Quando ero bambina, durante le vacanze estive, trascorrevo giorni spensierati in una grande fattoria con due amiche, due gemelle, più grandi di me di un anno. Mi accompagnava laggiù, in bicicletta, la sorella delle gemelle che era anche la mia madrina della cresima. Seduta su una piccola asse di legno poggiata sul telaio della bicicletta da donna e con una “sportina” contenente qualche indumento di ricambio, partivo felice insieme a lei per il viaggio emozionante che mi avrebbe condotto in un luogo indimenticabile. Le stradine di campagna non ancora asfaltate rendevano il percorso avventuroso e a ogni buca evitata, a ogni salto della ruota, a ogni movimento strano del manubrio le risate facevano compagnia a entrambe. I moscerini ci sfioravano o qualche insetto ci pungeva ma noi imperterrite continuavamo nel nostro percorso… L’impegno e la fatica di spingere erano affidati a mia “santola”; anch’io, però, dovevo cercare di stare ferma per non far perdere l’equilibrio alla ciclista e… all’arrivo il formicolio delle gambe rendeva incerti i miei movimenti abituali. E le mie cosce e il mio fondoschiena erano ammaccati e doloranti per la lunga permanenza sull’asse di sostegno.
Nella fattoria tutto era ben organizzato. Superato il grande cancello di ferro, appena entrata, mi sentivo in un luogo sicuro e protetto dove nei grandi spazi ogni cosa aveva una collocazione e uno scopo. Sulla destra, davanti alla grande casa padronale, l’aia era lastricata di mattoni rossi e, nel periodo estivo, era ombreggiata da un lato dai tralci ben curati di due vigne rigogliose. E lì, sotto l’ombra, la pompa dell’acqua garantiva ristoro, nelle giornate afose, ai lavoratori, al rientro dalla campagna. Intorno all’aia, ad equa distanza una serie di costruzioni usate come deposito attrezzi e granaio. In un angolo si intravedeva il letamaio e sulla sinistra del grande cortile la stalla che, con il suo porticato, occupava un ampio spazio della fattoria. In fondo , a fianco del granaio, prima del vigneto delimitato da rigagnoli di acqua corrente, si vedeva il “Brolo” con gli alberi da frutto su una distesa di erba sempre ben falciata.
E proprio da lì, dal brolo, ogni giorno, nel tardo pomeriggio, la zia Rosa con il suo incedere lento e solenne giungeva al seguito di una frotta di polli che accettavano di farsi riaccompagnare nel pollaio per la notte. Li guidava con un bastone e con uno strano richiamo. Era straordinario questo rituale che garantiva la riunione serale di galline, anatre e tacchini ormai sazi e obbedienti a quella signora corpulenta e premurosa nei loro confronti.
All’arrivo, verso sera, superato il cancello, si scorgeva in lontananza la zia Rosa. La mia santola ed io restavamo a guardare, zitte e immobili, la sua passeggiata al seguito degli animali. Nessuno, in quella fattoria, aveva tentato qualche volta di turbare il rituale: i polli non si dovevano spaventare e il compito di zia Rosa doveva essere rispettato.
La zia Rosa, il sostegno della famiglia, era la cognata delle due capofamiglia, le vedove dei suoi due fratelli. Una era la mamma delle gemelle, di mia “santola”, e di altri due figli, l’altra era mamma di un maschio e tre femmine. Ho imparato solo da grande ad attribuire ad ogni ragazzo e ragazza la loro mamma. Questo non era importante! Lì con loro si stava bene!!!
I due ragazzi accudivano la stalla aiutati dal “bovaio” che viveva con la sua famiglia nella casetta al di là della stalla, verso i campi coltivati. Le ragazze più grandi e le loro mamme aiutavano nel lavoro dei campi ma non trascuravano la sistemazione delle loro stanze. Le gemelle erano ancora piccole per aiutare nei lavori e rimanevano nell’ambito della fattoria con la zia Rosa che sovrintendeva al buon andamento della casa. E per i giorni della mia permanenza anch’io ero affidata alla custodia della zia, quando i grandi erano al lavoro.
Zia Rosa era una donna alta, robusta, vestita sempre con abiti scuri riparati dal grembiule che toglieva solamente il giorno in cui doveva recarsi al mercato, giù in paese. I capelli ormai grigi, raccolti in una crocchia nella parte posteriore del capo lasciavano scoperta la fronte rigata da una profonda ruga. Il suo sguardo, severo e penetrante, esprimeva disapprovazione o accondiscendenza in modo preciso e chiaro a chi si rapportava con lei . Non rideva mai. Nonostante il suo aspetto, però, non incuteva timore; la sua austerità era legata al ruolo ricoperto nell’ambito familiare , un ruolo che lei aveva scelto e che gli altri le riconoscevano di buon grado. L’ordine degli spazi nella grande fattoria, la cura dell’orto, la preparazione di pasti, l’allevamento dei polli erano le sue incombenze quotidiane svolte con perizia e precisione. Le varie attività negli ampi spazi annessi alla casa seguivano regole non scritte che zia Rosa faceva rispettare senza imposizioni quasi come un direttore d’orchestra. I ragazzi più grandi impegnati nei lavori dei campi la aiutavano a sistemare il terreno dell’orto ma alle ragazze chiedeva aiuto nel pulire i fiori dalle male erbe o per sciacquare il bucato o per pulire la cucina. Senza forzature, governava la casa con l’aiuto di tutti. Non alzava mai la voce e parlava poco. Le sue opinioni, però, espresse a tavola, al momento in cui tutti erano riuniti per il pranzo o per la cena apportavano al dialogo familiare delle riflessioni ponderate e assennate alle quali tutti cercavano di far riferimento quando dovevano prendere decisioni.
A lei era riservato il privilegio di uno spazio privato al quale si accedeva dalla ampia entrata, dalla parte opposta della cucina, un angolo della grande casa padronale lontano dagli spazi occupati dagli altri . La porta di ingresso alle sue camere era sempre chiusa e nessuno entrava senza essere invitato. Lei non si era mai sposata e tacitamente, richiedeva questa speciale concessione in cambio della dedizione alla famiglia non sua.
Le gemelle ed io eravamo molto curiose come tutti i bambini di quella età e inevitabilmente eravamo attirate dai segreti che le stanze di zia Rosa nascondevano e talvolta senza farci scoprire entravamo in quei luoghi, per noi carichi di mistero.
Ci si trovava subito in un salotto arredato con mobili imponenti con al centro un massiccio tavolo sempre coperto da una pesante tovaglia ricamata. Il tavolo era dominato da un grande vaso in ceramica che nella bella stagione zia Rosa colmava con le zinie colorate, le bocche di leone e le dalie, fiori coltivati da lei in un angolo dell’orto. Sopra le massicce credenze erano posate statuine, ninnoli e cornici con foto sbiadite. La penombra permeava sempre quelle stanze e con difficoltà si riuscivano a cogliere le fattezze degli oggetti o il loro valore. Lì dentro, senza dubbio, noi bambine avremmo scoperto chissà quali segreti! Anche le tende pesanti contribuivano a creare l’aria di mistero del luogo, nonostante l’accuratezza e l’ordine di mobili e oggetti. Se nessuno si accorgeva della nostra scappatella esploravamo anche la sua stanza da letto. Anche questa era arredata con mobili austeri e oscurata da tende ma, in un angolo, un mobile in stile diverso attirava la nostra attenzione perché lì c’erano un grande specchio, un capiente catino in ceramica, una brocca sempre colma di acqua e degli asciugamani con le iniziali del nome, ricamate con fili colorati. Tutto era sistemato con precisione dalle coperte del letto, che non presentavano grinze, alla spazzola per capelli posta a fianco del catino. Anche questa stanza era in penombra e i segreti non si palesavano!! Nel periodo estivo, però, quando in campagna il lavoro era più intenso e gli impegni anche per la zia crescevano, le stanze non erano forbite con l’accuratezza di sempre. Il raggio di sole che dai balconi socchiusi riusciva a far capolino metteva in evidenza il sottile strato di polvere che velava la superficie di ogni cosa. E questo faceva sorridere noi bambine perché finalmente scoprivamo una piccola falla nella precisione delle sue attività.
L’allevamento dei polli, però, era la sua incombenza principale nel periodo estivo. Durante le giornate assolate e calde lei lasciava muovere liberamente nel cortile e nel “brolo” ,sotto le grandi piante da frutto, un cospicuo numero di galline, anatre e tacchini . Dopo la cova era particolarmente attenta ai pulcini e agli anatroccoli nati da poco: lei teneva sotto delle grosse ceste di vimini chioccia e pulcini per tutelarli da eventuali pericoli. E quando i piccoli crescevano legava una zampa della chioccia o dell’anatra ad una pianta da frutto : non si allontanavano “le mamme” e non si allontanavano i piccoli. A una certa ora del giorno non dimenticava mai di portare ai polli mais tritato: lei riempiva di becchime il suo ampio grembiule ripiegato e lo distribuiva a piene mani sul prato emettendo un verso strano di allettamento per gli animali. E questi, rispondendo al richiamo, si avvicinavano velocemente per godere dell’abbondante cibo.
Noi bambine, sempre all’aperto a giocare nel prato o a bagnarci nei rigagnoli di acqua corrente che delimitavano i campi, all’arrivo di zia Rosa osservavamo i suoi gesti e abbandonavamo il gioco per non disturbare le sue operazioni. I nostri movimenti potevano spaventare i polli e allontanarli dal cibo che la zia pazientemente distribuiva.
I suoi gesti precisi e solenni, e il richiamo di invito destavano curiosità; e noi bambine eravamo attente a rispettare questa mansione che non era affatto un gioco!! I tacchini, sazi e ristorati dall’acqua fresca attinta al pozzo da zia Rosa e versata nei grandi catini sparsi sotto gli alberi, si pavoneggiavano impettiti per tutto il cortile. E la sera, all’imbrunire, per aiutarla a guidare il pollame a rientrare nel loro recinto anche noi bambine eravamo chiamate a fornire un piccolo aiuto: dovevamo eseguire i suoi ordini e seguire con cautela gli animali per impedirne l’allontanamento. Solo alla chiusura del cancelletto del pollaio eravamo libere di riprendere le nostre attività.
C’era un comportamento di zia Rosa, però, che distraeva noi bambine dai giochi e ci faceva rimanere in osservazione incuriosite e soprattutto invidiose per la ritualità dei preparativi. Il giorno di mercato era l’unico giorno della settimana che la zia si allontanava dalla fattoria per recarsi al paese per i necessari approvvigionamenti della famiglia. Tutti nella fattoria erano allertati per la “cerimonia” della partenza. Le sere precedenti, durante la cena, ogni persona aveva espresso le proprie necessità e aveva sollecitato alcuni acquisti. Lei prendeva nota di tutto e il giorno di mercato si alzava prima del solito, sistemava i polli nel brolo e si preparava con accuratezza con il vestito “da festa”. Nel frattempo i ragazzi strigliavano la cavalla, preparavano il calessino e lo sistemavano a fianco della grande aia. Quando zia Rosa usciva dalla porta d’ingresso, prendeva gli ultimi accordi con le sue cognate e saliva con sicurezza sul calessino. I ragazzi le porgevano le briglie e il frustino che lei impugnava con maestria. Con la sua corporatura imponente, sembrava ancora più alta e assumeva un aspetto più autorevole del solito. Tutti la salutavano e lei dopo aver fatto schioccare in aria il frustino faceva partire la cavalla lentamente fino all’uscita dal cancello che per l’occasione veniva spalancato. Da quel punto in poi chi era rimasto a casa riprendeva le proprie incombenze e io ascoltavo il rumore degli zoccoli dell’ animale che sbattevano sul terreno sassoso. Il ritmo dei passi accelerava e poi si perdeva in lontananza.
E in quei momenti desideravo sedermi accanto a zia Rosa per viaggiare in quel mezzo di trasporto così affascinante. Pensavo a come imparare anch’io a guidare la cavalla così servizievole ma così grande e grossa rispetto a me bambina. Studiavo, soprattutto, un piano per convincere Zia Rosa a farmi sedere accanto a lei la settimana successiva!!!
Zia Rosa
foto di copertina: Occhi neri di László Horvath
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