gli ha tolto la ragione per vivere.

Ciao Gaetano.

Pubblicato inLuoghi del Cuore

2 Commenti

  1. Elio Elio

    Caro Pier , Il tuo racconto mi ha fatto rivivere la nostra epoca e gli anni in cui credevamo di poter cambiare tutto ! Molte cose più sono cambiate veramente e anche noi abbiamo chi più chi meno comunque contribuito ! Via Cilea per me che abitavo a San Martino era fuori zona ma le partite quante partite di pallone giocare nel campetto su via Ribera ! Oggi tutto cemento ! Ma il negozio di “casa mia” sta ancora dove lo hai lasciato ed ancora oggi anche io mi fermo a guardare le sue vetrine di giocattoli per i nipotini ! Un abbraccio affettuoso ! Elio

  2. Lulamae Lulamae

    Mi piace tanto “Piccole donne”, e i tre romanzi che seguirono.
    Ho letto anche la biografia del Che, da adulta, e altre cose che lo riguardano.
    Ogni libro ha un valore. E un’età per essere letto. Tutto insegna e fa riflettere, spero criticamente, collocando nel proprio tempo.
    Posso garantire che le cose sono cambiate a scuola, rispetto, almeno, ai tuoi tempi, non ai miei, successivi, in cui ho potuto apprezzare professori molto severi, sì, ma bravissimi e preparatissimi, che mi hanno in larga misura resa quella che sono, con successo formativo e lavorativo.
    Oggi, da docente, io, in bagno, non riesco MAI ad andare. Con tanto bruciore, soprattutto dopo i cinquant’anni…

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